Rottame di sogno (prima parte)
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo…”
Puoi chiudere fuori le strade e le piazze, puoi chiudere fuori il Tempio e anche le sue parole puoi chiudere fuori. Puoi ammutolire il cielo, smettere di pregare, guardare le cose per quello che sono senza far per forza rotolare la farina e i gigli e le monete in parabole. Puoi dirti di aver sbagliato a seguirlo, puoi giurare di non averlo mai conosciuto e crederci davvero stavolta perché tu quell’uomo sfigurato appeso alla croce non l’avevi conosciuto fino in fondo. Puoi sperare di non vedere più sua madre, puoi stare alla larga dal sepolcro puoi fare tutto questo ma c’è una cosa che a quel punto io non son riuscito a togliermi di dosso: che sono stato suo discepolo e che ancora mi sentivo tale, nonostante tutto. Anche lì.
Come una malattia, come un sigillo, come una condanna. Chiuso in quella casa potevo fingere su tutto ma non che lo avevo amato. Ero marchiato a fuoco, condannato a fare i conti a partire da quei tre anni di vita visionaria. Avevo chiuso il mondo fuori da quella stanza, avevo gli occhi bassi e il cuore accartocciato, avevo paura che qualcuno si ricordasse di me, avevo qualche lacrima e molti silenzi. Avevo sensi di colpa che giocavano con le mie ultime azioni, ero solo rottame di sogno, eppure continuavo a essere discepolo, nonostante me.
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Così se qualcuno avesse saputo ascoltare avrebbe visto che in quel cenacolo sembrava di essere in una chiesa. Come unica liturgia lo smarrimento, come unico libro sacro il silenzio, come unico Dio l’Assente. Ero spacciato, e con me gli altri discepoli, non riuscivamo a liberarci di Lui. Questo sentivamo con una rabbia mista a stupore. Forse Giuda si era impiccato proprio per quel motivo, non era riuscito a liberarsi di Lui.
Se l’hai incontrato davvero risulta impossibile ricominciare a vivere come se nulla fosse successo. La fede è una condanna, come l’amore, mette in trappola. Bisognerebbe esserne coscienti prima, che la fede, come l’amore, graffia la vita. La segna per sempre.
Quella fu la prima volta che percepii chiaro il dramma di essere finito nella rete del Suo fascino, mi sentivo in trappola, avevo scelto di chiudermi in quella casa che sembrava in tutto e per tutto a un sepolcro ma nessuno aveva la pietà di venirmi a dare il colpo di grazia, restavo vivo e legato a Lui senza capire bene il perché.
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Il paradossale dono della pace (seconda parte)
“Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi!”
Così ci siamo messi tutti a cercare dentro di noi, come ciechi, per tentativi, a quattro zampe, come bambini che non sanno camminare, come cani a cercare il proprio padrone, nel buio strisciare nel viscido odore del dramma, nel buio sperare di incrociare solo macerie taglienti, nel buio sperare di cadere in un burrone, nel buio implorare la notte di inghiottirci. Cercavamo solo conferme della nostra desolazione. Inciampare nella pace fu il primo grande scandalo.
Sedersi in un luogo pacificato nonostante l’inferno che avevamo intorno fu iniziare a comprendere cosa vuol dire credere e che vera fatica è cedere alla speranza. Sapere che c’è un posto, in mezzo all’inferno, in cui noi possiamo sempre fare esperienza di Lui, vivo. E volerci andare, e saperci restare e iniziare a credere che bere di quella pace non è un’offesa verso il dolore, verso chi è morto senza di noi, stare in quella pace senza i sensi di colpa di chi avrebbe invece preferito morire con Lui, stare in quella pace e avere il coraggio di dire che Lui ci aveva già detto tutto, che quel finale era stato profetizzato, che noi non avevamo voluto capire. Più ancora, raggiungere strisciando nel buio fino a quel punto pacificato, raggiungerlo ogni mattina con la fatica della meditazione, con la cocciutaggine della preghiera, raggiungerlo per imparare a dire “sia fatta la tua volontà , prendi anche me, mi affido alle tue mani”.
Chiusi in quella casa, strangolati dalla paura, avevamo raggiunto il nostro Calvario, la pace era dono per i crocifissi alla luce della croce. Capimmo che credere sarebbe stato il destino di chi ormai si era scoperto più discepolo di quello che credeva di essere, capimmo che credere non era altro che lasciarsi crocifiggere al cuore del mondo e sentire che lì, esattamente lì, sgorgava il paradossale dono della pace.
Baciati dal perdono (terza parte)
Le sue ferite erano le nostre, mentre sprofondavamo nelle sue stimmate improvvisamente aperte sotto i nostri piedi, mentre i segni dei chiodi, come velo di Tempio strappato, squarciavano nuove verità , quelle ferite diventavano per noi taglio femminile e fecondo, stavamo nascendo a noi stessi, con la consapevolezza che essere discepoli è franare nei propri peccati per fare esperienza, proprio lì e non altrove, di una pace ricevuta e sorprendente. Sentire che non siamo chiamati a far altro che mostrare le nostre dolorose ferite abitate da un Amore incomprensibile. Non siamo medici di nessuno, non saremo mai migliori di altri, siamo poveri traditori amati. Di cosa avremmo dovuto aver paura? Che senso aveva stare chiusi in quella casa? Cosa avevamo ormai da perdere, non avevamo già perso tutto, non avevamo già perso l’onore e la faccia e la credibilità ? Proprio per questo eravamo diventati credibili. La sua chiesa sarà credibile quando smetterà di voler apparire buona e affidabile, quando smetterà di giurare che farà pulizia dei peccatori e dei mediocri, che una chiesa di puri è esattamente la contraddizione del Vangelo. Siamo solo traditori impauriti, peccatori incalliti, ladri di felicità , prostitute senza onore, lebbrosi schifati dal mondo, scemi che farfugliano verità che i sapienti deridono, siamo impresentabili e inaffidabili, siamo così e siamo amati. Questo possiamo e non altro.
Fu un momento di grande consapevolezza, improbabili e balbettanti, scarto del mondo che conta, sentimmo provenire dal mistero del Cosmo la sistole del cuore di Dio, come il Padre ha mandato me, come prima di voi gli stolti hanno parlato di Lui, come i poveri, come i semplici, come i peccatori che vi hanno preceduto, così anche voi andate per il mondo. Ci sentimmo travolti e sospinti e finimmo a ritrovare la via della luce. E a sentire di aver finalmente trovato il nostro posto: i discepoli che seguivano il maestro e i relitti umani guariti dallo stesso ora erano una cosa sola, eravamo noi, nient’altro che graziati.
Fummo baciati dal perdono, e comprendemmo lo Spirito Santo, un brivido percorse la nostra schiena quando Lui disse che non avrebbero ricevuto perdono le persone che noi non avremmo perdonato. Ma come potevamo pensare di non perdonare chiunque, proprio noi, i piĂą inadatti ad accedere alla misericordia? Come potevamo non giurare che il suo amore fosse totale e gratuito?
Tommaso non era tra noi quel giorno, e giustamente non credette alle nostre parole, non si può credere per sentito dire, non ci convinceranno mai le testimonianze altrui. Serviva che anche lui franasse nel Risorto, a modo suo, perché ognuno di noi entra nel cuore del mistero a modo suo, che la Resurrezione è un itinerario personale e irripetibile. Finalmente anche lui lo chiamò “mio”, mio Signore e mio Dio. Ripensai spesso alle sue parole, mi resero umile, camminai nel mondo ascoltando di come ognuno può riuscire a incontrare il mistero e può farlo camminando per strade che io sentivo lontane e straniere. Mi piaceva ascoltare le storie più impensabili, il Suo agguato era sempre imprevedibile.
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”, è vero, beati invece quelli che si sentono guardati con amore, beato me quando ho alzato gli occhi e ho visto che piangevi per me, beato me quando a occhi chiusi ti sento vicino come il padre che non ho più, beato me quando smetto di voler vedere e mi guardo con i tuoi occhi di misericordia. beato me quando credo nell’amore, quando credo nella resurrezione, quando credo che tu sei qui, adesso, vivo, con me, perché solo credendoti posso sentire un mondo che canta l’Eterno.
AUTORE: don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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