don Paolo Squizzato – Commento al Vangelo del 29 Gennaio 2023

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Felicità, ossia pienezza di vita, è assicurata a coloro che ‘molleranno la presa’.
Il vuoto creato in sé è via per la pienezza. Lasciare e staccarsi è possibilità di essere raggiunti. Felici coloro che si permetteranno di non far dipendere la propria felicità da qualcosa d’esterno, in quanto la felicità è sempre un ‘effetto collaterale’, ti raggiungerà quando avrai smesso di cercarla. Quando non ci sarà più l’io e il mio, scoprirai che felice lo eri da sempre.

Felici saranno coloro che imparano a fare lutto nella propria vita. Coloro che imparano a piangere per le persone scomparse, le occasioni perdute, per ciò che non si è potuto vivere, per colpa propria o altrui. Per tutto ciò che si soffre, e soprattutto per quanto si fa soffrire gli altri.

Piangere è dar corpo fisico alla tristezza, permettendo all’anima di drenare.
«È triste piangere per quello che si è sofferto, ma è più triste non piangere in assoluto, poiché questo significa che non abbiamo amato. Chi piange esprime disperatamente il suo amore: per la luce velata dall’avversità. Chi piange rilascia il proprio dolore, ed è così che si consola. Lo lascia andare. Permette che fluisca e non ristagni» (Pablo d’Ors).
‘Ci sono cose che non vedono se non gli occhi che hanno pianto’ (Louis Veuillot).

Mite è colui che ha pianto così tanto da ripulire i suoi occhi e vedere finalmente la realtà per quella che è. Occorre imparare ad essere molto miti anzitutto con sé stessi. Perdonarsi senza il bisogno di farsi violenza e fluire come fluisce la vita, senza mettersi di traverso e opporle resistenza.
‘Non voglio diventare migliore, voglio sorridere al mio peggio’ (Chandra Candiani)

Giusto è ‘chi vive secondo la propria natura’ (Platone).
Dovremmo essere affamati e assetati di compierci per ciò che siamo, senza corrispondere ai sogni degli altri. Imparare a patire la propria incompletezza; solo così impareremo a lottare perché gli altri possano giungere alla loro, consapevoli che non si può essere felici in mezzo all’infelicità altrui.

La prima misericordia va vissuta verso sé stessi, mettendo a tacere il proprio super-Io, il giudice implacabile che ci abita e responsabile di devastanti sensi di colpa quando non si vive in conformità coi propri ideali.
‘Neanch’io ti condanno – dice Gesù alla donna scoperta in flagrante adulterio – va’ e d’ora in poi non fallire la vita’. Solo chi è misericordioso con sé stesso troverà misericordia. Chi si perdona può cominciare a perdonare, e perdonare significa riconciliarsi con ciò che si è stati e si è.

È beato chi ha un cuore puro, ossia incapace di nutrire secondi fini, e dice ciò che intende dire. E ama lasciando libero l’amato.
Kierkegaard definisce la purezza di cuore come il desiderare una sola cosa. Siamo ingolfati da desideri, a cui affidiamo la nostra felicità. Mentre dovremmo imparare a desiderare solo ciò che siamo in questo momento, unico porto sicuro per salpare per quest’oggi colmo di opportunità.

‘Chi è in guerra con sé stesso è in guerra col mondo intero’ (Gandhi). E viceversa.
Si è fautori di pace quando si accoglie la propria polarità, l’altro nome della contraddizione. Tutto è polarizzato. Inspiro ed espiro, unico modo per vivere.
Notte e giorno, unico modo perché la giornata possa compiersi.
La morte dell’inverno e la vita dell’estate…
Saremo in pace con noi stessi quando armonizzeremo gli opposti che ci abitano, e impareremo a riposarci in essi, certi che a volte per giungere ad un punto occorre puntare decisamente su un altro. Come nel tiro con l’arco, perché la freccia possa scoccare e andare lontano, è necessario tendere il braccio con forza in direzione ‘ostinata e contraria’.
Devo affrontare in modo creativo i conflitti dentro e intorno a me per poterli risolvere.

‘La causa di Dio agonizza sempre in questo mondo’ (Pablo d’Ors).
Le persone luminose sono tollerate solo quando non fanno rumore. Se lo fanno, sono perseguitare, calunniate, messe in ridicolo. La santità di queste figure è data dal modo in cui fanno tana in tutto questo. Il santo, l’illuminato, l’essere maturo è colui che ha imparato a stare, ritto come un albero, con le radici ben radicate a terra sia nella calma che nella tempesta, negli applausi e nelle critiche. Egli sa che le lodi o gli insulti, al fine dell’essere, non hanno alcun significato. Tutto scorre. Tutto è ‘vapore’.
E i colpi che riceve l’allontanano dall’effimero e l’avvicinano all’essenziale.
‘Nessuno può fermarlo. Egli possiede una forza sconosciuta al mondo. Ha la mira puntata sul bersaglio verso il quale s’incammina; tutto il resto, è niente. (d’Ors).

Per gentile concessione di don Paolo Squizzato

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