Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 5 Febbraio 2023

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Una bella luce

La luce come responsabilità dei credenti: così può essere intesa l’unità tra prima lettura (Is 58,7-10) e vangelo (Mt 5,13-16) di questa domenica. La fede è chiamata a divenire luce. Ben sapendo che al credente la luce non appartiene e che lui può soltanto accoglierla e rifletterla. Isaia e Matteo convergono nell’affermare che la luminosità del credente si manifesta in opere di giustizia e carità, in un agire corporeo e relazionale. Le letture insistono sulle opere di giustizia e carità: il vero digiuno, afferma Isaia, consiste nel lavoro di liberazione e giustizia, di condivisione e solidarietà (Is 58,6-7); il vangelo sottolinea che la luce dei credenti si traduce in opere belle (érga kalà: Mt 5,16; la Bibbia CEI traduce “opere buone”). L’esortazione a fare il bene è anzitutto invito a una lotta: lottare per vincere la tentazione di un’ascesi e di una mortificazione fini a se stesse, che allontanano dalla relazione con gli altri rimuovendo quella dimensione corporea che è il luogo di manifestazione dello spirito, dunque della carità e della giustizia. È invito a lottare contro la tentazione della facilità, della superficialità e della bruttura in cui spesso cadiamo senza nemmeno accorgercene e ad opporvi azioni belle, cioè sapienti e sapide (“essere sale”), calde e luminose (“essere luce”). La luce dei credenti deve risplendere in quella carne che spesso viene colta come opaca e opacizzante e in quelle relazioni che a volte sono considerate ostacolo a una qualità spirituale. La luminosità dei credenti si deve pertanto declinare come bellezza, ma una bellezza che coniuga dimensione estetica e dimensione etica e che trova il suo momento più alto nel fare il bene a chi ci ha fatto il male, nel rispondere con mitezza alle offese ricevute.

Le opere di misericordia e giustizia di cui parla il profeta (Is 58,7) e le opere “belle” di cui parla Gesù, si radicano nel cuore del credente e suppongono un lavoro interiore. Lavoro che, secondo Is 58,9, significa il riconoscimento che l’attitudine a non lasciar spazio agli altri (“oppressione”), a giudicare e condannare (“puntare il dito”), a sparlare e calunniare (“parlare empio”), abita in noi e costituisce il buio che, una volta portato alla luce, può consentire la trasparenza e la limpidezza che rendono luminoso il credente. Dice Isaia: “Se toglierai di mezzo a te” (dal tuo cuore e dunque anche dai tuoi rapporti con gli altri) queste cose, ecco che la tua luce si manifesterà. C’è un lavoro di sgombero interiore, di dissodamento del profondo, c’è una ablatio necessaria per divenire capaci di amore e giustizia. Infatti, la dinamica dell’azione buona secondo Isaia non è anzitutto un fare, ma un togliere, un eliminare da se stessi le tre attitudini appena ricordate. Non farlo, per Isaia equivale a distogliersi dalla propria stessa carne, ovvero la carne che condividiamo con gli altri e che è anche la nostra casa. Questo sarebbe un cadere nell’indifferenza e nel ripiegamento del cuore su se stesso. André Chouraqui traduce la frase di Is 58,7 “senza sottrarti davanti alla tua carne”. La carne, la fragilità dell’altro è un appello che sollecita la mia responsabilità, cioè la mia risposta di cura.

Inoltre, fare il bene è sempre farsi del bene, suggerisce Isaia affermando che facendo il bene la “tua ferita si rimarginerà presto” (Is 58,8). Colui che vede le sofferenze altrui e interviene per alleviarle, vedrà rimarginarsi le proprie ferite. Prendersi cura degli altri è prendersi cura di sé. Il curatore è anch’egli un ferito, una persona bisognosa di cura. La coscienza di essere noi stessi malati è essenziale per vedere le ferite altrui e prendercene cura con efficacia, così come per sperimentare effetti terapeutici positivi su di noi. L’umanità ferita è unica, in me e nell’altro.

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Il vangelo aveva già detto che Gesù aveva cominciato a irradiare la sua luce nella zona della Galilea: “Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce” (Mt 4,16). Ora, dopo aver presentato Gesù che proclama le beatitudini, Matteo mostra i discepoli e le folle che ascoltano la luce. Solo ascoltando la parola luminosa di Gesù si arriva a vedere la sua luce. È grazie all’ascolto della sua parola che i discepoli possono essere chiamati “luce del mondo” e “sale della terra”. Nella simbologia biblica la luce è attributo della parola di Dio: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105). “Luce” è la prima parola che esce dalla bocca del Dio creatore (Gen 1,3). E Gesù stesso, “luce del mondo” (Gv 8,12), trasmette la sua luminosità a chi accetta di lasciarsi guidare dalla sua parola attraverso l’ascolto che diviene sequela. “Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). L’ascolto e la sequela operano la trasmissione della luce sul discepolo che ne diviene un riflesso e che a sua volta la può irradiare. È significativo che queste parole di Gesù ai discepoli, così importanti e costitutive sul piano, potremmo dire, ecclesiologico, siano immagini: sale, luce, e poi città. È un linguaggio simbolico e metaforico che non definisce e neppure norma con precisione doveri e compiti, ma costituisce un alveo al cui interno muoversi, una direzione da percorrere, uno spazio in cui immergersi. E questo affinché la presenza e la testimonianza dei cristiani nel mondo sia sensata.

Le immagini del sale, della luce e della città rinviano nel loro insieme a quello che possiamo chiamare “senso”. Matteo ha specificato che il parlare di Gesù sul monte è un insegnamento (Mt 5,2) e insegnare ha a che fare con il senso, in tutti i significati che tale parola riveste e che sono ben espressi dalle metafore della luce, del sale e della città. In quanto luce, i credenti percorrono un cammino e indicano una via, una direzione. La loro presenza ha un’importante dimensione etica. Né si può dimenticare che nell’interpretazione di diversi padri della chiesa i cristiani sono luce del mondo in quanto annunciatori del vangelo: il vangelo annunciato con parresía illumina gli esseri umani che possono così uscire dalle tenebre in cui si trovano. La luce, che consente di vedere e di dare una forma alle cose, ha anche la valenza di significato e riveste una dimensione filosofica e, se si pensa al fine ultimo del cammino terreno, anche teologico ed escatologico. In quanto sale, essi danno sapore e infondono gusto al vivere. La loro presenza è chiamata a essere sapida, non insapore e ha una valenza estetica in quanto evocazione e testimonianza di bellezza. Quanto poi alla città posta su un monte, il suo senso è quello di attrarre, di dare un orientamento al desiderio, di fornire una meta al percorso degli umani. Così essa simboleggia il compito della chiesa che è di “crescere non per proselitismo, ma per attrazione” (Benedetto XVI). Dietro all’immagine della città che, posta su monte e dunque ben visibile, diviene un polo di attrazione del cammino dei popoli, sta la tradizione veterotestamentaria del pellegrinaggio dei popoli (cf. Is 2,1-5). Questa immagine ha una valenza ecclesiologica se la intendiamo non tanto come agglomerato urbano situato in un luogo preciso, ma come comunità di persone che si può realizzare in qualunque luogo. Questa comunità di persone per Matteo ha nome di fraternità: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8), dice Gesù ai discepoli e questa affermazione sta alla base dell’essere sale e luce dei discepoli stessi nei confronti dell’umanità.

Ciò che colpisce nelle immagini usate da Gesù è che di tutte si mette in luce la possibilità del fallimento: il sale può divenire “sciocco” (così traduce Ulrich Luz, unendo felicemente le nozioni dell’insipido e della stoltezza presente nel verbo moraínein usato da Mt 5,13.22; 7,26; 23,17; 25,2.3.8) e un sale insipido non serve a niente. La lampada può essere messa sotto il moggio e smettere di illuminare; una città può restare nascosta e venir meno al suo compito di accogliere e farsi abitare. Gesù intravede la possibilità dell’insignificanza in cui i cristiani possono finire. E così la pagina evangelica fotografa gran parte dell’attuale situazione dei cristiani nel mondo, o almeno nei paesi di antica cristianità. Dov’è la forza di attrazione della chiesa oggi? Dov’è la promessa di vita, di senso e di felicità, per le persone, in particolare per le giovani generazioni? Dove e come la chiesa oggi è sale? Cioè capace di infondere sapore e dare bellezza e gusto al vivere? E dove e come è luce? Ovvero dove e come è capace di indicare vie da percorrere, dischiudere futuro e speranza, aprire sentieri di senso? Spesso le nostre chiese si presentano come svigorite, stanche, senza passione, esauste, logore.

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L’immagine del sale divenuto insipido si accompagna alla constatazione che esso “non ha più forza per nulla (eis oudèn ischýei)” (Mt 5,13). E non può stupire che la presenza cristiana spesso non susciti che indifferenza. Cosa occorre? Non si tratta di indicare delle “cose da fare”, ma degli atteggiamenti da assumere: coraggio, immaginazione, creatività. Ovvero, intelligenza creativa. Luce e sale indicano anche intelligenza. E l’intelligenza osa con coraggio affrontare i cambiamenti riconoscendo che non si può pretendere che le cose cambino se si continua a pensare allo stesso modo di sempre e a fare le stesse cose di sempre. L’intelligenza analizza le situazioni e osa immaginare soluzioni inedite, gettando fasci di luce in zone d’ombra in cui si avanza a tentoni. L’intelligenza osa creativamente dare forma concreta a modalità di presenza, a linguaggi, a contenuti che traducano l’evangelo eterno nell’oggi storico. Forse così possiamo riscoprire cosa significhino quelle parole: “Voi siete il sale della terra e la luce del mondo”.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose