Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 29 Gennaio 2023

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Piombo in oro

L’agnello che porta il peccato del mondo, che assume su di sé il dolore del mondo, il Figlio di Dio che ci viene incontro, che porta l’annuncio nelle periferie della Storia, là dove nessuno vuole stare, che ci invita ad andare dietro di lui, a pescare tutta l’umanità che abita noi e negli altri, oggi parla ai nostri cuori, riassume tutta la logica di Dio in un’unica, memorabile pagina. 

Insopportabile.

Una pagina talmente destabilizzante da essere insostenibile, dall’essere sconosciuta alla maggior parte dei cristiani.

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Forse perché troppo difficile o, comunque, non applicabile. Forse perché i predicatori stessi l’hanno stravolta, riducendola ad una sorta di illusorio elenco di buoni propositi etici.

Eppure la pagina delle beatitudini è fuoco che divampa, a saperla leggere.

Perché racconta cosa pensa Dio della felicità. E come si fa a raggiungerla.

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Il Dio felice, che ci vuole felici, che non ce l’ha con me, mi indica una strada. E che strada.

Perché descrive, più di ogni altra pagina del Vangelo, la profonda identità di Gesù, il primo a vivere quanto annuncia, il primo beato nella logica del Padre.

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Elogio della disgrazia

Forse la ragione per cui questa pagina è così colpevolmente ignorata da noi discepoli è che, ad una prima lettura superficiale, elogia la sfortuna, esalta la disgrazia, la scalogna, la iella, confermando l’idea, molto diffusa, che i cattolici siano delle madonnine infilzate e piangenti. 

Gesù definisce beati, cioè felici, coloro che sono poveri, che piangono, che sono perseguitati…

Ma scherziamo? 

Chi vive nella povertà o nel pianto, chi è perseguitato non è felice. È nella tristezza più cupa. E il rischio, decisamente diffuso, è che, leggendola, molti pensino che il cristianesimo esalti il dolore, ci inviti alla sofferenza, alla sopportazione. Come se Gesù ci chiedesse di piegare la testa, di andare avanti, sopportando ogni nefandezza, quasi che la rassegnazione piacesse a Dio (e, purtroppo, è la greve testimonianza che rendono molti cattolici).

Non è così. Dio non ama il dolore, né ci invita alla rassegnazione.

E quando Gesù parla di felicità, usa il verbo futuro. 

Perché è verso il futuro che dobbiamo guardare per essere felici. 

Non ci aspetta una ricompensa in paradiso per avere sopportato il dolore. Ma vivere in una certa logica, anche se costa dolore e fatica, è la direzione giusta per entrare nella felicità di Dio.

Beati

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sperimentano il proprio limite senza ignorarlo, minimizzarlo, enfatizzarlo. Beati coloro che sanno che le risposte alle tante domande che sorgono dal nostro cuore non sono dentro di noi ma fuori di noi, in Dio. Beati coloro che non vivono nell’apparenza, facendo finta di essere migliori di ciò che sono, ma che hanno il coraggio di accogliere anche le ombre di sé e degli altri, di sperimentare la povertà interiore, perché quella è l’unica strada per lasciar spazio a Dio.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati coloro che non si piangono addosso, che non passano il tempo a lamentarsi, che non si sentono perseguitati da Dio o dagli altri, che non vivono passivamente il dolore. Beati coloro che si lasciano consolare, non compatire. Che sanno mettersi in relazione con gli altri per non stare da soli. Che guardano oltre alla sofferenza che sperimentano. Beato chi scopre che la vita è preziosa agli occhi di Dio, che nessun uomo, mai, è solo e abbandonato, che anche i capelli del nostro capo sono contati (Mt 10,30) e le lacrime raccolte (Sal 56,9), perché il Dio di Gesù protegge i passeri che si vendono per due spiccioli (Lc 12,6). La sofferenza, allora, non è la parola definitiva della vita. Di nessuna vita.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che vedono sempre il lato buono delle cose, e usano parole e pensieri di luce, di pace, di mitezza. Senza essere svaporati, senza essere degli illusi, senza essere delle vittime passive. Ingenui, certo, nel senso etimologico del termine: nati liberi. Beati coloro che cercano sempre di cucire, non di strappare, di gettare ponti, non di erigere muri, perché la terra è loro eredità, un terra abitata, non un cimitero deserto.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati quelli che non cedono alle tante ingiustizie che nascono dall’animo umano incline alla tenebra. Beati quelli che non commettono ingiustizia e cercano di essere retti davanti a Dio e agli uomini. Beati quelli che ancora desiderano perché il loro desiderio sarà colmato. 

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati quelli che, come Dio, guardano alla miseria col cuore, che non giudicano sé e gli altri impietosamente, che chiedono responsabilità e coerenza ma che non fanno della giustizia e della coerenza un idolo. Se giudicano gli altri con verità e compassione troveranno verità e compassione per loro stessi.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati quelli che non vedono il male ovunque, che non usano malizia nei loro giudizi, che non vivono nell’inganno. Per vedere Dio necessitiamo di un cuore trasparente e puro, come il suo. Uno sguardo torbido non vede mai lo sguardo di Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati quelli che non cedono all’odio e alla violenza, che costruiscono la pace a partire dal proprio cuore, che non si lasciano divorare dalla rabbia. Sono chiamati e sono figli di Dio anche se appartengono ad altre fedi, ad altre convinzioni, perché solo il vero volto di Dio suscita desideri di pace nel cuore delle persone.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.

Beati quelli che si assumono le proprie responsabilità, che non scaricano sugli altri, che hanno il coraggio di pagare fino in fondo le proprie scelte, e anche i propri errori. Beati i discepoli che non rinnegano la loro fede per paura.

Urca

Ecco, così ha vissuto Gesù, lo sappiamo.

È morto perché ha vissuto fino all’ultimo queste beatitudini.

E ora tocca a noi, se vogliamo. 

Giorno per giorno, un pezzo di beatitudine alla volta, per cambiare il nostro cuore, per convertire noi stessi e il mondo, per cambiare il nostro sguardo, per allargare la nostra tenda.

Noi poveri, che non ci fermiamo al pianto, miti, assetati di giustizia, misericordiosi, trasparenti, pacificati, disposti a portare le conseguenze delle nostre scelte.

La sfida è lanciata. 

O Gesù è un folle senza speranza, o ha ragione.

Allora vale la pena di rischiare.

E di seguirlo.

Non per uno eroico e titanico sforzo, ma perché, lasciandoci amare, configuriamo la nostra vita a Cristo e realizziamo il capolavoro che siamo.

Lui, l’alchimista, il solo che può far di me un capolavoro, trasformando il piombo in oro (cfr. The Sun).

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