LE SETTE PAROLE DI GESÙ SULLA CROCE

Introduzione

Dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Filippesi (Fil 2, 5-11)

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

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l’essere come Dio,

ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo,

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diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

“Gesù Cristo è Signore!”,

a gloria di Dio Padre.

Dio creatore è il poeta dell’amore. Poesia viene dal greco «poiein» che significa fare, creare. Si dice che l’uomo prima di parlare abbia cantato, che prima di scriver prosa abbia fatto poesia. Il Vangelo è la bella Parola che fa belle tutte le cose. Il Vangelo è Cristo Gesù, Parola di Dio, Bella Parola. San Paolo chiama il Vangelo anche la Parola della Croce. Essa è l’insegnamento più grande che Dio abbia lasciato all’uomo. Il Crocifisso Risorto insegna al suo discepolo a fare della propria vita il Vangelo, la poesia dell’amore, in modo da essere collaboratore della gioia dei fratelli.

La Parola della Croce crea in noi un cuore nuovo nel quale è riversato lo Spirito Santo. Egli dona la grazia di avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, il modello dell’uomo poeta, cantore e creatore di una nuova umanità che profuma di carità.

Ascoltiamo e meditiamo le sette parole di Cristo sulla croce.

I PAROLA

«Padre, perdona loro»

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 33-38)

Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: “Ha salvato altri! Salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”.

Dopo un processo farsa, Gesù viene condotto fuori delle mura di Gerusalemme in un luogo che era chiamato Cranio, forse perché era una cava di roccia nella quale emergevano degli speroni la cui forma ricordava, appunto, quella del cranio. Era un posto malfamato perché lì si eseguivano le condanne a morte. La vita terrena di Gesù, iniziata in una stalla per gli animali perché non c’era posto nell’alloggio, termina fuori la Città santa in mezzo ai malfattori perché considerato uno di loro. Nasce nella povertà e muore nella miseria. Quella palese ingiustizia avrebbe suggerito di utilizzare tutte le armi possibili per opporre resistenza alla morte, giustificando anche la violenza. A chiunque sarebbe ribollito il sangue subendo un’ingiustizia come quella patita dall’innocente Gesù. Lui, invece, «insultato, non rispondeva con gli insulti, maltrattato, non minacciava vendetta» (1Pt 2, 23). Mentre lo crocifiggevano Gesù pregava. Al coro di improperi, bestemmie e battute sarcastiche la vittima risponde rivolgendo lo sguardo al cielo e pregando per i suoi carnefici. I suoi occhi non sono iniettatati di rabbia, ma luminosi di speranza e di misericordia. Si rivolge al Padre perché di Lui conosce la grande misericordia e guarda agli uomini con profonda compassione facendosi loro intercessore. Da dove gli viene quella nobile mitezza, quale è la sorgente della sua tenerezza? É lo Spirito di Dio che parla in lui, per cui supplica insistentemente il Padre dicendo: perdona! Gesù sulla croce non può più aprire teneramente le sue braccia ai bambini per benedirli, ma accoglie nel suo cuore compassionevole gli uomini il cui peccato provoca più sofferenza dei chiodi conficcati nella carne. La preghiera è l’ultima carezza, quella dello Spirito: «Padre, perdona!». La carezza sulle mani di chi lo spoglia e lo inchioda, sulle labbra di chi lo insulta e lo deride, sugli occhi di chi sta a guardare impassibile quel macabro spettacolo. Perché perdonarli? Perché gli uomini sono ignoranti del vero amore, incapaci di vedere la verità e di riconoscere la presenza di Dio. Lo dimostra il fatto che lo demonizzano. Quando si è acciecati dal pregiudizio, dall’avidità e dall’egoismo si demonizza l’uomo. Si suppone di fare giustizia riducendo il reo al suo errore. C’è una sorta di accanimento e sete di vendetta che non si placa finché non si distrugge l’accusato. La violenza genera altra violenza e la giustizia è la prima vittima del giustizialismo. La preghiera è l’unica barriera all’onda lunga del male perché solo il perdono lo trasforma in bene. Il contrario della demonizzazione è la benedizione che Gesù invoca sugli uomini chiedendo per essi il perdono.

II PAROLA

 «Oggi sarai con me nel Paradiso»

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 39-43)

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava dicendo: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. E disse: “Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.

Nello scenario drammatico della crocifissione, tra l’indifferenza di chi è assuefatto alla morte e il sadico piacere di vedere soffrire di chi sublima la sua frustrazione con la violenza, si erge il grido disperato di un condannato e la supplica piena di speranza di un uomo che non cede alla rassegnazione. Durante il supplizio della croce Gesù prega il Padre in favore dei carnefici. Anche i condannati insieme a lui pregano. Uno di essi rivolge a Gesù una supplica che sa di sfida: «Tu che sei il Cristo, salva te stesso… e anche noi». Il suo ragionamento parte da un’idea di potere che nella misura in cui è esercitato con successo per sé, può essere anche condiviso con gli altri. Se Gesù ha veramente il potere di salvare dalla morte certamente quello è il momento più giusto per dimostrarlo. Per quell’uomo, Gesù è l’ultima chance per farla franca e per evadere. In definitiva, non gli interessa nulla di Gesù se non per il fatto che potrebbe aiutarlo a liberarsi. Non gli sta a cuore la salvezza ma il suo affrancamento. In questa logica chi riesce in qualche modo a salvare sé stesso, di sicuro non salva gli altri. Al contrario, chi ha a cuore la salvezza degli altri, salva anche sé stesso. Il silenzio di Gesù a questa provocazione, come a quella dei capi e dei soldati, denota che lui non è un eroe come i Giudici dell’Antico Testamento. Pensiamo a Sansone che, vedendosi ormai destinato a finire i suoi giorni nella cecità e nella cattività, usa la sua forza per fare vendetta: «Muoia Sansone con tutti i Filistei». La speranza puramente terrena è come la nebbia che svanisce quando stai ad un passo dal precipizio rivelando l’abisso della disperazione. Eppure, anche lì, c’è ancora un piccolo margine di libertà per convertirsi alla speranza. Come il figliol prodigo, anche il secondo condannato, riaccende nel suo cuore la speranza e il desiderio di stare con il Padre. Lui ha posto attenzione alla giaculatoria di Gesù: «Padre, perdona!». Si è sentito chiamato, preso per mano, coinvolto in quella supplica che ha fatto sua: «Padre, perdonami!». L’amore di Dio aveva fatto già breccia nel suo cuore. Perciò, dopo aver esortato il suo compagno ad avere timore di Dio, lo invita a riconoscere in Gesù, l’innocente, il Servo della misericordia, il Figlio di Dio, inviato a salvare. Nella morte innocente di Gesù, il malfattore vi intravede la grandezza dell’amore di Dio, superiore al peccato che merita la condanna. Il peccato porta alla morte, l’amore, che passa attraverso di essa, conduce alla vita. Il primo condannato chiede a Gesù di salvarlo dalla morte, che prima o poi l’avrebbe strappato da questa vita, invece il secondo supplica di «ricordarsi di lui», ovvero di averlo a cuore, di accoglierlo nella memoria di Dio, di introdurlo nella Casa del Padre. La risposta di Gesù rivela l’accoglienza della preghiera e il compimento della salvezza. Essa è il contrario del peccato perché questo è la condizione di chi vive il dramma della solitudine, mentre la salvezza è la gioia dello stare insieme, la letizia della comunione. L’oggi di Dio è il suo amore eterno, sempre presente. Quanta morte c’è nella solitudine di chi si sforza con un frenetico attivismo di essere il numero uno e vive le relazioni personali in funzione dei propri obiettivi. Dove c’è utilitarismo e individualismo non c’è l’amicizia che dà calore e colore alla vita. Quando la morte getta la maschera che illude possiamo afferrare la mano di Dio che rimane sempre fedele per coltivare l’amicizia con Lui e vivere nell’oggi la bellezza della comunione fraterna, finalmente libera da ogni forma di pregiudizio o strumentalizzazione.

III PAROLA

«Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua madre»

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 23-27)

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato -, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”. Così si compiva la Scrittura, che dice: Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte.

E i soldati fecero così. Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Dall’alto della croce Gesù assiste alla divisione del mantello in quattro parti e il sorteggio sulla sua tunica il cui valore si sarebbe perso se fosse stata strappata. I soldati si spartiscono il bottino, magra eredità di un condannato a morte. Quanta avidità nei gesti di quegli uomini imbruttiti dal male. Essi sono come quei vignaioli che uccidono l’erede per impossessarsi della vigna. Pensano di fare un affare, ma in realtà non si rendono conto che l’avidità, che rende omicidi, li sta portando a perdere tutto. La Scrittura predice un duplice destino: perdizione o salvezza. Dio scrive solo una storia di salvezza e invita l’uomo a diventarne protagonista; mentre, l’uomo, che tenta di correggerla, piegandola al suo interesse, scivola inesorabilmente verso un destino di perdizione. La croce di Cristo è l’albero di Dio piantato al centro del mondo, nel cuore dell’uomo. Ci sono quelli, come i soldati, che gli volgono le spalle incuranti di Lui, presi dai loro affari, e coloro che gli sono vicini, come Maria e i discepoli, che stanno presso la croce. Lo sguardo di Gesù non si sofferma sui soldati ma sulla madre sostenuta dal discepolo amato. Essi sono gli eredi non di ciò che gli appartiene ma di quello che egli è. Gesù regala ciò ha di più caro. Il tesoro di Gesù è il suo amore che non è possessivo ma oblativo. La madre e il discepolo sono insieme l’immagine della Chiesa amata da Gesù. La madre e il discepolo sono donati da Gesù l’uno all’altro. In questa consegna si compie il comandamento: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi». La vera eredità di Gesù è assumere la logica dell’amore che si fa dono e che non deve diventare possesso o controllo dell’altro. La Chiesa, che riconosce nella relazione tra la Madre e il Discepolo il modello della vita cristiana, è eletta come esecutrice testamentaria della volontà di Dio nel mondo. C’è un filo d’oro che lega Gesù al Padre e a Maria, sua madre. Presso la croce c’è il Padre invisibile e la madre visibile, entrambi accomunati dal dolore del Figlio e per il Figlio. La morte è causa di divisione e con esso il dolore dello strappo. Vi è una lacerazione interiore che non può essere ricucita e una ferita che non può essere sanata se non attraverso il dono dell’amore, cioè l’amore che si dona. In mezzo a tanto male che ci divide e ci contrappone, Dio dona in sorte il suo figliolo Gesù, unico come unica era la tunica tessuta tutta di un pezzo. Non è il caso a determinare la fortuna e non è la fortuna a causare la salvezza. La salvezza è una scelta di amore libera e consapevole di Dio. Come il Padre per amore accetta di perdere suo Figlio e di donarlo all’uomo, così Gesù nell’ora della morte accetta di staccarsi dai suoi affetti più profondi per donarli alla Chiesa. Donando al discepolo la Madre e alla Madre il discepolo, fa di Maria la Madre della Chiesa e del discepolo amato il figlio della Chiesa. Madre e figlio sono due modi di essere Chiesa, diversi e complementari. La Madre si prende cura dei suoi figli istruendoli nel mettere in pratica l’esempio di Gesù; il discepolo ama da figlio quando accoglie con gratitudine il dono dei fratelli che Dio gli affida e il onora con lo stesso rispetto riservato ai genitori. Amore e dolore fanno rima perché stanno bene insieme nell’atto generativo. La fede o genera vita o fede non è. La Chiesa diventa feconda se da figli la riconosciamo come madre e, da madre, accogliamo i figli di Dio come fratelli.

IV PAROLA

«Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 15, 33-36)

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”.

Nell’ora di maggiore luce la terra piomba nel buio più profondo. Nell’ora della morte di Gesù s’intrecciano il vertice della rivelazione della gloria di Dio e la massima manifestazione del potere delle tenebre. Il mistero dell’Incarnazione tocca il suo punto più alto quando Gesù, sceso fino agli inferi, spogliato di tutto diventa il più povero tra i poveri. Spogliato delle vesti e delle cose che possedeva, lasciato nella solitudine dalla creazione, Gesù sperimenta anche il senso di abbandono del Padre. Non ha opposto resistenza a chi gli stappava la barba, lo percuoteva, lo insultava, lo umiliava, lo denudava, lo crocifiggeva. Tutto poteva sopportare con eroica virtù, come altri prima di lui avevano fatto, ma non poteva stare in silenzio ferito dal dolore dei dolori: perdere il contatto con Dio. San Paolo dice: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Il peccato è la condizione di chi vive senza Dio, da estraneo, separato da Lui. Il peccato è vivere nell’indifferenza di Dio, come se lui non ci fosse. Gesù sulla croce ha sofferto la tristezza dell’ateo, ha avvertito su di sé tutto il peso del peccato degli uomini e la sua drammatica conseguenza. Nell’ora della croce in Gesù la creazione è tornata al suo caos originale, l’uomo è involuto fino a raggiungere il peccato delle origini e la paura primordiale ha ripreso il suo potere. L’abbandono è la madre di ogni paura. La solitudine è il baratro della disperazione. L’uomo Gesù non si arrende alla disperazione, non si nasconde vinto dalla vergogna, non si rifugia in inutili giustificazioni, ma col grido fa udire la sua parola: «Dio mio, dove sei?». Il Sal 129 fa pregare: «Dal profondo a te grido, Signore». Dal fondo delle tenebre del peccato Gesù chiama Dio, reclama la sua attenzione, percuote con violenza la porta del suo cuore. Gesù restituisce la parola a chi ha perso ogni diritto, perché gli è stato negato. È l’inizio di una nuova creazione, è il pianto del bambino che nasce. «Perché mi hai abbandonato?» Gesù non punta il dito contro Dio, non chiede conto del suo silenzio. È un interrogativo che vuole abbattere il muro del silenzio eretto dal peccato. La domanda è un ponte lanciato verso Dio che Gesù, l’orante sofferente, vuole percorrere per conoscere la volontà di Dio e la meta della salvezza che egli ha preparato. Gesù non colpevolizza Dio, né ricerca la causa di quella sofferenza atroce e insopportabile ma la luce che ne riveli il senso e il fine. Sulla croce Gesù prega con il Sal 22 di cui gli evangelisti Marco e Matteo riportano l’inizio. Il racconto della passione, cuore della narrazione evangelica, trova nell’incipit del Salmo il suo vertice per indicare che la dinamica pasquale di quella preghiera è la chiave di lettura di tutta la vicenda esistenziale di Gesù e dell’uomo col quale solidarizza. Come nel salmo 22 alla drammatica lamentazione dell’uomo sofferente segue il canto di esultanza dell’uomo salvato, così l’interrogativo provocatorio di Gesù orante sulla croce diventa cantico di esultanza del Salvatore. Dio si è fatto come noi, ci ha amato fino alla fine. Gesù ha vinto la morte e, da porta di accesso al regno delle tenebre, luogo della più assoluta solitudine, ne ha fatto la via che introduce nella Dimora del Padre, Casa della fraternità.

V PAROLA

«Ho sete»

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 28-29)

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.

Come, stanco del viaggio, Gesù si era fermato al pozzo di Sicar chiedendo da bere alla Samaritana, così sulla croce, affaticato nel corpo, dice: «Ho sete!». Attraverso i segni, Gesù ha compiuto le opere del Padre e ha manifestato la sua gloria. L’evangelista Giovanni non racconta fatti miracolosi ma i segni che, in quanto tali, rimandano ad una realtà ulteriore, l’ora della croce. È lì che tutto trova la sintesi e il compimento. È lì che la rivelazione della gloria di Dio tocca il suo vertice, perché sulla croce Gesù comunica tutto sé stesso, la parte più intima della sua interiorità. Lo fa non nella pienezza del suo potere taumaturgico ma nella totale debolezza. Dio, onnisciente e onnipotente, si fa povero e bisognoso perché l’uomo veda fino a quale umiltà si è piegato per farsi prossimo a lui. Sì, perché se la pienezza della Legge è l’amore, il compimento della carità è l’umiltà. Dio non si fa incontrare nelle vette delle ispirazioni disincarnate o nelle pratiche ascetiche individuali, ma nelle pieghe e nelle piaghe dell’umanità povera e insufficiente. Nelle due parole «ho sete» si rivela la grandezza di Dio che si fa fratello nel bisogno. Sono le parole più scandalose non solo di tutto il Vangelo, ma anche di tutta la storia. I segni che rivelano il fatto che Gesù è Dio suscitano la dura opposizione di chi non accetta una tale bestemmia. Essi, in verità, non ricercano la gloria di Dio ma quella degli uomini nel vano tentativo di farsi Dio, meglio diremmo, farsi un dio a propria immagine e somiglianza. L’inganno si nasconde nei bisogni effimeri che, assolutizzati, rendono l’uomo dipendente dalle cose o dagli affetti. Questo è il vero scandalo che getta l’uomo nel peccato e lo rinchiude nella più buia disperazione. L’ansia del possedere rende aggressivi e presuntuosi. Quando il bisogno diventa avidità l’attesa di avere si trasforma in pretesa innescando meccanismi di competizione senza esclusione di colpi. Gesù è lo scandalo dello scandalo perché è quella pietra sulla quale bisogna inciampare e cadere per comprendere quale bassezza raggiungiamo con il peccato e per renderci conto quale sia il vero bisogno che abita nel cuore. La sete di Gesù sulla croce rivela all’uomo il suo più profondo bisogno e il più alto desiderio di Dio. Il profeta Geremia dice che siamo come cisterne bucate che non trattengono l’acqua. Così è l’uomo che si affanna per ciò che non sazia e non disseta. Il nostro cuore, come quello di Gesù, dice: «Ho sete!». Dirlo insieme a Gesù significa rispondere alla sua richiesta. Gesù porta nel cuore un bisogno insopprimibile, la sua sete e la sua fame sono un imperativo categorico: amare il Padre e fare la sua volontà. In Gesù Dio si fa mendicante di amore verso l’uomo. Non chiede sacrifici e offerte, ma comunione con Lui. Con la sua umile preghiera Gesù ci insegna a pregare con un cuore povero, libero dalla vana gloria e dalle false aspettative, aperto ad accogliere, senza lasciarla perdere, l’acqua dello Spirito che fa del credente un altro Cristo, sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna.

VI PAROLA

«È compiuto»

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 30)

Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

Nel racconto di Giovanni l’ultima parola di Gesù non è di dolore ma un grido di vittoria. «È compiuto» non significa che «è tutto finito!» ma, al contrario, vuol dire «ho raggiunto la meta». Lui, che aveva detto ai servi di Cana di riempire le giare d’acqua, si fa servo degli uomini e colma i loro cuori dell’acqua dello Spirito perché la sua gioia sia in essi e la loro gioia sia piena. L’evangelista Giovanni dice: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). L’amore di Gesù per i suoi non termina con la morte ma, da quell’ora in poi diventa un amore pieno perché senza misura.

Nel momento in cui Gesù dona lo Spirito, Dio si consegna totalmente e si rivela in maniera assoluta. Si compie la salvezza. Cosa sia la salvezza diventa chiaro se essa è accostata all’idea di peccato. Infatti, nella lingua ebraica, il termine per indicare il peccato suggerisce l’idea dello sbagliare il bersaglio, fallire l’obiettivo, non raggiungere la meta. Contrario del peccato è la salvezza che invece significa centrare il bersaglio, tagliare il traguardo, raggiungere lo scopo.

La speranza cristiana è la tensione a raggiungere il fine della vita. Non siamo nati per morire ma per vivere; sì, vivere non per noi stessi, ma vivere in Dio, ovvero da figli che abitano stabilmente la Casa del Padre, non come individui, ma come fratelli. La nostra vita terrena è un pellegrinaggio, come quello che gli israeliti facevano verso Gerusalemme per fare Pasqua, cioè il passare con Gesù da questo mondo al Padre, dalla morte alla vita.

Nessuno si salva da solo perché la salvezza è fondamentalmente accettare la vocazione che Dio ha inscritto nel cuore sin dal momento del Battesimo. Infatti, l’apostolo Giovanni afferma: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! … Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3, 1-3).

Dio ha posto il seme della salvezza nella nostra vita, la vocazione alla santità. Esso germina e fruttifica grazie all’acqua della Parola e il nutrimento dell’Eucaristia. La felicità è realizzare con il suo aiuto il sogno che Dio ha nel cuore per noi.

VII PAROLA

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 44-46)

Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito “. Detto questo, spirò.

I profeti l’avevano annunciato: ora finalmente si compie il «Giorno del Signore». Il buio in pieno giorno ne è un segno rivelativo. È il giorno di Dio e, al tempo stesso, il giorno dell’uomo. È il giorno nel quale Dio rivela tutta la sua potenza ed è il giorno nel quale l’uomo esercita tutto il suo potere. Proclamando il vangelo, Gesù afferma: «Il momento favorevole è compiuto» (Mc 1,14) e san Paolo, facendo eco alla Parola dice: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2). L’evangelista Luca segnala che in quel giorno di dolore e di morte accade un’eclissi totale del sole proprio nel momento del suo massimo splendore. «I cieli narrano la gloria di Dio/ l’opera delle sue mani annuncia il firmamento./Il giorno al giorno ne affida il racconto / e la notte alla notte ne trasmette notizia./Senza linguaggio, senza parole,/senza che si oda la loro voce,/per tutta la terra si diffonde il loro annuncio/e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 19 (18),2-5) così canta il salmista che riconosce nella creazione, e soprattutto, nei corpi celesti, gli evangelizzatori dell’amore di Dio. Il sole si eclissa, si veste di nero, segno del lutto. Dio piange con chi piange. Il Padre piange come si piange per la morte di un figlio unico; fa lutto come si fa per il primogenito (cf. Zc 12, 10). Il Giorno del Signore è quello in cui Egli ha compassione per l’uomo, suo figlio. Come il Buon Samaritano, si avvicina, se ne prende cura e se ne fa carico per metterlo in salvo. La compassione è il movimento dell’amore che si scomoda, lascia le sicurezze, esce da sé stesso per immergersi nell’altro con discrezione e tenerezza. Le sue mani si aprono per accogliere, sostenere, accarezzare, operare il bene.

Gesù si affida a queste mani benedicenti, di Padre e di Madre, come fa il figlio più piccolo che ritorna nella casa paterna. Si affida perché confida nell’amore di Dio al quale nulla è nascosto e niente gli è indifferente. Lui che ama da sempre e per sempre conosce la sua creatura in profondità. Quando la vergogna per la debolezza induce a nascondersi al Suo sguardo e balena l’idea di fuggire dalla Sua presenza, Dio viene a cercare l’uomo. Sulla croce Gesù è l’uomo che sente il peso del suo peccato ma è anche Dio che per compassione s’immerge nelle tenebre del mondo e insegna ai crocifissi della storia a pregare: «Dove andare lontano dal tuo spirito?/Dove fuggire dalla tua presenza?/Se salgo in cielo, là tu sei;/se scendo negli inferi, eccoti./Se prendo le ali dell’aurora/per abitare all’estremità del mare,/anche là mi guida la tua mano/e mi afferra la tua destra./Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano/e la luce intorno a me sia notte”,/nemmeno le tenebre per te sono tenebre/e la notte è luminosa come il giorno;/per te le tenebre sono come luce.» (Sal 139(138),7-12).

Quando la paura della malvagità degli uomini afferra la gola, la tristezza per la solitudine cala sugli occhi un velo di pessimismo, la rabbia per l’ipocrisia dei falsi amici crea un magone nello stomaco, e saremmo portati a ribellarci, a vendicarci, a dimostrare di quale forza siamo capaci, affidiamo la nostra causa a Dio. Nella prova si è provocati a confidare nelle nostre armi e ad adeguarci alla logica del mondo invece di fidarci della Parola e affidarci ad Essa. Con Gesù vogliamo pregare: «Solo in Dio riposa l’anima mia:/da lui la mia salvezza./Lui solo è mia roccia e mia salvezza,/mia difesa: mai potrò vacillare» (Sal 62(61), 2-3).

don pasquale Giordano

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