La Legge nel cuore
In questa domenica la prima lettura (Sir 15,15-20) parla del comando come di un’offerta di Dio all’uomo, non come di un’imposizione. Un’offerta che sollecita la libertà dell’uomo mentre gli rivela una sua potenzialità: “Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti” (Sir 15,15). Nel testo evangelico (Mt 5,17-37) l’approfondimento e la radicalizzazione del senso dei comandi operati da Gesù è anche approfondimento e radicalizzazione della libertà umana che trova nel cuore la sua sede invisibile e nelle relazioni con gli altri il luogo del suo manifestarsi come responsabilità liberante. Possiamo così cogliere l’ampio brano del discorso della montagna presentato dal testo liturgico del vangelo come invito alla conversione del cuore. E le esigenze poste da Gesù le possiamo vedere come elementi dell’apprendimento ad amare, essendo l’amore la pienezza e il compimento della Torah: Mt 22,37-40; Rm 13,8-10.
E poiché già la Torah tende al cambiamento del cuore dell’uomo, ecco che in bocca a Gesù il decalogo diviene sì radicalizzazione, ma in particolare diviene denuncia dell’ipocrisia: l’ipocrisia di chi non si macchia di omicidio ma uccide quotidianamente il fratello con la collera violenta, con la parola che veicola disprezzo e che annienta l’altro (Mt 5,21-22); l’ipocrisia di chi fa della liturgia il velo che nasconde i propri odi e le proprie antipatie verso gli altri; l’ipocrisia di chi si mostra indifferente al fatto che altri possano avere qualcosa contro di lui (Mt 5,23-24). E va notato che Gesù non dice se è a torto o a ragione che qualcun altro ha qualcosa contro colui che sta presentando l’offerta all’altare: dietro al torto (sempre degli altri) e alla ragione (sempre propria) si nascondono normalmente gli ipocriti che non hanno il coraggio di riconoscere i propri errori e i propri orrori. L’ipocrisia, ancora, di chi non consuma materialmente un adulterio ma ne commette tanti nel proprio cuore (Mt 5,27-28). Con il riferimento al desiderio (Mt 5,28) giungiamo al compimento della Torah: quando la Torah è nel cuore dell’uomo, quando abita il suo desiderio, lì c’è il compimento della Legge. I riferimenti all’occhio, alla mano e poi alla bocca, presenti nelle parole di Gesù, trovano la loro radice nel riferimento al cuore, al desiderio.
Ecco dunque la strada che queste parole di Gesù intendono far percorrere al credente: la strada che conduce alla pienezza dell’amore. Ha scritto Erasmo da Rotterdam: “Chiunque ama il prossimo con sincera e cristiana carità, questi possiede l’essenza dell’intera legge mosaica; se manca la carità, non sono sufficienti le leggi, numerose quanto si vuole; se essa c’è, non vi è ribollire interiormente? Cosa dice di me lo scoppio d’ira?” Una momentanea presa di distanza da sé, uno sguardo su di sé, una domanda rivolta a se stessi, possono condurci a elaborare la collera esprimendola con parole che restano aperte e con gesti che non feriscono ma esprimono la nostra sofferenza. E così possiamo, anche in una situazione critica che può avere esiti drammatici, ritrovare la giustizia, ovvero una relazione sana con gli altri e con Dio. Anche l’atto cultuale, il momento in cui facciamo memoria del primato di Dio sulle nostre vite, è autentico e giusto se è anche memoria dell’altro, della sua sofferenza e di ciò che egli nutre contro di noi (Mt 5,23).
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Altrimenti il far memoria di Dio si accompagnerebbe al dimenticarci dei fratelli, del male che abbiamo fatto loro, e diverrebbe complice dell’ingiustizia. Anche qui occorre una sospensione: l’atto rituale non viene abolito, ma sospeso, perché anch’esso obbedisce a una priorità: “prima, riconciliati con il tuo fratello, solo dopo vieni e presenta la tua offerta” (Mt 5,24). La sospensione implica un lavoro interiore di memoria dell’altro: Gesù sta dicendo che l’atto liturgico non può essere separato dalla vita, perché, in verità, il culto autentico è quello che avviene nelle relazioni. Anche l’atto cultuale deve rispondere al criterio di giustizia sovrabbondante posto da Gesù (Mt 5,20). Ne va della verità di ciò che si celebra. E ancora: che fare con l’avversario (Mt 5,25)? Anzitutto chi è l’avversario? L’avversario è colui che fa strada con noi, vive con noi, è il nostro prossimo. L’avversario è figura che possiamo diventare noi per i nostri fratelli e che può diventare il fratello nei nostri confronti. In sostanza Gesù dice: “Cerca di ricostruire una buona intesa con lui prima che sia troppo tardi, prima che la relazione sia compromessa per sempre e non venga più recuperata”. Anche qui c’è una priorità, un’urgenza: “presto”, senza attendere, senza dilazioni, “mettiti d’accordo con il tuo avversario”, dice Gesù (Mt 5,25). Anche i sentimenti di astio o di disagio verso l’avversario vanno messi tra parentesi, vanno sospesi, per prendere l’iniziativa e ritrovare il fratello nell’avversario.
Essendo queste parole di Gesù una pedagogia del cuore, si comprende che un ampio spazio sia occupato dalla parola: infatti “la bocca parla dalla sovrabbondanza del cuore” (Mt 12,33). La parola è in gioco nell’uccidere (Mt 5,22) come nel giurare (Mt 5,33-36), ed è necessaria per riconciliarsi con il fratello come per mettersi d’accordo con l’avversario. Ecco dunque che la parola della Torah parlata da Gesù (“ma io vi dico”) diviene magistero per il quotidiano parlare dell’uomo. Il taglio liturgico fa terminare il nostro brano sulla frase: “Il vostro parlare sia ‘sì, sì’, ‘no, no’; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37). Affermazione che conclude il discorso di Gesù sul giuramento. Giurare significa porre un’affermazione sotto la garanzia della potenza divina e della sua veridicità.
Tommaso d’Aquino spiega: “prendere Dio come testimone si dice giurare: poiché a norma di diritto, o giure, si è stabilito che quanto viene affermato con la testimonianza di Dio sia ritenuto come vero” (Summa Th. II-II,89). Nel giuramento l’appello a Dio (giurare in nome di Dio), che è veritiero, supporta quanto l’uomo, capacissimo di mentire, afferma sia un riferimento al passato (il giuramento assertorio), sia in riferimento al futuro (il giuramento promissorio). In questo senso ha ragione Bonhoeffer quando scrive che “il giuramento è la dimostrazione della menzogna nel mondo. Se l’uomo non potesse mentire, non ci sarebbe bisogno di giuramento”. La questione del giuramento sta particolarmente a cuore al primo evangelista che parla di diverse forme di giuramento non solo in questo passo, ma anche in Mt 23,16-22. Là Gesù critica l’ipocrisia che invade lo spazio del giuramento: “Guai a voi, guide cieche, che dite: ‘Se uno giura per il tempio, non conta nulla; se invece uno giura per l’oro del tempio, resta obbligato’. Stolti e ciechi! Che cosa è più grande: l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: ‘Se uno giura per l’altare, non conta nulla; se invece uno giura per l’offerta che vi sta sopra, resta obbligato’.
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Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che lo abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso”. Anche nel nostro passo si ricordano varie formule di giuramento (per il cielo, per la terra, per Gerusalemme, per la propria testa) che tutte rinviano a Dio come signore di tutte queste realtà. Dio è il creatore del cielo e della terra, Lui ha scelto Gerusalemme come dimora della sua presenza, e Lui è signore di ogni vita. Gesù non si limita a interdire lo spergiuro (come già faceva l’AT: “Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore”, Lv 19,12), ma proibisce il giuramento tout court.
L’invito è all’integrità della persona che si manifesta nell’avere una parola unica e veritiera. Gesù vuole che il credente sia responsabile delle parole che dice. Gesù opera una desacralizzazione e chiede all’uomo una laica adesione alla parola pronunciata senza chiamare in causa Dio, rischiando di profanare il nome di Dio. Diceva già Sir 23,9: “Non abituare la bocca al giuramento, non abituarti a proferire il nome del Santo”. Per Gesù si deve pervenire a non giurare: il parlare dell’uomo dev’essere talmente vero da non aver bisogno di giuramenti. Ogni parola deve rispondere di se stessa, senza far entrare in gioco Dio. Giurare equivarrebbe a far ricorso a un duplice livello di verità e a usare Dio come tappabuchi della propria incapacità di garantire la verità.
Ecco allora la parola radicale di Gesù: “Non giurate affatto” (Mt 5,34). Parola che troviamo in un altro passo neotestamentario molto simile: “Non giurate né per il cielo, né per la terra, e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro ‘sì’ sia sì, e il vostro ‘no’ sia no, per non incorrere nella condanna” (Gc 5,12). Scrive Bonhoeffer commentando le parole di Gesù “sia il vostro parlare ‘sì, sì’, ‘no, no’: “Con ciò la parola del discepolo non viene certo sottratta alla responsabilità di fronte a Dio onnisciente. Anzi, proprio perché non viene invocato espressamente il nome di Dio, ogni parola del discepolo si trova a essere pronunciata al cospetto di Dio. Dato che non c’è parola che non venga pronunciata davanti a Dio, il discepolo non deve giurare”
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose