don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 4 Dicembre 2022

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Nessuna definizione

E mi trovo a scongiurarti Giovanni, a implorare che tu possa rimanere, inchiodati in qualche angolo del mio cuore, rimani in qualche antro, in una grotta, in qualche profetica ferita a gridare, a infastidirmi, a ricordarmi che è sempre tempo di cambiamento, di metanoia, che il pensiero, anche il più raffinato non è mai definitivo, che nemmeno le relazioni più belle lo sono, che conversione vera è opera di costante disfacimento, profeta continua a torturare la carne viva di qualsiasi mia ingenua definizione, non lasciare che io ceda alla tentazione mortale di de-finirmi.

Niente è definito, qui nulla è risolto, siamo tende non case, le radici sono cielo e il cielo per ora non è per sempre. Tutto si disfa, tutto passa, tutto implora salvezza, avere fede è credere che Lui arriverà, che Lui è già arrivato a immergerci nell’eterno amore divino, battesimo d’eternità, Lui e solo Lui, l’eterno nascente, a giurarci vita eterna ma anche a rendere ogni cosa relativa, relativa a Lui, dipendente da Lui. Paradosso di una vita che è sempre già e non ancora, che è chiamata a cedere all’eternità nascosta e permessa da ogni attimo che ci è dato da vivere. Il presente morendo partorisce segni d’Eterno.

Qui è vita di passaggio, tentazione, qualsiasi tentazione è aggrapparsi a lampi di felicità credendola immortale, non è così, ci fa male sentircelo dire, ma nulla è stabile, nulla è per sempre, qui tutto scorre, solo Lui lo è, Lui unica definizione possibile, Lui nostra costante ridefinizione. Torturami fino allo sfinimento Giovanni, non lasciare che mi illuda. Come lama a tenere aperto un taglio, impedisci che la fede cicatrizzi e non sanguini più.

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Ti scongiuro Battista, rimani a trascinarmi in qualche ostico deserto, lì dove la vita non è clemente, dove il Vuoto assume parvenze di Bestia, rimani a torturare la parte di me che si sente arrivata, piena, compresa. Ti scongiuro Giovanni, continua a guardarmi con quei tuoi occhi bruciati dalla mancanza che ha scavato le tue parole, che ha scavato i tuoi silenzi, grida a me, proprio a me, che non c’è pienezza qui, per ora nessuna pacificazione, che non mi venga in mente di cercare armonie o estatiche leggerezze, niente che non sia più che un segno, simbolo di ciò che sarà. E che non duri, che nulla si illuda di poter battere il tempo, la dolcezza sia sempre come il miele che si scioglie sulle labbra, dolce e amaro insieme.

Sento di aver paura, sento che non sono parole facili, che vorrei archiviare la profezia e l’ascesi e il deserto, sento che vorrei dare pace al cuore e tranquillizzare che mi legge, e parlare solo di gioia, sento nostalgia di quando il natale fingeva di non vedere nella deposizione del bambino la deposizione del Crocifisso, ci sono fasce all’inizio e fasce alla fine, ma non riusciranno a contenere il Dio della vita, nemmeno il sepolcro sarà definitivo, nemmeno la morte, questo siamo chiamati a testimoniare. Resurrezione è l’unica definitiva declinazione della felicità. Questo svela il motivo dell’eterno passaggio di ogni cosa. Non possiamo accontentarci, siamo chiamati a risorgere. Inquietudine è esattamente questo: imparare a morire e a risorgere, già qui, già ora.

Oso alzare lo sguardo su Giovanni, i suoi lineamenti non mi rimandano il profilo di un uomo senza speranza, cerco di comprendere, lui è uomo che muore e rinasce, costantemente. Lui è simbolo della vita che passa, che sfugge, ma nel suo disfarsi ogni suo gesto è si apre alla possibilità, come se spostasse macerie, come se creasse spazi, come se ogni crollo, ogni inevitabile e benedetta morte non fosse altro che l’occasione per riaprire strade, per farsi camminare incontro da Lui, Giovanni muore ogni giorno e ogni giorno fa esperienza della fedeltà di Dio che gli cammina incontro. Ogni giorno, questa è la speranza. Incomprensibile senza morte, incomprensibile per chi si illude di poter camminare incontro a Dio. E’ Lui che cammina, Lui si avvicina, a noi di morire e lasciarci invadere dal suo volto sempre nuovo, eterna ridefinizione. A noi di spostare macerie.

Giovanni è pieno di speranza perché vive in pienezza la morte, ecco perché giura che il “Regno di Dio è vicino”, perché il regno accade costantemente in lui, Giovanni è segno visibile di un regno che continua a sfidare la morte, a consegnarsi alla morte, a immergersi nella morte per sperimentare nuove rinascite, per sentire che siamo chiamati a rinascere in Lui. Gesù parlerà del seme, Giovanni lo è, un seme. Anche Cristo lo sarà, fiorirà dal solco di una tomba.

Guardo Giovanni e comprendo che non si può parlare di fede senza sprofondare nella morte, nella fine. E non come declinazione triste di una fede ossessionata dal dolore ma come squarcio mistico capace (lui solo) di trasfigurare l’esistente.

Guardo Giovanni e non riesco a chiedere altro, aiutami a imparare a morire, dico, lui mi accompagna a e mi immerge. La sua mano indugia e mi manca il respiro, la sua mano è ferma e provo il timore che non riemergerò più, sono pochi istanti ma io rivedo chiaramente tutti i momenti della mia vita in cui ero convinto di non poter più riemergere, in cui mi sentivo morto, rimango immerso nel Giordano e il dolore che esplode nel petto grida che preferirei non essere mai nato, Giobbe in me si ribella, spingo verso l’alto, voglio riemergere, non posso resistere, Giovanni non molla la presa, da solo non riesco, da solo muoio. Da solo muoio, è la prima volta che ne ho la piena consapevolezza. Poi la sua mano mi trascina verso il sole, respiro con una fame mai avuta prima. Non sono mai riemerso da solo vero? Questo dicono i miei affanni.

Giovanni si allontana, arriverà, è già arrivato, dice, colui che saprà baciarti con l’eterno Soffio, colui che saprà risollevarti dalla morte. Intanto tieni il cuore bruciante d’attesa.

Mi siedo e mi sento più leggero. Non oso chiamarla felicità. Non la definisco. Nel dubbio continuerò a morire e farmi salvare, a perdere il respiro e ritrovarlo. Un passo dopo l’altro, di morte in morte di resurrezione in resurrezione.

AUTORE: don Alessandro Dehòpagina Facebook

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