Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 11 Dicembre 2022.
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Il Battista invitato a convertirsi
“Venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni” (Gv 1,6). Fu inviato per preparare Israele alla venuta del messia. “Convertitevi – diceva – perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2).
Il suo messaggio era chiaro, il linguaggio duro, la proposta esigente.
Austero e irreprensibile, dava l’impressione di essere un maestro di vita sicuro di sé e delle proprie certezze, fermo, inflessibile. Invece – come tutti – aveva perplessità, inquietudini, tormenti interiori.
Gesù, che coltivava per lui una profonda stima e lo capiva, un giorno lo invitò a rivedere le proprie convinzioni teologiche e religiose. Gli fece capire che doveva realizzare in se stesso quella conversione che chiedeva agli altri.
Domenica scorsa la liturgia ci ha proposto il messaggio del Battista, oggi ci presenta il suo esempio.
Giovanni non ha insegnato solo a parole, ma ha mostrato, con la vita, come bisogna essere sempre pronti a rimettere in causa le proprie sicurezze quando ci si confronta con la novità di Dio.
Solo chi, come lui, è alla ricerca appassionata della verità è preparato per incontrare la Verità.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il Signore non viene per condannare, ma per guarire”.
Prima Lettura (Is 35,1-6a.8a.10)
Le previsioni sul futuro del pianeta non sono rosee, per qualcuno sono addirittura catastrofiche. La realtà sociale, politica, economica del mondo si presenta carica di tensioni che non si sa come potranno essere risolte. La crisi di fede, la perdita dei valori, il vacillare di tante certezze fanno presagire anni difficili. Questa, in poche parole, credo sia la sintesi delle opinioni che circolano fra la gente.
Ascoltando le parole cariche di gioia e di speranza contenute nella lettura, viene da supporre che il profeta le abbia pronunciate in un momento ben diverso da quello che noi stiamo attraversando. Non è così.
Egli è vissuto in uno dei periodi più difficili della storia del suo popolo: Gerusalemme e il suo meraviglioso tempio sono stati distrutti, le persone più capaci e preparate sono state deportate a Babilonia e nella città santa, ridotta ad un cumulo di macerie, sono rimasti solo i vecchi, i malati e i bambini. Su tutto regnano il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.
Il monte sul quale era costruita la città, ormai diroccata e devastata, è ridotto a deserto dove non cresce un filo d’erba. Di fronte a una simile desolazione, chi avrebbe il coraggio di annunciare una festa, di invitare al giubilo, alla letizia?
Ebbene, proprio davanti a queste rovine, il profeta pronuncia il suo oracolo pieno di ottimismo. È un uomo sensibile, ha l’animo del poeta e si esprime con immagini deliziose.
Il deserto – dice – sta per trasformarsi in pianura fertile come quella del Saron, lungo la costa del Mediterraneo. Eccolo coprirsi di alberi frondosi e possenti come i cedri del Libano; in una perenne primavera si trasforma in un tappeto di erbe aromatiche e di fiori. Sbocciano i narcisi e i gigli, simboli della gioia e dei sogni degli innamorati. Ovunque s’odono canti di allegria e di giubilo (vv. l-2).
Vaneggia? No! Contempla l’opera meravigliosa che Dio sta per realizzare.
Se ci si fida del Signore, non hanno senso lo scoraggiamento, il lasciar cadere le braccia, le ginocchia vacillanti.
Chi si rassegna di fronte al male, chi lo considera ineluttabile mostra di non credere nell’amore e nella fedeltà di Dio che è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo. Chi crede non si abbatte mai, reagisce, è convinto che, dove oggi è il deserto arido e inospitale, un giorno fiorirà un giardino (vv. 3-4).
Nella seconda parte della lettura (vv. 5-6) il profeta continua a presentare la prodigiosa trasformazione del mondo che Dio opererà.
Per descriverla impiega l’immagine della guarigione dalle malattie: si apriranno gli occhi dei ciechi, si spalancheranno le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un capretto, la lingua del muto griderà di gioia.
Ogni malattia – fisica, psichica, spirituale – è una forma di morte. Dove giunge il “Dio della vita” scompare ogni male, ogni morte.
Nel vangelo di oggi Gesù invita il Battista a prendere atto che la trasformazione del mondo è iniziata. La forza della sua parola sta facendo “sbocciare fiori nel deserto”.
Per descrivere il cammino verso questa nuova realtà, nell’ultima parte della lettura (vv. 8-10) viene introdotta una splendida immagine: il pellegrinaggio del popolo dalla terra della schiavitù al monte Sion, all’indimenticabile Gerusalemme, la città della gioia e della libertà. È il simbolo del cammino dell’umanità intera verso la vita.
La strada da percorrere sarà detta “Via santa”, perché non potrà essere calpestata da piedi impuri. È la via – oggi lo sappiamo – che ha percorso Gesù, quella che porta al dono della vita.
L’immagine diviene grandiosa. Il profeta scorge i personaggi che prendono parte a questa processione: in testa, come guida, avanza la felicità perenne, seguita dalla gioia e dall’allegria. All’orizzonte s’intravedono due sagome oscure, due nemici che si allontanano, che fuggono sconfitti: sono la tristezza e il pianto.
Queste parole sono la smentita di Dio nei confronti dei profeti di sventura.
Nonostante i segni contrari, il credente riconosce che il Signore “rischiara coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e guida i nostri passi in vie di pace” (Lc 1,79).
Seconda Lettura (Gc 5,7-10)
Gesù ha denunciato i pericoli della ricchezza, ha chiamato stolto chi accumula i beni, ma non ha mai scagliato invettive contro qualcuno perché era ricco. Ecco invece cosa dice Giacomo ai ricchi: “Piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite… Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza” (Gc 5,1-6).
Dopo aver attaccato in questo modo i ricchi, Giacomo si rivolge ai poveri: è il brano contenuto nella lettura di oggi. Che cosa raccomanda loro? Che cosa consiglia a chi è sfruttato? La rivolta, la vendetta? No… la pazienza.
Questa parola ritorna quattro volte. “Siate pazienti!” (vv. 7.8), “non lamentatevi!” (v. 9), “sopportate!” (v. l0). Sembrano esortazioni irritanti, indisponenti, provocatorie.
Giacomo non è il tipo da tollerare l’ingiustizia contro i poveri, tuttavia si rende conto che ci sono situazioni in cui, dopo aver fatto tutto quanto è possibile, non resta che attendere con pazienza.
Per spiegare il proprio pensiero egli si rifà all’esempio del contadino.
Che fa l’agricoltore? Non si siede a guardare il campo, sperando che produca da solo. Si impegna al massimo: lavora, zappa, semina, irriga, strappa le erbacce… ma sa anche attendere; conosce la forza irresistibile del seme, si fida della terra che non lo ha mai tradito, crede che anche il Signore farà la sua parte, invierà la pioggia benefica che feconda la terra in autunno e primavera. Il contadino non si scoraggia, anche se trascorrono mesi prima che compaia la spiga matura.
Giacomo conclude suggerendo ai poveri: nel vostro dolore fate tutto quanto potete, sforzatevi di ottenere giustizia, ma non commettete violenze contro chi vi opprime e non lamentatevi con chi vi sta vicino (v. 9).
Succede spesso che il povero, umiliato dal suo padrone, reagisca e diventi aggressivo e duro contro chi gli è “prossimo”: la moglie, i figli, le persone più deboli che gli stanno accanto.
Il povero alimenta la speranza che il suo Signore interverrà per cambiare la sua situazione. Il suo “avvento” è vicino.
Vangelo (Mt 11,2-11)
Non è facile riconoscere il messia di Dio.
Educato dai profeti, Israele lo ha atteso per secoli, eppure, quando è giunto, persino le persone spiritualmente più preparate e ben disposte hanno fatto fatica a capirlo e ad accoglierlo. Lo stesso Battista è rimasto disorientato.
Ma un messia che non stupisce, che non suscita meraviglia ed incredulità non può venire da Dio; sarebbe troppo conforme alla nostra logica e alle nostre attese e Dio la pensa in modo ben diverso da noi.
Nella prima parte del vangelo di oggi (vv. 2-6) viene presentato il dubbio che è sorto un giorno anche nella mente del precursore e la risposta che Gesù gli ha dato.
Giovanni si trova in prigione e la ragione è narrata in Mt 14,1-12: ha denunciato il comportamento immorale di Erode che si è preso la moglie di suo fratello. Nella fortezza di Macheronte dove, secondo lo storico Giuseppe Flavio, era stato rinchiuso, è trattato con rispetto, può ricevere le visite dei discepoli e, desideroso di assistere all’avvento del regno di Dio, si mantiene informato su come si sta comportando quel Gesù di Nazareth che egli ha additato come il messia.
In questo intervallo, tuttavia, la sua fede comincia a vacillare.
Qualcuno sostiene che i dubbi non sono di Giovanni, ma dei suoi discepoli. Non è così. Dal vangelo risulta chiaro che egli stesso ha dubitato che Gesù fosse il messia. Per questo ha mandato a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (v. 3).
Come mai sono sorte in lui delle perplessità?
La risposta è abbastanza semplice. Basta tener presente l’immagine di messia che, fin da piccolo, Giovanni aveva assimilato dalle guide spirituali del suo popolo.
È in prigione e, conscio di quanto hanno preannunciato i profeti, si aspetta il “liberatore” (Is 61,1), l’incaricato di ristabilire nel mondo la giustizia e la verità. Non capisce perché Gesù non si decida a intervenire in suo favore.
Attende un messia giudice rigoroso che si scaglia contro i malvagi. Ecco invece la sorpresa: Gesù non solo non condanna i peccatori, ma mangia con loro e si gloria di essere loro amico (Lc 7,34). Raccomanda di non spegnere il lucignolo che ancora fumiga e suggerisce di prendersi cura della “canna incrinata”. Non distrugge nulla, ricupera e aggiusta ciò che è rovinato. Non brucia i peccatori, cambia il loro cuore e li vuole ad ogni costo felici, ha parole di salvezza per coloro che non hanno più speranza e che tutti evitano come lebbrosi. Non si scoraggia di fronte a nessun problema dell’uomo, non si arrende nemmeno davanti alla morte.
Agli inviati del Battista Gesù si presenta come messia, elencando i segni desunti da alcuni testi di Isaia (Is 35,5-6; 26,19; 61,1), il profeta della speranza che aveva predetto: “Nessuno nella città dirà più: io sono malato” (Is 33,24).
Il Battista è invitato a prendere atto di sei nuove realtà: la guarigione dei ciechi, dei sordi, dei lebbrosi, degli storpi, la risurrezione dei morti e l’annuncio del vangelo ai poveri. Sono tutti segni di salvezza, nessuno di condanna.
Il mondo nuovo è dunque sorto: chi camminava al buio e aveva perso l’orientamento della vita, ora è illuminato dal vangelo; chi era storpio e non riusciva a muovere un passo verso il Signore e verso i fratelli, ora cammina spedito; chi era sordo alla parola di Dio, ora l’ascolta e si lascia guidare da essa; chi provava vergogna di se stesso per la lebbra del peccato che lo teneva lontano da Dio e dai fratelli, ora si sente purificato; chi compiva solo opere di morte ora vive in pienezza la sua esistenza; chi si riteneva un miserabile e senza speranza ha udito la bella notizia: “Anche per te c’è salvezza”.
Il messia di Dio non ha nulla a che fare con il personaggio energico e severo che Giovanni si aspettava. Il suo modo di procedere ha scandalizzato il precursore e continua a scandalizzare anche noi oggi. C’è ancora qualcuno che chiede al Signore di intervenire per castigare gli empi; c’è ancora chi interpreta come castighi di Dio le disgrazie che colpiscono chi ha fatto il male. Ma potrà Dio adirarsi o provare piacere nel vedere i suoi figli (anche se cattivi) soffrire?
Gesù conclude la sua risposta con una beatitudine, la decima che si incontra nel vangelo di Matteo: “Beato chi non si scandalizza di me”. Un dolce invito al Battista a rivedere le sue convinzioni teologiche.
Un Dio buono con tutti contraddiceva la convinzione che Giovanni si era fatta. Come noi, anche il Battista immaginava un Dio forte e se lo ritrovava di fronte debole; si aspettava interventi clamorosi, invece gli eventi continuavano a svolgersi come se il messia non fosse venuto.
Beato chi accoglie Dio così com’è, non come vorrebbe che fosse!
La fede nel Dio che si rivela in Gesù non può che accompagnarsi a dubbi, incertezze, difficoltà a credere.
Il Battista è la figura del vero credente: si dibatte fra tante perplessità, si pone delle domande, ma non rinnega il messia perché non corrisponde ai suoi criteri; rimette in causa le proprie certezze.
Non preoccupa chi ha difficoltà a credere, chi si sente smarrito di fronte al mistero e agli enigmi dell’esistenza, chi dice di non capire i pensieri e l’agire di Dio; preoccupa chi confonde le proprie certezze con la verità di Dio, chi ha la risposta pronta per tutte le domande, chi ha sempre qualche dogma da imporre, chi non si lascia mai mettere in discussione: una simile fede a volte sconfina nel fanatismo.
Partiti i discepoli di Giovanni, Gesù pronuncia il suo giudizio su di lui con tre interrogativi retorici. È la seconda parte del vangelo di oggi (vv. 7-11).
Le risposte alle prime due sono ovvie: il Battista non è come le canne palustri che crescono lungo il Giordano, simboli della volubilità perché si piegano secondo la direzione del vento. Giovanni non è un opportunista che si adegua a tutte le situazioni e si inchina di fronte al potente di turno. Al contrario, è uno che si oppone risolutamente agli stessi capi politici, che affronta a viso aperto il re e non ha paura di dire quello che pensa.
Giovanni non è un corrotto, che pensa al proprio interesse, che accumula denaro senza scrupoli e lo sperpera in divertimenti, vestiti eleganti e raffinati. I corrotti – dice Gesù – sono i re e i loro cortigiani, i ricchi, i capi che lo hanno imprigionato.
La terza domanda richiede una risposta positiva: Giovanni è un profeta, anzi è più che un profeta. Nessuno nell’AT ha svolto una missione superiore alla sua. Più di Mosè, egli è “un angelo” inviato a precedere la venuta liberatrice del Signore.
È significativa l’aggiunta finale: “Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (v. 11).
Gesù non stabilisce una graduatoria basata sulla santità e sulla perfezione personale, ma invita a verificare la superiorità della condizione del discepolo. Chi appartiene al regno dei cieli è in grado di vedere più lontano del Battista. Chi ha colto il volto nuovo di Dio, chi ha capito che il messia è venuto incontro all’uomo per perdonarlo, accoglierlo, amarlo comunque, è entrato nella prospettiva nuova, nella prospettiva di Dio.
Ciò che noi oggi, indipendentemente dalla nostra santità personale, possiamo vedere e capire, il Battista lo ha soltanto intuito perché è rimasto sulla soglia dei tempi nuovi.
AUTORE: p. Fernando Armellini
FONTE: per gentile concessione di Settimana News