C’è un percorso che unisce i vari coprotagonisti di questo vangelo. A partire dal popolo, che assiste così come si assiste ad uno spettacolo. Può essere una cosa terribile. La spettacolarizzazione della sofferenza accompagna ogni epoca dalle esecuzioni pubbliche all’oggi dei cellulari. Può essere però anche l’inizio di un cammino: il teatro, il cinema, la musica non sono mai solo intrattenimento. Veicolano messaggi potenti che coinvolgono molti livelli di tutti noi.
Al popolo fanno seguito altri tre gruppi scanditi da un ritornello non identico ma simile, rivolto a Gesù: “salva te stesso”. Il primo gruppo è quello dei capi, i detentori del potere politico. Parlano in terza persona, evitano di farsi coinvolgere. Sentiamo nelle loro parole il tono dello scherno, del sarcasmo. Quel sorriso che è una forma di difesa, per evitare di essere coinvolti (non è l’umorismo, che nella tradizione ebraica è il sorriso di Dio). Non è neppure una sfida. Assomiglia più ad un’affermazione retorica.
Loro sanno già come andrà a finire. Il secondo gruppo è quello dei soldati. Nelle loro mani sta il potere che deriva dalla forza delle armi. Che chiaramente è una forma di debolezza; che senso ha deridere un condannato inchiodato alla croce? Ma il vangelo aggiunge che gli si avvicinano e gli porgono l’aceto. In fondo questi sono dei poveri del loro tempo. Però non si sottraggono all’incontro a tu per tu. Anche il gesto dell’aceto è ambiguo. Accostato allo scherno lo rafforza, ma in realtà è anche una citazione dal salmo 69 e l’acqua acidula era più igienica e dissetante di quella normale.
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Il terzo non è proprio un gruppo o per lo meno lo è solo se consideriamo la coppia dei due malfattori, per la tradizione si chiamavano Gestas e Dima (Dimaco e Tito per De André). Già nelle parole del primo che vengono definite dal vangelo “bestemmia” (cioè è il rifiuto di riconoscere il bene) c’è un ulteriore passo avanti, un maggiore coinvolgimento. Non più solo “salva o salvi se stesso”, ma “salva anche noi”. Il gruppo però si sfalda immediatamente. Il secondo malfattore si smarca. “Risponde” al compagno di supplizio e anche questo è interessante perché le parole non erano rivolte a lui, c’è una sorta di immedesimazione con Gesù.
Lo rimprovera perché non ha timore, non riconosce la presenza di Dio. In più non è nella verità perché non riconosce la loro colpa davanti all’innocenza di Gesù. Dentro queste parole c’è una scoperta grandissima, c’è la contemplazione del mistero dell’incarnazione. In Cristo Dio è sceso e ha condiviso in nostro stato di ingiusti essendo e rimanendo lui giusto. A questo punto il percorso da spettatore (il popolo) a contemplativo nella fede (il buon ladrone) è compiuto. L’esito è ovvio: “ricordati di me”, “oggi sarai con me” in quel regno che è il paradiso. In cui di fatto il ladrone è già perché sta già contemplando la gloria di Dio in Cristo. Il paradiso non è che questo.
Ecco perché il regno di Gesù noi lo attendiamo ma dalla croce in poi è anche un’esperienza presente che ci è concessa di vivere in quella sorta di anticipazione che è il dono della speranza cristiana. Ah, a proposito: attenti nel Vangelo con la retorica, con le preghiere buttate là. Certo che Gesù non ha salvato se stesso: non ne aveva bisogno. Ma proprio così ha salvato noi.
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don Claudio Bolognesi