don Giovanni Berti (don Gioba) – Commento al Vangelo del 23 Ottobre 2022

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Vanità spirituale

“Vanità, decisamente il mio peccato preferito!”

È la battuta chiave del film “L’avvocato del Diavolo”, pellicola thriller/fantastica del 1997. Viene pronunciata da Al Pacino che interpreta il diavolo in persona travestito da capo di un enorme studio legale di New York.

La storia si svolge al giorno d’oggi nel mondo dei tribunali, e il diavolo per mantenere il suo potere sull’umanità si insinua proprio in quelli che dovrebbero essere i templi della legalità e dell’ordine, i luoghi dove si dovrebbero salvaguardare le persone dalle ingiustizie e fare giustizia. Il diavolo mette alla prova un giovane avvocato di provincia puntando sulla sua vanità che gli viene dal successo e dal potersi vantare di non fare mai errori nel suo lavoro.

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La scena della parabola raccontata da Gesù non si svolge in un’aula di un tribunale newyorkese ma nel Tempio di Gerusalemme, il luogo per eccellenza della presenza di Dio, e ci fa ascoltare la preghiera di due uomini che più opposti non possono essere: un fariseo e un esattore delle tasse. Chi allora ascoltava il racconto di Gesù (senza l’introduzione che fa l’evangelista Luca che commenta in anticipo l’insegnamento di Gesù) sicuramente avrebbe indicato come personaggio “buono” ed “esemplare” il fariseo.

Con la sua preghiera fatta secondo le usanze mostra una rettitudine di vita che non ha macchie e insuccessi, e ascoltando l’elenco che fa delle sue azioni, supera persino quelle che erano le prescrizioni del tempo (digiuna due volte la settimana e paga le decime di tutto). Il personaggio “cattivo” e da non imitare è invece il secondo, il pubblicano, che rimane a distanza e non ha nulla da esibire a Dio nella sua irrecuperabile condotta di vita che lo rende maledetto. Hanno in comune solo il fatto che sono entrambi nello stesso luogo e stanno rivolgendo la loro preghiera a Dio. Ma la conclusione che fa Gesù della parabola è come sempre spiazzante.

Secondo le sue parole è il pubblicano ad essere ascoltato e salvato da Dio, mentre per il primo, il fariseo, non c’è nulla da parte di Dio. Delle due preghiere solo quella del pubblicano è una vera preghiera, un vero incontro e dialogo con Dio.
Quella del fariseo è una preghiera solitaria, che fa di Dio solo una cornice, mentre al centro stanno le sue parole, cioè sé stesso e la sua vanità nel ritrovarsi perfetto.

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Questa ossessione delle regole, che da un certo punto di vista può sembrare anche esemplare per quanto riguarda volontà e sacrificio, in realtà lascia Dio sullo sfondo e arriva a disprezzare il prossimo, considerato solo come paragone per meglio evidenziare i propri successi.

La preghiera del fariseo è una preghiera gonfia come un bel palloncino colorato che contiene vanità ma non fede, e che per non esplodere non deve farsi toccare dalla vita e dal prossimo con le sue spigolosità. Può sembrare paradossale, mae quella del fariseo è una preghiera “atea”, fatta nel Tempio di Dio, ma senza Dio, lasciato fuori dal cuore, e che lascia fuori il fratello. È la vanità del sentirsi “a posto” con le regole, dove Dio è ridotto ad un burocrate che controlla se abbiamo le carte in regola, ma non lo riconosce come Dio di misericordia e nemmeno come Padre di tutti.

Gesù spiazza i suoi ascoltatori oggi come allora invitando a guardarsi dentro con verità e non con vanità. Gesù spiazza anche me, che nel mio modo di vivere la fede e le relazioni umane sono tentato dalla vanità, sono tentato a cercare continuamente di “vincere” in bravura contro il prossimo, che guardo non come fratello ma come competitore da superare.

La preghiera del pubblicano è invece molto semplice ma contiene l’essenziale per essere davvero espressione di fede. Contiene quel “tu” essenziale rivolto a Dio sufficiente perché Dio si faccia spazio anche in mezzo a tutto il vuoto, gli errori e le mancanze. Gesù non loda la vita del pubblicano, non giustifica la sua condotta notoriamente peccaminosa, ma ne esalta la fede. Quell’uomo che si batte il petto non si vergogna di mostrarsi debole e fallimentare, non ha nessuna vanità perché consapevole del proprio limite anche senza paragonarsi ad altri. Ma è lì, nel tempio a pregare, si fida di Dio perché in fondo sa che è Padre.

La vanità spirituale che ci rende affannosi nel ricercare perfezione davanti a Dio e al prossimo è davvero il peccato preferito da chi ci vuole allontanare da Dio, che in realtà ci ama non perché siamo bravi, ma perché siamo… e basta.

don Giovanni

Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)