Mi soffermo sul modo in cui Gesù parla di Giovanni: con fervore, con ammirazione, perché non si può mettere a tacere la verità. È quasi come se volesse strappare Giovanni al silenzio che gli è stato imposto dal carcere, preludio della sua morte. È una parola che prende forza, dal deserto raggiunge le folle, divampa come un incendio, se si ha il coraggio di portarla.
Gesù prosegue quello che Giovanni ha iniziato, la sua opera di conversione, partendo dalla descrizione di quest’uomo. La testimonianza di Giovanni è resa credibile dal modo in cui ha vissuto e ha dato la vita, è vera perché lui l’ha vissuta. Non era uno di quelli che si lasciavano corrompere. Dal deserto invitava alla conversione, stando in una radicale essenzialità, predicava con parole dure, che servono a scendere in profondità, a dissodare il terreno, a togliere le pietre, a fare spazio per accogliere i semi della buona notizia.
Un profeta presta la sua voce a Dio, e non solo la voce, Giovanni distoglieva l’attenzione da sé per ricondurre tutti a Cristo. Giovanni è una parola che ferisce, un aratro che rompe il guscio delle nostre convinzioni su noi stessi e su Dio perché possiamo accogliere la misericordia come dono. Non come qualcosa di dovuto, che possiamo ottenere se facciamo i bravi. Senza questo passaggio di verità su noi stessi non può esserci incontro nella libertà.
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Le acque nelle quali siamo chiamati a immergerci sono morte e vita, nutrimento per la terra che siamo; da soli non possiamo far germogliare il seme della vita. Buoni o cattivi? No, c’è solo da mettersi davanti a Dio nella verità della nostra fragilità. Sarà poi Gesù a mostrarci la giustizia di questo Dio, che è misericordia.
Chiedo Signore, l’umiltà della terra, disposta continuamente a lasciarsi spezzare e poi raggiungere.
Caterina Bruno
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato