Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 26 Febbraio 2023

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Domenica “delle tentazioni nel deserto”

I Domenica di Quaresima A

Matteo 4,1-11;  Genesi 2,7-9; 3,1-7;  Salmo 50; Rm 5,12-19

Il messaggio che la parola di Dio ci annuncia in questa I Domenica di quaresima è di grande importanza per impostare in modo autentico la nostra vita di credenti. Molti cristiani credono di potersi in qualche modo accaparrare Dio con le loro pie pratiche ottenendo favori e sicurezza nella loro vita terrena. Anche la chiesa può cedere alla tentazione di appoggiarsi ai mezzi umani diventando una potenza e una società di questo mondo, anziché essere l’umile serva del Signore che si fida soltanto della Parola di Dio.

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L’uomo moderno, però, fatto sempre più sicuro dei risultati della scienza e della tecnica, ormai non pensa più neppure ad accaparrarsi Dio, perché riesce a procurarsi coi propri mezzi ciò per cui prima ricorreva a Dio. Dio perciò non gli interessa più. Per l’uomo della tecnica ha valore soltanto dominare, trasformare e utilizzare la natura. La sua tentazione allora è l’ateismo. Dio è un essere inutile, senza significato.

Cristo si presenta a noi nella quaresima come il lottatore vittorioso che ci libera da tutte le nostre false sicurezze, dalle nostre ipnosi idolatriche e ci insegna a porre il nostro punto d’appoggio in Dio e nella sua parola. La quaresima sarà così il segno sacramentale della nostra conversione per il dono di una accresciuta conoscenza del mistero di Cristo:

Colletta

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O Dio, nostro Padre,

con la celebrazione di questa Quaresima,

segno sacramentale della nostra conversione,

concedi a noi tuoi fedeli

di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo

e di testimoniarlo con una degna condotta di vita.

Per il nostro Signore…

All’inizio della quaresima siamo dunque chiamati a prendere coscienza del significato di una vita di fede in dipendenza assoluta dall’evangelo. Questa è la vita del cristiano che ripete l’esperienza di Gesù: fedeltà assoluta a Dio e all’uomo; libertà interiore nell’uso dei beni di questo mondo, usandone senza idolatrarli; libertà da una fede miracolistica che fa evadere dagli impegni concreti per i quali Dio ha posto l’uomo in questo mondo; libertà da ogni trionfalismo ecclesiale. Vivere la fede non significa adoperare Dio per le nostre ambizioni e i nostri interessi, ma metterci sulla strada della continua conversione di noi stessi a Dio. Questa è la strada del deserto lungo la quale l’uomo sperimenta la propria insufficienza e la tentazione.

Gesù oggi, con la sua parola e col suo atteggiamento, ci dice che il senso della vita umana è realizzato nella comunione con Dio attraverso la rinuncia ad ogni idolatria dell’uomo e dei mezzi umani, per fidarsi solo della parola di Dio.

A questo punto, cioè, deve avvenire l’impatto con la mentalità dell’uomo: si impone necessariamente la scelta della croce, perché il mondo rifiuterà chi denuncia le sue ambiguità e le sue sicurezze. Ma proprio nella morte del giusto, Dio ha posto la salvezza del mondo stesso.

Gesù, allora, «vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegna a dominare le seduzioni del peccato, perché celebrando con spirito puro il mistero pasquale possiamo giungere alla pasqua eterna» (Prefazio).

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 90,15-16

Egli mi invocherà e io lo esaudirò;

gli darò salvezza e gloria,

lo sazierò con una lunga vita.

Già dal primo testo liturgico, nell’antifona d’ingresso, il Sal90,15ac.l6a, DSap. risuona l’ottimismo. Questo Salmo, conosciuto come il Qui habitat, era molto pregato in ogni caso di necessità e dal pellegrino che recatosi al Tempio di Gerusalemme trascorreva la notte entro il suo recinto (v. 1) attendendo un oracolo di JHWH. Mettendosi sotto la protezione divina il fedele troverà salvezza e liberazione dal nemico, dalla malattia e da ogni pericolo (vv. 3-8.10-13). Questo salmo è particolarmente conosciuto nel N.T. (cf Mt 4,6: Mc 16,18; Lc 10,19) e il Satana lo utilizza per tentare Gesù che reagisce ribadendo che la fede nella provvidenza divina esclude ogni aspetto magico e non può essere un pretesto per “costringere” il Signore a compiere miracoli. La liturgia giudaica e cristiana (nella Compieta dopo i secondi Vespri della Domenica) lo propone come preghiera serale.

Nei versetti liturgici il Signore proclama per bocca di Cristo, l’Orante dei Salmi in Quaresima, che esaudirà sempre chiunque Lo invocherà (il giusto sofferente, Gb22,27 e Ger33,3; il giusto caritatevole, Is58,9), tanto più il Figlio, il sommo Epicleta del Padre nello Spirito Santo (v. 15a).Il Signore lo sottrarrà da qualunque pericolo, e gli conferirà la sua gloria (v. 15c;Mt4,11, gli Angeli che si accostano come al Re e servono come Dio il Tentato vittorioso). È la gloria che il Padre destina al Figlio (Gv12,26), a cui il Figlio ha diritto (Gv17,1-3), a cui il Figlio ammette donando lo Spirito Santo.

Canto all’Evangelo Mt 4,4b

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Non di solo pane vive l’uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

La citazione di Mt 4,4b. (tratta da Dt8,3) nel canto all’Evangelo e nell’antif. alla comunione dà tono a tutta la Quaresima, e a tutta la celebrazione di oggi

Letta nel contesto dell’Evangelo di oggi, ne dà l’orientamento, accentuando il senso forte della Parola Pane, «il Corpo di Cristo che si mangia ascoltando» (i Padri), il Cibo divino sempre indispensabile, ma tanto più nella tensione spirituale quaresimale.

Nell’antif. alla comunione la Parola si mangia «con la bocca del cuore nostro»:

  1. Essa è Corpo di Cristo che nutre.
  2. Si prolunga nel Pane e nella Coppa.
  3. È nel Corpo di Cristo ch’è la Chiesa Madre.

Induce ad accettare questa triplice unitaria divina Comunione il Dono dello Spirito Santo, il solo che ponga in comunione con il Signore, la Parola del Padre, la Testa del suo Corpo sacrificale ch’è la Chiesa Sposa. Si rende autentica questa celebrazione di Lui accettandone le realtà e le conseguenze di vita. La Vittoria di Cristo Tentato diventa la vittoria di tutti i fedeli. Tale sano ottimismo fa proseguire verso la Casa del Padre, che attende tutti i figli battezzati.

La grande e santa Quaresima per la sua solennità ineguagliabile di tutti i suoi giorni non è soltanto né principalmente sforzo personale, impegno ascetico ma accoglienza e sviluppo della vita divina germinata in noi mediante il battesimo. Per questo il clima quaresimale non è triste, lugubre, pesante ma gioioso perché riflette quello pasquale: «tu doni ai tuoi fedeli di prepararsi con gioia… alla celebrazione della Pasqua[1]». La tradizione liturgica bizantina parla della Santa e grande Quaresima come di un tempo di “radiosa tristezza”.

Tutto questo non è però frutto del nostro desiderio e impegno ma è dono gratuito di Dio Padre in Cristo nell’amore dello Spirito Santo che ci viene comunicato. La duplice indole della Quaresima che come tempo «prepara» alla Resurrezione mentre come contenuti «celebra» la Resurrezione, in specie nelle sue Domeniche è stata affermata già nella Sacrosantum Concilium (cf. SC109 e 110 del Concilio Vat. II).

Il lezionario del tempo quaresimale, ciclo A, esprime questi grandi temi presentandoci, nelle prime due domeniche, Cristo nella sua realtà di uomo orientato all’adempimento della volontà del Padre, nelle altre tre, Cristo che agisce con segni di salvezza.

Centrata su un episodio temibile della Vita del Signore, questa domenica che apre la serie domenicale quaresimale è per intero la presentazione dell’ottimismo evangelico. La vittoria del Signore contro Satana trae con sé infatti una stupenda pagina di «teologia della storia».

Il contesto della pericope evangelica è il battesimo del Giordano, immediatamente precedente, e l’inizio della predicazione in Galilea (rifarsi alle Dom. I e III per l’anno). La breve informazione marciana sul digiuno di 40 giorni nel deserto e sulla tentazione è ampliata da Matteo e Luca in una triplice tentazione. Una fonte scritta comune per Matteo e Luca non è ovvia; se c’è una fonte comune, uno dei due evangelisti l’ha sfruttata con una certa libertà. Le citazioni bibliche sono identiche nei due evangeli. L’ordine della seconda e della terza tentazione è invertito in Luca rispetto a Matteo; l’ordine del primo evangelista sembra avere un crescendo deliberatamente voluto.

L’episodio non può essere preso come una narrazione storica nel senso stretto della parola a causa di certi dettagli chiaramente immaginari, come la «levitazione» del Salvatore da parte del diavolo sul pinnacolo del Tempio e la «visione» di tutti i regni della terra dalla cima di un monte, anche se «altissimo», e neppure come una composizione letteraria ben elaborata atta a mettere in risalto, con la forma drammatica, il carattere proprio del messianismo di Gesù. L’accostamento di questa pagina evangelica con Gen 3 e, soprattutto con Dt 6-8 (citato più volte nel corso del racconto), ha indotto vari esegeti moderni a scorgere in essa un «midrash» aggadico, costruito sui due testi veterotestamentari accennati, che tuttavia si rifa ad una esperienza reale del Salvatore. L’esperienza inoltre non è circoscritta a un solo momento della sua vita, bensì l’abbraccia interamente, fino al Getsemani (quando chiede al Padre il trapasso del calice della passione, Mt 26,38-42) e sulla croce (Mt 27,39-44).

Nel parlare delle tentazioni di Gesù l’evangelista pensa a quelle del popolo ebraico nel deserto sinaitico che per 40 anni è stato messo alla prova da Dio (la fame, la sete, il fastidio dei serpenti, ecc.) ma più di una volta ha tenuto a verificare la fedeltà del Signore nei suoi riguardi (cfr. Dt 6,16; Es 16,2-3; 17,1-7; Sal 95,8-10; ecc.). Sia Israele che Gesù hanno avuto varie prove; quelle che i testi sacri segnalano sono riassuntive di tutta la loro esperienza.

Le tentazioni di Gesù sono tre, un numero altamente simbolico; indica la pienezza della prova e la perfezione che consegue chi l’ha superata. Chi si trova a collaborare con Dio deve sempre dar prova di abbandono, di fiducia al suo volere; la differenza sta solo in ciò: Israele troppo spesso è caduto nelle tentazioni, Gesù le ha vinte.

La fede non ha bisogno di prove; ha il suo fondamento solo sulla Parola di Dio.

Il titolo abitualmente dato a Mt 4,1-11 e ai passi paralleli (Mc 1,12-13 e Lc 4,1-13) è «Le tentazioni di Gesù». Un titolo migliore, più consono alla base biblica del racconto contenuto nel libro del Deuteronomio sarebbe «Il Figlio di Dio messo alla prova». Lo scopo del passo non è tanto di vedere se il diavolo riesca ad adescare Gesù in questo o quel peccato, quanto piuttosto di presentare Gesù come Figlio di Dio che è stato «lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Nelle cose in cui Israele nel deserto ha fallito, Gesù supera tutte le prove.

La versione di Marco (Mc 1,12-13) è molto breve in confronto a Mt 4,1-11 e Lc 4,1-13. Quello di Marco è un racconto lineare, senza i lunghi dialoghi degli altri Evangeli. Le versioni di Matteo e di Luca sono chiaramente affini. Dato che si allontanano da Marco e sono molto simili tra loro, vengono normalmente attribuite alla fonte Q (anche se per la loro lunghezza e complessità si scostano dal semplice materiale dei detti caratteristico di Q).

Dopo un’introduzione narrativa (Mt 4,1-2) la versione di Matteo riporta tre dialoghi tra il diavolo e Gesù (4,3-4.5-7.8-10) e una conclusione narrativa (4,11). In ciascuno dei dialoghi il diavolo presenta una prova e Gesù risponde con una citazione dal Deuteronomio 6-8. Le citazioni bibliche corrispondono da vicino ai Settanta, il che sta ad indicare che perlomeno il testo attuale è stato composto in greco sulla base della Bibbia greca. Se la storia risalga a qualche scriba giudeo-cristiano o allo stesso Gesù non è dato di sapere.

I lettura[2]Genesi 2,7-9; 3,1-7

In questo brano, a conclusione di tutto il poema, Dio viene esaltato con la narrazione della creazione dell’uomo, la creatura più perfetta. Nello stesso tempo all’uomo viene attribuita la responsabilità del disordine che ora esiste nel mondo. L’Adamo antico fu creato dalla Beatitudine eterna. In due modi confluenti. La Genesi riporta due narrazioni distinte, che sembrano ignorarsi. La più antica (come redazione di materiale assai arcaico sembra risalire al sec. 10° a.C.) è riportata in Gen 2,4b-25; l’uomo creato è posto all’inizio di tutte le opere del Signore, anzi queste sono finalizzate al bene dell’uomo. La meno antica (come redazione del materiale, forse più arcaico, sembra risalire al sec. 6° a.C), occupa l’inizio della Bibbia, come il suo immenso atrio glorioso: Gen 1,1 – 2,4a. Questa seconda narrazione pone l’uomo come ultima, ma primaria e più preziosa opera di Dio, e il mondo creato prima di lui è posto a sua disposizione. Non solo, l’uomo è creato di persona da Dio, «a immagine e somiglianza» di Lui (Gen 1,26-27), con il destino di comunione eterna con Dio, adesso incipiente ma poi in crescita infinita.

Così si comprende che il compositore di Gen 1 sia anche il «redattore finale», che mette insieme il materiale di Gen 2, e dell’intero Pentateuco. La lettura delle due redazioni coordinate è ovvia, poiché l’uomo «immagine e somiglianza di Dio» è tale per il fatto che ha ricevuto l’Alito del Signore, il Dio Vivente. E si narra come.

In Gen 2,4b-6 il creato è descritto è per sottrazione negativa, poiché tutto era pronto sulla terra, ma nulla ancora esisteva di vivente, non pioveva, non esisteva chi lavorasse la terra, e tutto era avvolto da caligine spessa. Ed ecco il prodigio. Il Signore Dio usa le sue Mani divine, il Figlio e lo Spirito Santo (S. Ireneo), e plasma l’uomo secondo il suo progetto, usando come materiale l’argilla della terra (v. 7a), materia ancora inerte, proprio alla cui inerzia fatale dopo e a causa del peccato l’uomo dovrà tornare (Gen 3,23). Gli amici di Dio riconoscono questo nella loro pochezza davanti al Signore, come proclama Abramo (Gen 18,27). In quest’umiltà tuttavia sta anche la speranza, poiché il Salmista canta la Misericordia divina, che quando tratta l’uomo tiene conto che questi è plasmazione d’argilla (Sal 102,14). Perciò il sapiente ammonisce gravemente a pensare in tempo, da giovane, a quando l’uomo vede scomparire via via le tracce della sua vitalità, si fa anziano, debole, le sue attività si interrompono, e infine torna all’argilla della terra che è, e «il suo spirito torna a Dio che lo donò» (Sir 12,7, rinvio al v. 2,7). Paolo riprenderà questo tratto (1 Cor 13,47).

Il prodigio è che il Signore trae la vita dalla materia inerte. Con amore infinito. Accosta il suo Volto di Bontà al pugno d’argilla plasmata in forma d’uomo, e nelle narici destinate ad aspirare l’aria vitale, con la sua Bocca divina “inspira” l’Alito che viene dal suo Cuore, la sua Vita (v. 2,7b). I Padri spiegano che «in Dio, tutto è Dio», perciò quanto ne proviene, la Parola, la Sapienza, lo Spirito Santo «in Dio sono Dio», poiché da Dio non deriva se non Dio. In questa narrazione il vocabolario è di grande interesse.

a) Il Signore inspirò, ebraico nafah, greco emphysàó. Le due forme si ritrovano in Ez 22,21, quando il Signore per i peccati del popolo «soffierà» su questo come in una fucina di distruzione; in Ez 37,9, quando sul popolo di morti, a cui è promessa la resurrezione, soffierà lo Spirito della Vita. Il solo emphysàó, che traduce altre radici ebraiche, si trova invece in 1 Re 17,21, quando Elia soffia la vita sui figlio della vedova di Sarepta; in Tob 6,9, per il consiglio di spalmare il fiele del pesce sugli occhi ciechi, soffiando sui quali essi riavranno la vista; in 11,11 per l’esecuzione di questo; in Giob 4,21 è denunciata la fragilità umana, che ai primo soffio si inaridisce e perisce; in Sap 13,11, il sapiente contempla la vanità dell’uomo, «polvere è il cuore suo, più spregevole del fango la vita sua» (v. 10), egli che si erge superbamente contro il Creatore, suo Plasmatore, che gli soffiò un’anima operante e «gli inspirò lo spirito vitale», richiamo letterale a Gen 2,7; in Nah 2,2, il Signore per redimere il popolo suo dall’esilio, «sorse inspirando sul volto tuo, liberandoti dalla tribolazione»; Ez 21,36 ripete Ez 22,21. Di fronte a questo uso dell’A.T., il verbo emphysàó appare in tutto il N. T. in modo esclusivo, e quindi significante, solo in Gv 20,22. La sera della Resurrezione il Signore Risorto finalmente «soffia lo Spirito» Santo sui discepoli. L’uso qui è intenzionale, in quanto riprende esattamente la prospettiva che da Gen 2,7 via via lungo l’intero A. T. giunge a realizzarsi nel Risorto.

b)  Gli effetti sono quelli che debbono derivare dall’azione divina. Perciò «inspirare l’Alito della Vita», ebraico nišmat-hajjĭîm, greco pnoê zôês, significa fare dell’argilla uomo un’«anima vivente», ebraico nefeš-hajah, gr. psychê zôsa. Il dono della vita nell’uomo è azione libera. L’Alito o Soffio della Vita divina o Spirito del Signore vuole abitare nell’uomo e fare di lui una vita libera. Quando lo Spirito del Signore sarà respinto, il Signore Lo ritirerà dall’uomo (Gen 6,3). L’intera storia della redenzione consisterà precisamente nel far conseguire di nuovo all’uomo il dono dello Spirito del Signore.

Questo avviene con Cristo Risorto. Paolo annota accuratamente nel grande capitolo sulla fede e la Resurrezione: Così è stato anche scritto:

Divenne il primo uomo Adamo anima vivente [Gen 2,7], l’Ultimo Adamo Spirito vivificante (1 Cor 13,45). Questo significa che lo Spirito Santo ha ricollocato l’Umanità di Cristo, «l’Adamo Ultimo», posto per l’umanità decaduta del «primo Adamo», nello stato finale della divinizzazione. Per esso Cristo Risorto in quanto Uomo vero è finalmente reso capace di “vivificare” di Vita divina, ossia di donare la Vita divina, lo Spirito Santo, poiché la Carne divinizzata del Signore vivifica nell’unico modo che Dio conosce, donando lo Spirito Santo, la Vita divina. Questa Carne è posta ormai nella condizione autenticamente “spirituale” o pneumatizzata, vivendo la Vita dello Spirito Santo creatore.

c)  Si può portare il discorso più a fondo, su come avvenne questo nell’Uomo Gesù Cristo, l’Adamo Ultimo. Per la sua perfetta obbedienza al Padre nello Spirito Santo, «fino alla morte, e morte di Croce»  (Fil 2,8, ma vedi i vv. 6-11), Egli ebbe il premio divino della  Resurrezione, che è la divinizzazione. Ora, se il Progenitore, l’Adamo primo, non avesse frontalmente disobbedito al suo Signore e Creatore, il suo destino progressivo sarebbe stato quello di trasmettere ai discendenti non solo 1’«anima vivente» che era (Gen 2,7), ma anche il suo possesso più intimo, il Soffio Alito Spirito divino. I Padri lo avevano compreso.

La narrazione biblica prosegue adesso mostrando il Disegno divino per l’uomo creato. Il Signore per l’uomo pianta il «giardino (orto) dell’Eden», o delle delizie, a oriente, dove sorge il sole nuovo, la vita, la gioia (v. 2,8a). Eden ideale permanente. La Scrittura non parlerà più di un impossibile ritorno indietro all’Eden primitivo. L’Eden resta come un ideale. Si prospetta invece per l’uomo un lungo, difficile cammino verso il suo recupero al Signore, la sua perfezione, e il futuro è visto «come nell’Eden». Così sarà la promessa del Re messianico con i sette doni dello Spirito del Signore (Is 11,1-10). Così sarà l’ideale della restaurazione nazionale dopo l’esilio, quando Sion, la Sposa non più desolata e deserta, sarà circondata dall’Eden, con «gioia ed esultanza, con voci di lode e di canto» (Is 51,3). Invece il re di Tiro nella sua potenza è visto «come se» abitasse nell’Eden, da cui farà una caduta rovinosa per la sua superbia oltraggiosa (Ez 28,13). Il Giorno del Signore verrà improvviso e rovinoso, «come se» passasse per l’Eden e lo rendesse un deserto, il caos primitivo contrario alla creazione (Gioele 2,3). Ma infine il Signore nella lotta finale insieme a Cristo Vittorioso, al fedele con che Lui vincerà renderà di nuovo accessibile il Giardino con il suo Cibo della Vita (Ap 2,7; 22,14).

Nel Giardino e Orto il Signore, facendogli fare “esodo” dal deserto caotico, trasporta l’uomo creato e lo fa dimorare (v. 2,8b; v. 15).

E come buon Giardiniere e Ortolano, fa fiorire questa plaga felice, con alberi «belli da vedere e buoni da mangiare». Al centro sta l’Albero della Vita, cibarsi del quale rende immortali (Pr 3,18; Ap 2,7; 22,2.14, l’accesso finale vivificante). E sta l’Albero proibito, «della scienza-esperienza del bene e del male», che se indica la possibilità della “tentazione”, indica anche e soprattutto la libertà dell’uomo, che nella sua piena consapevolezza deve essere orientato al Punto cardinale della sua esistenza giovane e fresca, il suo Creatore (v. 2,9).

Questo è l’ambiente dove l’uomo deve vivere e crescere. Ma avviene la tentazione, e poi la catastrofe. Interviene in modo iniquo contro Adamo ed Eva innocenti «il Serpente», simbolo dell’intelligenza superiore e malefica, e simbolo delle arti magiche con cui si vuole sottoporre Dio alla propria volontà; esso è una delle tante creature del Signore (3,la). La Genesi non spiega come una creatura si erga contro il suo Creatore; lo farà la tradizione posteriore, meditando nella fede sulla triste condizione umana. Così, completando la Rivelazione, l’Apocalisse ne dà la spiegazione definitiva: quello fu «il grande Drago, il Serpente antico, che si chiama il diavolo e satana» (12,9), ormai sconfitto insieme con i suoi satelliti, il Peccato, la Morte e l’Inferno, potenze personificate sotto il suo orrido comando (Ap 20,2).

Il Serpente attacca proditoriamente, come diabolos, sempre da dia-balló, dividere. Divide Eva da Adamo, insinuando nell’orecchio della donna «il seme che fa concepire il peccato» (i Padri), ossia la menzogna: così «Dio vi ha detto di non mangiare di nessun albero», in forma di domanda (v. 3,lb). In realtà in Gen 2,16-17 il Signore prescrive di mangiare di tutto, in specie dall’Albero della Vita, e solo di non toccare l’Albero della scienza del bene e del male. Eva ingenuamente abbocca al dialogo, e riferisce il precetto divino (vv. 3,2-3), ma con una punta di invidia e di gelosia, dicendo che «in mezzo al Giardino» sta l’Albero della scienza del bene e del male; è una compiacente menzogna, poiché al centro sta l’Albero della Vita. Eva pratica così un’apertura alla prevaricazione; adesso attende solo l’invito rovinoso, dentro già ha la concupiscenza di assaggiare il proibito. La persuasione giunge puntuale, con la menzogna finale: «Voi non morirete!» (v. 3,4). Gesù questo rievoca in Gv 8,44, quando chiamerà il diavolo così: «era uccisore di uomini fin dall’inizio, e nella Verità non stette, poiché non esiste Verità in esso. Quando parla la menzogna, parla delle realtà che gli sono proprie, poiché è solo menzognero, e padre di essa», della menzogna di morte. E la menzogna contrasta direttamente la Volontà del Signore Verità: il Creatore Buono e donante sarebbe invidioso, sapendo che se Adamo ed Eva mangiano di quell’albero, acquistano l’esperienza del bene e del male», che fa aprire gli occhi e «fa diventare come Dio» (v. 5). Il libero arbitrio esercitato nel male della disobbedienza è in realtà autonomia superba, anarchica e irresponsabile decisionalità della propria esistenza. Il Signore per invidia si riserverebbe gelosamente ogni scienza. Sul piano metafisico è assurdo, l’Infinito si comparerebbe con il finito da Lui creato e vi si adeguerebbe, e sarebbe in Lui una diminuzione dell’essenza e dell’esistenza. Allora avrebbe disposto che mancherebbe solo un piccolo passo, varcato il quale sarebbe raggiunto, e gli uomini si equivarrebbero a Lui. Il rapporto con Lui non servirebbe più; l’uomo non trarrebbe esistenza e sostanza da Lui come sua «immagine e somiglianza» e come recettore del Dono dell’Alito divino. Adesso potrebbe fare da sé, e meglio, in libertà.

Il passo è fatto. La donna per la prima volta scatena la sua concupiscenza. Finalmente si può dirigere all’Albero che aveva già desiderato nel cuore suo in modo imprudente e colpevole. La sua concupiscenza ha tre direzioni: vede che l’Albero della morte è buono da mangiare, questa è avidità; è piacevole all’occhio, questa è sensualità; è desiderabile per «avere la conoscenza», questa è superba autonoma (v. 3,6a). Già divisa da Dio, Eva adesso si divide da Adamo, prende l’iniziativa da sola e mangia, poi induce alla divisione anche Adamo (v. 3,6b). Si producono quattro scismi rovinosi: l’uomo è diviso e lacerato in se stesso, è diviso dal prossimo, si aliena dalla creazione, si separa dal suo Signore. Questo si manifesta in chiaro nel “processo” che, inevitabile, segue: «È stata la donna che Tu mi donasti!», si giustifica Adamo, desolidarizzandosi ingenuamente dalla colpa e addirittura facendola ricadere sul Signore (v. 12a); e si nasconde da Lui (vv. 9-10); e quale ultimo scisma provocato, la terra sarà da adesso “deserto” ostile all’uomo e al suo lavoro (vv. 17-19).

L’autore biblico annota con linguaggio simbolico al v. 3,7 che certo ai due si aprono adesso gli occhi, scoprono l’abisso orrido del loro peccato, la rovina della loro condizione, «sono nudi», che se prima era una condizione gloriosa davanti al Signore, adesso è diventata il massimo grado di abiezione. Così sarà per l’intera Rivelazione. Essi cercano riparo, coprendosi di foglie. Il Signore invece li aveva coperti della sua «immagine e somiglianza», adesso deformata e camuffata. Così la beffa del Tentatore ha avuto la prima vittoria.

La Bontà del Creatore tuttavia avrà l’ultima vittoria, nel superamento della tentazione finale dovuta al Figlio suo. I Padri qui hanno approfondito a lungo il fatto tragico della “caduta”, detta poi «il peccato originale». Basterà qui ascoltare una densa pagina di uno tra i più grandi, S. Efrem Siro, di cui si ammirerà anche il prezioso tessuto di citazioni bibliche:

Se Adamo morì a causa del peccato [Gen 3,22-23], si doveva che Colui che si caricò del peccato [il Servo, Is 52,13 – 53,12; Gv 1,29.36)] si assumesse anche la morte [Fil 2,6-11; Rom 8,3; Gal 3,13; 2 Cor 5,21]. Sta scritto: «Nel giorno che mangerai, tu morirai» (Gen 2,17). Ma il giorno che mangiò non morì. Solo, come caparra della sua morte, fu spogliato della sua Gloria [Gen 3,7], fu espulso dal Paradiso [Gen 3,23-24]. E ogni giorno egli pensava alla morte. Così anche noi, mangiando la Vita che sta in Cristo [Rom 8,9), il Corpo di Lui [1 Cor 11,26] invece dei fratti dell’Albero [Gen 2,16-17], l’Altare di Lui invece del giardino dell’Eden [1 Cor 9,13; 10,20-22; Ebr 13,10], e fummo lavati dalla maledizione [Gal 3,13; 1 Cor 6,9-11] dal suo Sangue giusto [Ap 1,6; 7,14; Ebr 9,14; 1 Gv 1,7; Mi 23,35]. E noi nella speranza della resurrezione [Rom 8,23-25; At 23,6], attendiamo la Vita futura [1 Tim 4,8], e già adesso nella Vita nuova [Rom 6,4] procediamo [Col 3,3-4], poiché quelle Realtà sono Caparra per noi [2 Cor 1,2; 5,5; Ef 1,14)]: Ephrem de Nisibe, Commentaire de L’Evangile concordant ou Diatessaron 21,25, a cura di L. Leloir, in SChr 121, Paris 1966, p. 388).

Esaminiamo il brano

v. 1 – «Gesù»: non è chiamato messia o con altro titolo; Matteo vuol porre in evidenza che quanto sta per esporre e le conclusioni teologiche che ne derivano, riguardano quel Gesù partorito da Maria e del quale ha esposto gli eventi della nascita e del battesimo. È l’uomo come noi che sta per essere tentato (Eb 2,18).

«fu condotto dallo Spirito nel deserto»: è il passivo della divinità. Gesù non va’ nel deserto di sua spontanea volontà. Quello stesso Spirito che rese possibile la sua generazione (Mt 1,20; Lc 1,35) ed era venuto visibilmente su di lui per mostrare a tutti il compiacimento del Padre (Mt 3,16), ora lo conduce nel deserto come aveva condotto il popolo eletto (Dt 8,2). Secondo la tradizione, teatro delle tentazioni fu la zona desertica intorno a Gerico (deserto della Giudea), non lontano dal luogo del battesimo (zona, sempre secondo la tradizione, individuata con El Maghtas, circa 9 Km a est-sud est di Gerico).

I visitatori di Tell es-Sultan (la Gerico dell’A.T.) godono un’ottima vista del tradizionale Monte delle Tentazioni (la tradizione risale al VII secolo) sulla cui cima Satana offrì a Gesù tutti i regni della terra a patto che si prostrasse per adorarlo. Il nome arabo della montagna, Jabal Quruntul, deriva evidentemente dalla parola francese quarante introdotta dai crociati in ricordo dei quaranta giorni delle tentazioni.

«per essere tentato»: (il verbo è peirázō) tentare nel linguaggio biblico ha un duplice significato: «mettere alla prova, saggiare» e «far deviare dalla retta via». Nell’AT «tentare» o «mettere alla prova» si riferisce al procedimento per cui la controparte in un contratto o alleanza viene attentamente esaminata per stabilire la sua fedeltà nell’osservanza dell’accordo. Nel contesto dei rapporti tra Israele e Dio questo procedimento rivelerà se Israele è fedele o meno. Dio può mettere alla prova Israele, ma Israele non può mettere alla prova Dio. Qui le tentazioni dimostreranno la fedeltà del Figlio di Dio. Nel nostro brano il secondo significato prevale, ma non si esclude del tutto il primo, a motivo della velata allusione a Dt 8,2.

Che vuol dire che Gesù possa essere tentato?

Intanto la tentazione è voluta dal Padre, che la permette, e lo Spirito ve lo accompagna senza resistenza; poiché la «tentazione» è da accettare, afferma l’apostolo per i fedeli, come «gioia», in quanto così – forse, solo così – la fede genera la pazienza divina, e chi sta in queste condizioni è «perfetto ed integro, in nulla lasciato indietro» (cfr Giac 1,2-4). Ma non solo. La riflessione apostolica aggiunge il nucleo sostanziale della spiegazione; la Chiesa antica comprese che solo se tentato il Signore può aiutare realmente i tentati (Eb 2,18), e per operare questo, egli deve essere «in tutto come noi, salvo il peccato» (cfr Eb 4,15). Immenso richiamo a noi: «voi siete quelli che perseveraste con me nelle tentazioni mie» (Lc 22,28), se vogliamo «avere parte» intera con lui (cfr Gv 13,8b).

«diavolo»: in gr diábolos. qqqqqq Qui si insinua colui che è sempre in agguato tra gli uomini, «il tentatore», come già contro Adamo ed Eva innocenti ancora (cfr I Lett.), come poi contro tutti i fedeli del Signore (cfr 1 Tes 3,5).

Il tentatore ha 3 nomi di morte, e produce 3 tentazioni di morte:

  1. «il tentatore», v. 3; come tale chiede a Gesù di fare un inutile prodigio;
  2. «il diavolo», alla lettera «il divisore», gr. dia-bàlló, v. 5 (vedi anche vv. 1 e 8 quale nome generico); come tale chiede a Gesù di «separarsi» dal Padre sfidandolo in un capitombolo temerario e inutile.
  3. «satana», v. 10, nome datogli da Gesù, che significa dall’ebr. satan, aramaico satana’, «il nemico», l’accusatore dell’uomo per rovinarlo e rovinare il Disegno divino (cfr tutto Giobbe).

v. 2 «quaranta giorni e quaranta notti»: È il tempo dell’attesa e della prova; della rivelazione. Gesù segue l’esempio dei Padri: Mosè aveva digiunato 40 giorni sul monte, alla presenza del Signore, per ricevere la sua Legge santa (cfr Es 34,28; Dt 9,9); spezzate le tavole per il grande peccato del Vitello d’oro, ripetè lo stesso digiuno (Dt 9,18).

vv. 3-4 – Eccoci alle 3 tentazioni (numero perfetto), ripetute puntualmente, come all’inizio, così al culmine della Vita del Signore, alla Croce, dove al Figlio di Dio e Re Salvatore si chiede nella beffa più incosciente che malvagia, «scendi dalla Croce, salvati – salvati, scendi dalla Croce» (Mt 27,40.42.44).

Le tre tentazioni possono essere sintetizzate come tentazioni sull’uso del potere; la prima tentazione infatti è una sollecitazione ad usare il potere taumaturgico per provvedere alle ordinarie necessità materiali.

«Se sei Figlio di Dio»: proclamato al battesimo “Tu sei”, ecco il dubbio “se”. È la radice di ogni tentazione anche per noi, resi da Dio veramente suoi figli, battezzati e segnati dalla Croce di lui.

“Figlio di Dio” è detto proprio dai demoni (8,29); dai discepoli (14,33) e da Pietro (16,16); è la domanda del sommo sacerdote (26,63) a cui Gesù risponde con decisione ed estrema chiarezza; è la proclamazione finale del centurione sotto la Croce (27,54). Nessuno ne dubita. Ma il tentatore obliquamente accusa il Padre di aver mentito al Battesimo.

Che cosa deve fare il Figlio di Dio per dimostrare di esserlo? Poco. Tramutare «queste pietre in pane» con la sola parola. Gesù è tentato a porre un segno di sfiducia nel Padre suo incapace di procurargli il cibo; è la tentazione a cui Israele non seppe resistere quando si trovava nel deserto: anch’egli “Figlio di Dio” (cfr Es 4,22), non ebbe fiducia nel Padre (Es 16,3) mormorando contro di lui perché mancava di cibo (cf “gli affanni” della Dom. VIII Tempo Ord. A).

«dì»: (comanda) l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova. Gesù usa la parola, ma delude il tentatore; risponde in modo tagliente rimandando alla sola Parola divina.

Così Gesù «prende la Spada dello Spirito ch’è la Parola di Dio» (cfr Ef 6,17) e taglia netto: «Sta scritto» ossia alla lettera, «è stato scritto da Dio» (è il passivo della Divinità, per non nominare il nome di divino).

Gesù contrappone alla tentazione la riflessione e l’ammonimento di Mose ad Israele proprio riguardo a quell’episodio (Dt 8,3); Gesù sa che ogni parola di Dio è promessa che non viene mai meno.

vv. 5-7 – Anche la seconda tentazione, non meno insidiosa, riguarda il potere taumaturgico; viene chiesto a Gesù di dare un segno spettacolare e convincente che forzerebbe a credere nella sua messianicità.

Dalla mancanza di fiducia nella Provvidenza il tentatore passa al lato opposto suggerendo una eccessiva fiducia, tale da mettere alla prova Dio, cosa severamente condannata nella Bibbia (cfr Dt 6,16, che è il testo citato).

«Prende Gesù» (il testo traduce “condusse con se”), verbo paralambánō che indica la «consegna», alla lettera, che il Padre e lo Spirito fanno di Gesù al diavolo. Richiama quasi alla lettera un testo antico e importante:

Io vi assunsi verso l’alto (analambànó)

come su ali di aquile,

ed Io mi feci accostare voi a Me stesso

(Es 19,4, dal testo greco dei Settanta).

Mentre il Signore ha assunto a sé il popolo suo per donargli la grazia dell’alleanza al Sinai, adesso il medesimo permette che il Figlio suo unico sia catturato fisicamente, estremo atto di violenza, che avrà il seguito solo alla Passione ed alla croce. Il diavolo mostra di conoscere perfino i testi «messianici» e di saperli applicare; cita Sal 91(90),11a.l2ab, un salmo didattico sapienziale e l’applicazione al Messia calza a pennello, beninteso quello immaginato dal diavolo. Gesù è «la Parola Vivente» del Padre; egli è il contenuto della scrittura; la conosce solo lui e la sa applicare solo lui.

Con pazienza respinge la seconda tentazione citando ancora la Scrittura, questa volta dal Deuteronomio cap. 6, celebre contesto dello Shema’, Jisrael!, «Ascolta, Israele!», che inculca il precetto dell’amore verso il Signore unico, che è fedele e non và tentato come avvenne a Massah (Es 17,7).

Gesù ha subito nuovamente questa stessa tentazione durante la passione (cfr Mt 26,51-54).

«gettati»: il verbo è ancora all’imperativo aoristo positivo che ordina di dare inizio a un’azione nuova.

vv. 8-9 – Ancora il diavolo fa violenza a Gesù «ricevuto» (paralambánō) dal Padre e dallo Spirito; lo porta su un monte alto. È una tentazione di potenza politica, dominio sfrenato, potere sconfinato, successo militare, tirannia su tutti gli uomini. Il sogno dell’«impero universale», cominciato nel 3° millennio a. C. in Mesopotamia, con gli Assiri, poi i Persiani, Alessandro Magno, Roma, i barbari, Carlo Magno, l’islam, Napoleone, il nazismo ecc. sino ai giorni nostri.

Il diavolo mente spudoratamente: «io donerò tutto questo a te», come se la sovranità traesse origine da lui.

In realtà «tutto il potere» è stato rimesso, ai fini della salvezza degli uomini, solo al Figlio dell’uomo, e direttamente da Dio (cfr Dn 7,13-14; Mt 28,18a). Il tentatore svela il suo pensiero recondito: egli non tanto vuole informarsi sulla qualità di «Figlio di Dio» di Gesù, ma intende provarlo e farlo deviare dal piano divino, inducendolo a scegliere la via di un messianismo terreno.

Satana mira a possedere il cuore dell’uomo: il tentatore dà per avere; il suo non è un dono gratuito né, tanto meno, disinteressato. Egli intende far da padrone della vita delle persone e ricevere da loro il massimo onore che è appunto l’adorazione.

v. 10 – L’evangelista Matteo pone un avverbio: tòte, allora; finalmente Gesù dice la parola finale, una risposta che supera in severità le precedenti, ed è preceduta da un ordine al demonio di allontanarsi.

Il tentatore è smascherato; è «il nemico» (satana) è cacciato via; anche Pietro, per aver tentato di distogliere il Maestro dalla linea del messianismo doloroso, meriterà, nonostante la sua recente confessione messianica, il titolo di «satana» (Mt 16,23). Contro il diavolo l’arma micidiale è la Scrittura; il Signore ce lo dimostra, armiamoci di essa per sempre. Gesù per la terza volta cita la Scrittura, per la seconda volta dal Deuteronomio, dallo stesso contesto della citazione precedente.

La prostrazione e il servizio liturgico è dovuto solo al Signore; è lo stesso credo proclamato ogni giorno da Israele, fedeltà non sempre autentica, spesso macchiata da compromessi. In Gesù è riproposta la storia d’Israele, ma in Gesù si deve rispecchiare la Chiesa, che continua la sua missione, e quindi tutti noi che la formiamo. È questo il senso della prima unzione, quella sul petto, della liturgia battesimale; per mezzo di essa si esprime il dono del Cristo Risorto che attraverso lo Spirito mette in grado il fedele di sfuggire alla presa della tentazione e mantenere il suo orientamento al Padre.

v. 11 – Ecco la conclusione attesa dal Padre e dallo Spirito per il Figlio: «allora il diavolo lo lascia» al Padre ed allo Spirito. Luca annota preziosamente per noi: «il diavolo si allontanò da lui fino al kairós» (Lc 4,13c), «tempo prestabilito» da Dio, la Croce sotto la quale il diavolo farà ripetere le tre tentazioni.

Il «servizio» (diakonéō) degli angeli a cui Marco aggiunge l’amichevole compagnia delle fiere (Mc 1,13), è indice, e simbolo insieme, del paradiso terrestre riconquistato dall’umanità mediante la rivincita del Messia su satana.

Gesù è accompagnato dagli angeli nel suo percorso anche per sottolineare come in realtà quello che il diavolo vantava come promessa di Dio, da sottoporre a verifica, di cui poter dubitare, ha una pronta attuazione, una volta che è superata la tentazione di fare della realizzazione di sé il centro e la condizione della propria scelta di fede. Se Dio è scelto con libertà e per se stesso, interviene poi a prendersi cura di chi lo ha scelto e consente che parta l’avventura della predicazione affidata a Gesù. È la fedeltà espressa in Gesù che apre le strade alla giustificazione annunciata dalla lettera ai Romani.

II Colletta:

O Dio, che conosci la fragilità della natura umana

ferita dal peccato,

concedi al tuo popolo di intraprendere

con la forza della tua parola

il cammino quaresimale,

per vincere le seduzioni del maligno

e giungere alla Pasqua nella gioia dello Spirito.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…


[1]  Prefazio di Quaresima I:

            Ogni anno tu doni ai tuoi fedeli

            di prepararsi con gioia,

            purificati nello spirito,

            alla celebrazione della Pasqua,

            perché assidui nella preghiera e nella carità operosa,

            attingano ai misteri della redenzione

            la pienezza della vita nuova

            in Cristo tuo Figlio, nostro salvatore.

[2]          Il commento alla I lettura è tratta da : Tommaso Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo, 2001.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano