Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 26 Marzo 2023

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Dalla morte alla vita

Il passaggio dalla morte alla vita costituisce il centro del messaggio delle letture bibliche della V domenica di Quaresima. In particolare, l’episodio della resurrezione di Lazzaro prelude all’evento pasquale la cui celebrazione è ormai prossima. La resurrezione appare nella lettura veterotestamentaria come evento storico, cioè evento della storia del popolo di Israele, evento collettivo: la morte in cui giacciono i figli d’Israele è la situazione di esilio a Babilonia da cui essi risorgeranno ritornando in terra d’Israele (Ez 37,12-14); appare nella seconda lettura come evento spirituale che caratterizza il credente che, lasciandosi guidare dallo Spirito di Dio, passa dalla vita nella carne, cioè chiusa nell’egoismo e nel peccato, alla vita in Cristo (Rm 8,8-11); appare infine nel vangelo come evento personale e corporeo per cui Lazzaro esce dalla tomba all’udire la parola di Gesù (Gv 11,1-45). I testi sottolineano tre dimensioni della morte: se solo la morte di Lazzaro è fisica, la morte spirituale di chi vive nella chiusura egocentrica e la morte simbolica del popolo deportato non sono meno drammatiche.

Possiamo vedere nelle letture tre dimensioni che attraversano la dinamica della morte e della resurrezione. Ezechiele parla di morte della speranza (“La nostra speranza è svanita, siamo perduti”: Ez 37,11). La situazione intravista da Paolo dell’uomo chiuso nella carne, è la situazione dell’uomo che ha tradito la sua vocazione relazionale, il suo essere chiamato all’amore. Potremmo dire che qui c’è la morte dell’amore, dell’agape. Infine il passo evangelico è centrato sulla fede, è una pedagogia verso la fede in Cristo che è la resurrezione e la vita. Il dialogo tra Gesù e Marta è incentrato sul credere: “Chi crede in me, anche se muore vivrà” (Gv 11,25); “Credi tu questo?” (11,26); “Sì, Signore io credo” (11,27). Forse è eccessivo dire che c’è morte e resurrezione della fede, ma è pur vero che Gesù interroga Marta sulla fede e la risitua nella fede.

Per la Bibbia la morte non è esclusivamente biologica, ma è una realtà molto più complessa, articolata e variegata, una realtà che si insinua in tanti ambiti della vita umana. Il passo di Ezechiele parla della morte di un popolo, di una comunità, e questo nella forma della morte della speranza. Il v. 11, che precede immediatamente il brano liturgico, dice: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, siamo perduti”. Qui il passaggio dalla morte alla vita sarà il rientro da Babilonia dei figli d’Israele deportati, dunque morti, nell’esilio babilonese. Ezechiele afferma che la morte di un popolo inizia con la morte della speranza, ovvero con l’assenza di futuro, con la perdita di un orizzonte. Qui si colloca la virtù della speranza, o meglio la speranza come virtù, non come sentimento, ma come responsabilità, come lavoro di apertura di futuro, donazione di senso, capacità di promessa, creatività, immaginazione di possibili, coraggio di iniziare qualcosa di nuovo. E qui si situa anche la possibilità storica di resurrezione di un gruppo umano, di una comunità, grazie al coraggio di una iniziativa, di un rinnovamento, in cui certamente qualcosa muore e si perde della forma precedente, ma può avvenire una rinascita che non è una riedizione del passato, ma una novità: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

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Nel testo di Paolo la morte è spirituale, nel senso che si tratta dell’uomo che si chiude in una vita autoreferenziale, una vita sotto il dominio della carne, cioè della tirannia dell’ego. Qui il passaggio dalla morte alla vita sarà il ritrovare la relazione, l’apertura agli altri in Cristo, facendo vivere in sé la vivificante morte di Cristo in cui si è stati immersi nel battesimo. Per Paolo l’uomo che vive nell’autosufficienza egoistica fa del proprio cuore la propria tomba e si trova nella morte spirituale. Ma lo Spirito di resurrezione che forza l’impenetrabilità della morte e fa uscire dai sepolcri, può penetrare le chiusure individualistiche e, ponendo la dimora nel cuore umano, può immettere l’uomo in una vita nuova.

Il vangelo parla della morte fisica, e, dal punto di vista di Gesù, della morte di una persona amata, di un amico. E questa è forse l’unica, o almeno la più drammatica esperienza della morte che noi possiamo fare in vita. Nella morte dell’altro a cui eravamo legati da amore, muore qualcosa di noi, muoiono possibilità di vita, viene menomato il nostro essere. E noi sperimentiamo che è l’amore, la qualità del legame che ci unisce a una persona che fa il ponte tra la vita e la morte e tra la morte e la vita. E l’amore è l’unica via che possiamo percorrere per dar senso alla nostra vita mortale. Dal testo evangelico possiamo evincere che se noi, per paura della morte, siamo indotti ad atteggiamenti difensivi, di protezione dal soffrire, che mortificano la vita stessa, Gesù, invece, chiedendo fede, suggerisce di entrare nel suo atteggiamento di fiducia anche di fronte alla morte (“Padre, io sapevo che sempre mi ascolti”: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è un magistero perché noi impariamo a credere: “L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano” (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: “Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio”. Ma se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù “amava molto Lazzaro” (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (cf. 11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. E anche questo fa parte della pratica di resurrezione che noi possiamo vivere e di cui possiamo farci dono gli uni gli altri. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

Il passaggio dalla morte alla vita con cui ci prepariamo a vivere il passaggio dalla vita alla morte è dunque l’amore. Quell’amore chiamato a divenire il nostro volere come lo fu di Cristo. Quell’amore che Agostino dice essere il contenuto della volontà del cristiano. L’amore è la volontà unificante ultima e decisiva della persona umana, che lì trova la sua libertà. Nelle libere obbligazioni a cui si sottomette, nella morte a sé che affronta amando, facendo dell’amore la bussola della propria vita, l’uomo trova la propria dilatazione umana e spirituale, la sensatezza del proprio vivere. Agostino afferma: voluntas: amor seu dilectio (De Trinitate XV,XXI,41). “La volontà? È amore, è dilezione”. Il dinamismo infinito di questo principio e la sua relazionalità, la sua apertura all’altro, è mostrato da un’espressione spesso attribuita allo stesso Agostino e che dice il risolversi della volontà in amore: Amo: volo ut sis (“Amo: voglio che tu sia”). Amare è volere la vita dell’altro, non è voler possedere l’altro, non è volere che l’altro sia per me, che mi ami a sua volta, ma che sia e basta, che esista, che viva. In questo volere divenuto amore può divenire vivibile e sensata un’intera vita. Questo amare è la morte vivificante che ci prepara al passaggio dalla vita alla morte credendo la forza dell’amore di Cristo che opera il passaggio dalla morte alla vita.

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Iniziato con l’annuncio a Gesù “Colui che tu ami è malato” (Gv 11,3), il racconto della resurrezione di Lazzaro non è solo una pedagogia verso la fede cristologica (espressa al v. 27: “Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”), ma anche una pedagogia all’amore e all’amore che si confronta con la morte. Morte che è nemica dell’amore ma anche suo banco di prova. La morte della persona amata pone fine all’amore che vivevamo e al futuro che tale amore prometteva. Gesù vive il turbamento della morte dell’altro amato, e lo esprime emotivamente scoppiando in pianto (v. 35). Ma, di fronte alla tomba, Gesù agisce e Marta sembra volerlo frenare: “Già manda cattivo odore” (v. 39). Marta pare legata alla morte e tiene il fratello ancorato a essa. Ma per Gesù anche la morte è luogo di manifestazione della gloria di Dio (cf. v. 4). E la gloria, nel IV vangelo, è la gloria dell’amore. Il problema non è evitare la morte, ma cogliere che in essa si può manifestare la gloria di Dio, il suo amore. Solo un amore che assuma la tragicità e l’ineliminabilità della morte conduce al passaggio dalla morte alla vita. Gesù crede l’amore anche davanti al cadavere. E il comando che Gesù impartisce dopo aver chiamato Lazzaro è “liberatelo e lasciatelo andare” (v. 43). Il comando riguarda gli astanti: Lazzaro già si sta muovendo. Il problema sono quelli che lo attorniano che devono lasciarlo andare, perché l’amore non trattiene ma, più ama, più lascia libero l’amato. Gesù sta insegnando ad amare: non conduce a sé il morto ritornato alla vita, ma insegna ad amare con libertà. Amare è liberare l’altro. E anche la morte non può trattenere l’amore. Il passaggio dell’amato Lazzaro dalla morte alla vita, anticipa ciò che Gesù farà di lì a poco quando avendo amato i suoi li amerà fino alla fine, consegnandosi a quella morte che non potrà trattenerlo perché la potenza dell’amore scioglie i legacci degli inferi.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose