Risolutezza e tenerezza
La pagina del vangelo oggi ci fa contemplare due tratti tutt’altro che contrastanti dell’umanità di Gesù: la sua risolutezza e la sua tenerezza. La risolutezza nel proseguire il cammino intrapreso nonostante le difficoltà e le ostilità, e la tenerezza nei confronti delle pecore perdute di Israele, racchiusa nell’immagine della chioccia che abbraccia i suoi pulcini. Due atteggiamenti che egli ha vissuto nello scorrere del tempo: un “oggi, un domani e un giorno seguente” attraverso cui la sua e le nostre esistenze si dipanano e prendono forma.
Un oggi che per Gesù è stato anzitutto il luogo di incontro, di accoglienza e di cura dei tanti che accorrevano a lui, le cui esistenze, spesso segnate da sofferenze, ha voluto reintegrare in una pienezza di vita: “Ecco, io scaccio demoni e compio guarigioni, oggi e domani”.
L’oggi per Gesù è stato anche il luogo in cui ha vissuto la sua obbedienza filiale al Padre, la cui volontà ha scrutato mettendosi in ascolto delle Scritture. È alla luce di queste e della crescente opposizione nei suoi confronti che Gesù ha maturato l’intima convinzione che il suo destino non poteva essere diverso da quello dei profeti inviati da Dio e perseguitati dalle autorità religiose del tempo.
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Di fronte alle minacce, Gesù tuttavia non si è tirato indietro e ha proseguito nel cammino verso Gerusalemme. L’oggi si apre a un domani, verso cui lo sguardo di Gesù è costantemente orientato. Non c’è tempo per volgersi indietro, come aveva dichiarato al discepolo che gli aveva chiesto di lasciarlo andare a congedarsi da casa: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il Regno di Dio” (Lc 9,61-62). Non c’è Erode che possa ostacolarne l’annuncio della buona notizia del Regno e distoglierlo dalla meta che si era prefisso di raggiungere, per la quale Gesù sentiva di dover spendere tutte le sue forze e le sue speranze: Gerusalemme, il centro della vita religiosa giudaica, dove la sua vicenda troverà compimento in una morte violenta, preludio di salvezza per tutta l’umanità.
“Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali”. I tratti induriti del volto di chi sa di dover affrontare il male si sciolgono in un grido di lamento liberatorio e avvolgono Gerusalemme con uno sguardo di tenerezza. Gesù discerne con lucidità le mancanze e le infedeltà del suo popolo, il cui rifiuto riservato agli inviati del Signore appare ora come il più decisivo; per questo la condanna sarà severa e la città resterà abbandonata.
Ma il cuore di Gesù profeta batte all’unisono con quello di un Dio che non vuole che nessuna pecora del gregge si perda: “Non mi vedrete più, finché verrà il tempo in cui direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (v. 35). Un’affermazione che sembra far trapelare uno spiraglio di speranza sul giudizio di condanna appena pronunciato.
Al di là della giustizia e dell’ira, c’è il mistero della compassione. L’amore di Dio è più forte del rifiuto più ostinato che possiamo opporgli, e cerca ancora oggi, come allora, di aprirsi una breccia nel nostro cuore: il riconoscersi mancanti e bisognosi della sua misericordia, che è la condizione per accogliere la sua salvezza.
fratel Salvatore
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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