Commento al Vangelo di domenica 11 Dicembre 2022 – Comunità Kairos

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Matteo qui ferma il ritmo incalzante del suo racconto evangelico, segnando una pausa di riflessione. Siamo a un punto di crisi. Resistenze al messaggio di Gesù si sono ormai coagulate sino a far prevedere la futura persecuzione (10,16-25) La prima predicazione del Regno prende respiro davanti i Misteri del Regno. E si impone una domanda: convertirsi sì, ma a quale Dio? veicolato da quale messia?

Primo mistero è proprio l’identità di Gesù. Che tipo di messia rappresenta? Quali i suoi segni messianici? E su questo si blocca nel buio della sua cella anche Giovanni. Ha sentito delle opere di colui che egli aveva già riconosciuto come “il veniente”, più forte di lui. Ma il Messia atteso dall’antico Israele non corrisponde ai tratti dimessi del Nazareno. Questi non impugna la scure e il ventilabro, non risponde alle sue attese. E’ altro. Perché Altro è il Dio che racconta, troppo distante dall’immagine cristallizzata nel culto e nella precettistica. Un Dio della compassione invece che del dominio, un Dio amante piuttosto che onnipotente, un Dio della misericordia più che del giudizio.

La tensione risulta quindi teologica. Ma c’è pure un risvolto esistenziale. Anche un grande come Giovanni, che ha messo la giustizia al centro della sua ricerca, prossimo alla fine può dire, come tanti: “camminavo verso il bene e mi sono scontrato con il male che mi vuole vittima”. E qui Gesù potrebbe sì rispondere all’identikit messianico tracciato dall’antico profeta che nei suoi miracoli di guarigione e liberazione leggeva l’irrompere del Regno. Di quelle antiche promesse una parla ora al cuore di Giovanni, quella di chi è “venuto a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la scarcerazione dei prigionieri” (Is 61,1b). Allora, a rompere l’attesa, ecco l’ambasciata con la grande domanda, di una carica esplosiva: “Sei tu colui che viene o dobbiamo attenderne un altro?”. Dietro c’è una richiesta non formulata: se sei il Messia, perché non lo sei a mio favore? La solita domanda che nelle situazioni ultime facciamo al Signore: “se tu sei il Salvatore, venga la tua salvezza … se no che salvezza sei?”

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Gesù risponde, come fa Dio che nella sua parola si svela rivelandosi per un lampo, ma facendo scendere di nuovo quel velo che nasconde la sua incomprensibile alterità. Definisce la sua identità a partire dal significato dei sorprendenti miracoli appena operati su lebbrosi, sulle forze della natura, sugli indemoniati, paralitici, su ciechi e muti. Tutti episodi di cura e di liberazione, di restituzione a piena umanità. Incontestabili segni messianici: ci indicano che le situazioni si rovesciano, che l’impossibile diventa possibile, che l’insperabile diventa realtà perché il divino è sceso nell’umano. Riconoscimento che il regno si è fatto vicino, nuovo modo di accedere a Dio che rallegra i poveri e che apre alla gioia, compagna di un messia “mite e umile di cuore”.

Ma nell’utilizzo delle profezie Gesù è selettivo. Fedele a se stesso, tace sugli oracoli di giudizio ed elenca invece le opere gioiose e liete che vedono nella liberazione e nella guarigione dell’uomo e di tutto l’uomo il segno della novità di Dio immessa nella storia. Ma tace con gli inviati di Giovanni anche sulla scarcerazione dei prigionieri. Giovanni dovrà compiere ancora un tratto di cammino, quello decisivo. Traghettare la sua fede verso l’incomprensibile. Rinunziare all’attaccamento alla propria salvezza e affidarsi ciecamente alla fedeltà del Signore.

L’insieme delle letture di questa III domenica di Avvento rappresenta un appello alla gioia, che vibra nel brano di Isaia, come esito della conversione cosmica al Signore. Ma la gioia può trovarci spesso troppo amareggiati per accoglierla. Come in Giovanni, amareggiato e brusco, oppresso da soffi di morte e alla ricerca di un senso finale. Il suo dubbio è il nostro. La sua attesa è la nostra. “La venuta del Signore impone al cristiano attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà.” (E. Bianchi, Le parole della spiritualità).

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E beato è colui che non inciampa in me, è l’invito caloroso a ogni Giovanni che non si chiuda negli stereotipi, che si apra al futuro di Dio per lui.

Ora è Gesù che traccia a sua volta l’identikit di Giovanni. Uomo né di tempio né di palazzo. Lui che, di stirpe sacerdotale, ha contestato vivamente le strutture pervertite del potere templare, scegliendo il deserto come ritorno sorgivo alla relazione con Dio e ha osato opporsi al potere autocratico del sovrano, con un: non ti è lecito, sino a mettere in gioco la vita. Ma sua vera grandezza è essere il precursore di Gesù, preparargli la strada, sino a segnarla con il suo sangue, nella fedeltà. Insieme sono associati a un unico progetto salvifico: conviene che così adempiamo ogni giustizia (3,15).

Ancora altro mistero è però il cuore dell’uomo che questa identità salvifica è chiamato ad accogliere con docile abbandono, per farla sua in un’esperienza vitale. Libero tuttavia di chiudersi a riccio, di negarsi al Cristo. Come sta già avvenendo in Galilea. Come avviene sempre nel corso delle generazioni.

Il giudizio di rifiuto sul Salvatore, a qualunque identikit risponda, è spesso un alibi per continuare eternamente ad attendere, in un’attesa senza amore e senza coinvolgimento.

Perciò, subito dopo, Gesù rimprovererà la generazione del rifiuto, a partire dalle due prospettive, con un paragone fulminante:“Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!» (vv 16-18). Ai suoi contemporanei è stato offerto invano un doppio kairòs: ascoltare la predicazione infuocata del Battista, l’ultimo dei profeti, o seguire Gesù, che ci invita a lui, come alla danza, al suono del flauto. Invito all’ascesi o invito alla gioia?

L’Avvento, che ci ha già spronato alla Vigilanza e alla Conversione, qui ci avverte: non fare di Dio e di chi ce lo porta vicino, un idolo che risponda alle nostre attese, né un pallido sogno, sbiadito nel cuore. Come ci ha ricordato Teilhard de Chardin: «Cristiani, incaricati, dopo Israele, di custodire sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa?».


A cura di Raffaela Brignola per la Comunità Kairos.

Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay