Patti chiari. Gesù ha spiegato ad uno stranito Pietro e a noi in che modo intende fare il Messia, il Cristo: senza arroganza, senza ostentazione di forza, senza violenza, cercando di riportare a Dio il popolo d’Israele con le parole e con i gesti. E di essere disposto a morire pur di non barattare il meraviglioso volto di Dio che ha scoperto e che annuncia. Di non voler cedere a compromessi, di non scendere al ribasso.
È determinato, il Signore Gesù, perché vuole difendere quanto ha scoperto, quanto ha scoperto nel cuore, vuole adempiere a quella che considera la sua missione. Se questa è la sua vita, poco gli importa di morire per difendere quello che di più prezioso. Quindi, conclude, chi vuole essere suo discepolo deve essere disposto, come lui, a salire sulla croce, affrontando onta e vergogna, disposto a rinunciare all’approvazione degli altri piuttosto che a Dio.
Questo è il significato dell’invito di Gesù a prendere la croce: quello di entrare nella logica del dono totale di sé, dello spendere la vita per il Regno. Perciò Dio non manda le croci, non mette alla prova i suoi figli inviando disgrazie e iatture. Perché dovrebbe? Per rinforzare la nostra piccola fede con il dolore? Ma nel dolore, quasi sempre, la fede la perdiamo, non la rinforziamo! Dio non manda le croci, non dà uno scorpione al figlio che gli chiede un uovo! La vita, gli altri, i nostri pensieri ci crocifiggono, non Dio.
Chi rifiuta il suo volto è disposto a crocefiggere i discepoli del Nazareno, non certo il Padre. Portare la croce significa, insomma, essere disposti a testimoniare Gesù fino in fondo. Niente prove da superare o dolori da sopportare, quindi, niente esaltazione del dolore, niente del genere. Se vogliamo seguire il Maestro sappiamo fin d’ora quanta determinazione e tenacia ci sono chieste, perché, scoprendoci amati, abbiamo deciso di amare sempre e in ogni condizione, anche quando il gioco si fa duro, come ha saputo fare il Signore.
Fonte: Il mensile “Amen – la Parola che salva“
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