Il famoso “discorso della montagna” del Vangelo di Matteo (Mt 5-7) è fondamentale per la comprensione del cristianesimo.
Alcuni, come Paul Billerbeck e Benedetto XVI, lo vedono nel solco della grande tradizione rabbinica. Joachim Jeremias lo inquadra nel pensiero del tardo giudaismo e ne vede tre possibili interpretazioni. Quella “perfezionistica”: Gesù chiede ai suoi discepoli la radicale osservanza della Torah. Quella “dell’inattuabilità”, l’interpretazione dell’ortodossia luterana: Gesù vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro incapacità a compiere con le loro forze quanto Dio esige, e quindi a confidare in una salvezza che viene solo da Dio. Quella “escatologica”, che legge nel discorso un insieme di leggi eccezionali, valide in epoca di crisi, nella forma di un incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe.
Invece per il rabbino Jacob Neusner, Gesù rompe completamente con la Torah, pretendendo di porsene al di sopra. “Gesù avrebbe perfino insegnato a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cfr Mt 12,8: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato») e dei genitori (cfr Mt 10,37: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me») e fa consistere la santità nella sequela di sé” (B. Forte).
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Gesù comincia assicurando di non essere venuto ad abrogare la Torah bensì a completarla e a darle l’interpretazione ultima e definitiva, dopo la quale non ce ne saranno altre. Matteo scrive il suo Vangelo per gli ebrei, e pertanto era particolarmente cogente esplicare questo rapporto tra la tradizione mosaica e la novità del Vangelo.
Ma per Gesù non è sufficiente l’osservanza indicata dai teologi del tempo, gli scribi e i farisei: egli vuole una giustizia maggiore, più abbondante (“perissèuo”: Mt 5,20), che superi le interpretazioni tradizionali.
Ecco perché Gesù, nel brano evangelico di oggi, presenta quattro antitesi: “Avete inteso che fu detto agli antichi: «Non uccidere» (Es 20,13; Dt 5,17). Ma io vi dico chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto a giudizio…”. A Gesù non basta vietare l’omicidio. Vuole frenare l’aggressività insita nel cuore dell’uomo, spegnere la collera prima che si estrinsechi nella violenza, fermare quel chiacchiericcio che Papa Francesco definisce “un’arma letale, che uccide, uccide l’amore, uccide la società, uccide la fratellanza”. Già rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Gesù va quindi alla radice del comandamento e lo traduce in: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5); “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
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La seconda e la terza antitesi riguardano la sessualità. Per Gesù non basta: “Non commettere adulterio” (Es 20,14; Dt 5,18). Egli vuole frenare il desiderio di possesso, il bramare un’altra persona per impadronirsene. Tutto il corpo con la sua sessualità deve essere ordinato non al piacere egoistico ma all’amore, alla relazione profonda, al dono reciproco. Per questo Gesù dice, come ribadirà in Mt 19,1-19, che Dio non vuole il ripudio, ma che l’amore tra i due sia esclusivo e per sempre. Il brano di Matteo presenta, insieme al rifiuto del divorzio, il famoso inciso che tanto ha fatto discutere: “Chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di porneìa, la espone all’adulterio” (Mt 5,32; cfr 19,9). Sicuramente la porneìa non è il concubinato, come invece traduceva la Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana del 1971, perché non si vede perché l’evangelista debba prevedere un’eccezione specifica per una cosa ovvia. L’esegesi oggi più attendibile ci fa notare come l’inciso della porneìa figuri solo nel Vangelo di Matteo, che scrive per gli ebrei convertiti delle comunità della Palestina e della Siria: costoro continuavano ad attenersi alle consuetudini giudaiche che proibivano la zenut, o “prostituzione” secondo gli scritti rabbinici, cioè quelle unioni considerate incestuose perché contrassegnate da un grado di parentela proibito nel libro del Levitico (Lv 18,6-18), come il matrimonio con la matrigna o con la sorellastra, unioni spesso invece consentite dalla legislazione romana. Di qui la conclusione del Concilio di Gerusalemme, che stabilì per tutti la necessità di astenersi anche “dalla porneìa” (At 15,20.29), cioè da quelle unioni che, pur considerate valide nel diritto romano, erano da considerarsi nulle, perché incestuose, secondo la legislazione ebraica: in questo caso il cristiano non solo poteva sciogliere l’unione ma, in quanto non era un valido matrimonio, aveva il dovere di liberarsene. Sarà la stessa porneìa contro cui si scaglierà Paolo condannando “in balìa di Satana un tale convivente con la moglie di suo padre” (1 Cor 5,1-5). Accettando questa interpretazione, la Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana del 2008 traduce porneìa come “unione illegittima”.
La quarta antitesi riguarda l’autenticità dei rapporti interpersonali. Non basta: “Non dire falsa testimonianza” (Es 20,16-Dt 5,20). Il parlare di ciascuno deve essere sempre limpido, al punto da non rendere necessario di chiamare Dio a testimone: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).
In tal modo la Legge di Dio è esplicata nella sua profondità e nella sua radicalità. Solo Gesù la Parola di Dio fatta carne, poteva presentarsi come il Mose ultimo e definitivo.
Carlo Miglietta
Il commento alle letture di domenica 5 febbraio 2023 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.