Commento al Vangelo di domenica 29 Gennaio 2023 – Comunità Kairos

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Il vangelo delle Beatitudini costituisce la prima parte del famoso “discorso della montagna” (Mt 5,1 – 7,29). Il monte, notoriamente è un luogo teologico, perché è il luogo della rivelazione divina (Es 3,1ss) (Es 19,1ss) (1Re 19,1ss) (Mt 17,1-8) (Mt 28,16); qui l’evangelista Matteo vuole ricordarci in particolare il Sinai e propone Gesù come il nuovo Mosè, ma con delle differenze sostanziali, perché in Gesù l’AT si trasfigura, in Lui la Legge e i Profeti si fanno parola incarnata che dà vita.

E non è un caso che tutto cominci con uno sguardo, lo sguardo misericordioso di Gesù che si posa sulla folla che lo segue, uomini e donne che attendono una parola di speranza. Non verranno delusi, perchè Gesù si mette a sedere nell’atteggiamento tipico del maestro per pronunciare quello che viene definito il suo discorso programmatico, la dichiarazione d’amore di Dio rivolta all’intera umanità, otto beatitudini (il numero 8 è il simbolo della resurrezione), più una nona che in realtà è uno sviluppo tematico dell’ottava. Esse non stabiliscono nuovi comandamenti, ma propongono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore e indicano un cammino di umanizzazione che dia senso alla vita dell’uomo nella sua ricerca della felicità.

Il Figlio si fa mediatore del Padre, la sua Parola ha un’autorevolezza divina, non può essere più scritta su lastre di pietra, è tempo che si incida nel cuore degli uomini malati, oppressi, poveri, che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25), per rimetterli in piedi, per far rifiorire in loro la speranza. Gesù è venuto a proporre un nuovo rapporto con il Padre, che non è più basato sull’obbedienza della sua legge, ma sull’accoglienza e sulla somiglianza del suo amore. Inoltre, mentre i comandamenti sono per un singolo popolo, Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.

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La parola che inizia ogni beatitudine è: “‘Ashrè”, che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione. La traduciamo con la parola “beati “, che non è un aggettivo, ma un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23).
Dire beato qualcuno è un’espressione di benedizione trasversale in tutta la Bibbia fino all’Apocalisse, che si apre proclamando: “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte” (Ap 1,3). E’ anche la parola che apre l’intero salterio: “Beato l’uomo che non segue il consiglio dei malvagi, non resta sulla via dei peccatori, non sta in compagnia degli arroganti, ma nell’insegnamento del Signore trova la sua gioia e medita il suo insegnamento giorno e notte” (Sal 1, 1-2).

Eppure, l’elenco delle beatitudini ha creato scandalo. Le interpretazioni per molto tempo hanno dato luogo a fraintendimenti: da una parte pareva che il Signore chiedesse la ricerca di autoperfezione, dall’altra la ricerca del dolore. Sia chiaro, Gesù non fa l’elogio della rassegnazione di fronte ai drammi e alle sofferenze. Sul monte teologico della rivelazione Gesù ci offre invece un

ritratto di se stesso. Ed è proprio guardando a Lui che vanno lette. Origene dice: “Le beatitudini sono immagine di Gesù, altrettante icone della figura spirituale di Gesù”. È lo stesso vangelo di Matteo ad aiutarci a penetrare il significato delle due beatitudini dei poveri e dei miti, riportando le parole che Gesù pronuncia quando invita gli oppressi e quanti sentono il peso della vita ad andare da Lui, per accogliere il giogo della sua parola e trovare riposo: “imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29), dice Gesù, assicurando che il suo è un giogo dolce e un peso leggero. Gesù per primo è dunque “mite” (praýs) ed “umile (tapeinós) di cuore”, espressione chiaramente equivalente a “povero (ptōchós) in spirito”.

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Poveri “in” spirito e non “di” spirito: Gesù non esalta la condizione di una diminuzione della coscienza o dell’intelligenza, ma quella di chi, nella coscienza che ha di sé, riconosce la propria povertà. La consapevolezza della condizione di povertà propria delle creature è il presupposto stesso della fede. Non ci potremmo mai aprire alla ricerca, se pensassimo di avere tutto e di essere già tutto. È una disponibilità all’accoglienza e alla sottomissione che è verso Dio ma anche verso i fratelli, che non possiamo lasciare da soli nella ricerca di giustizia, di purezza del cuore, di misericordia e di pace, di accoglienza anche della persecuzione. Sì, perché seguire Cristo significa andare contro corrente, contro la logica del mondo che ricerca applausi e approvazione. Gesù non ha cercato consenso, non ha sedotto gli altri per ricevere successo! Ecco perché la prima beatitudine non è stata collocata a caso, è la condizione perché esistano tutte le altre. Beato allora chi fa i conti con il senso del limite, consapevole di non avere diritto a nulla, ma di essere invece destinatario di un dono immenso e gratuito: l’elezione a Figli di Dio (Rm 8, 14-23; Gal 3, 7.26).

Niente bramosia di ricchezze, niente egoismo, odio, cupidigie. Dio farà felice l’uomo a partire dalla sua condizione di fragilità e di debolezza. Quindi: “Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più” (Mt 6,33). Non ci resta che alzare gli occhi verso Colui che per primo ci ha guardati e ascoltare la sua Parola che ci permette qui e ora di costruire relazioni di pace, di misericordia e di giustizia.

Annunciare Cristo, testimoniarlo nella propria vita, vuol dire essere profeti scomodi e perciò esposti alla derisione, alla persecuzione. Ma non per questo dobbiamo lasciarci spaventare. Al contrario crediamo al comando e alla promessa di Cristo: “Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”(v.12).


A cura di Annalisa per la Comunità Kairos.

Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay