LE DUE FORME DI PREGHIERA
Giovanni Vannucci O.S.M., «Le due forme di preghiera!» – Anno C; in La vita senza fine
Pregare significa immergersi nella vita dello Spirito liberandosi dal peso della carne mortale, assurgere, mediante il pensiero, a mondi superumani. La preghiera senza debolezze o rimpianti contraddistingue la coscienza sulla strada dell’ascesa. Davanti a Dio non contano le opere, ma la piena coscienza della propria indigenza; la consapevolezza della propria vacuità attrae le forze che scendono dall’alto e giustifica l’uomo.
Due uomini salirono al tempio a pregare: uno pieno di meriti e di opere buone, di dottrine e di teorie sull’Eterno; l’altro, un emarginato, consapevole solo della distanza che lo separava dall’Infinito. Il primo fa, nella preghiera, un generoso e circostanziato elogio di se stesso; l’altro ripete una sola frase: Signore, abbi pietà di me peccatore! Il primo uscì dal tempio senza essere stato visitato dalla misericordia divina; il secondo se ne tornò a casa sua giustificato (cf. Luca 18, 9-14).
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Nel primo l’immagine soddisfatta di se stesso si era sostituita a Dio; la perfetta umiltà del secondo lo rese atto a incontrare il vero volto di Dio. E fu, tra i due, il vero orante.
Il fare orazione è l’occupazione massima di uno spirito intelligente, di una mente aperta al soffio divino. Chi fa orazione è simile a un pescatore di perle: ogni tanto risale in superficie per riempirsi d’aria i polmoni e per potere in tal modo continuare il suo lavoro. Chi fa orazione ascende nello spazio divino e respira la pienezza del soffio spirituale; dopo può
sprofondare nelle miserie e nelle bassezze dell’esistenza; egli sa che sopra la nebbia c’è il sole, sopra le acque limacciose c’è l’aria pura che può respirare quando vuole.
L’orazione è perciò un lavoro interiore che opera l’individualizzazione della verità, realizza quel quantum di conoscenza che lo strumento mentale può adire. Le perle più belle non le pesca chi molto indugia sul fondale, ma colui che sale di frequente alla superficie delle acque. La salita alla superficie delle acque rivela l’inesattezza di tutte le visioni che dalla luce dell’aria pura e libera sono sorte nella mente durante la sua permanenza nel fondale. La vera visione dell’Infinito la possiede chi, alla superficie delle acque, diventa infinito.
Chi fa orazione entra nel tempio interiore e ivi adora Dio in spirito e verità. L’orazione così diviene ascesi, il grande pensiero distrugge le vane fantasticherie, la grande forza soccorre ogni debolezza. Il vero orante non è migliore degli altri, ma ha sugli altri il vantaggio di conoscere il proprio limite: «Signore abbi pietà di me che sono un peccatore» (Luca 8, 13).
In ogni forma religiosa è sempre dato un grandissimo posto all’interiorizzazione. Le pratiche del culto esterno, le decime, i digiuni, l’osservanza dei precetti sono considerati utili, necessari in certi casi, ma sempre di secondaria importanza di fronte all’azione spirituale. Solo nella pienezza dello
Spirito, infatti l’uomo può dire di essere; e l’uomo si avvicina alla pienezza dello Spirito attraverso l’opera interiorizzatrice dell’orazione, che lo pone di fronte al suo reale nulla e di fronte al reale tutto di Dio.
Colui che penetra solo una volta nell’intimo asilo della conoscenza, ove l’intelletto incontra il cuore e il cuore l’intelletto, sa per esperienza cosa ivi si trovi e non può staccarsene più; il difficile è penetrarvi.
L’impegno religioso consiste nel rimuovere gli ostacoli che impediscono la discesa in noi stessi e l’ascesa nell’assoluto. Per questo ogni forma religiosa insiste su precettistiche, osservanze, riti: essi hanno la specifica funzione di predisporre lo spirito al raggiungimento di questo stato. Più l’uomo si libera dal le forme passionali, più esce dal piano contingente e più attinge ai vertici dello Spirito. Più attinge ai vertici dello Spirito più si rende capace di individuare il punto supremo in cui tutto si fonde nell’unità piena, e raggiunge la perfetta umiltà e la piena liberazione in Dio.
Allora la vita è bellezza, gioia e libertà, allegrezza di ogni ora e sicurezza del sempre, e il tempo e lo spazio non hanno più alcun significato.
L’umile che incontra per la sua interiore vacuità, il mistero divino viene giustificato. Il mio e il tuo si perdono per lui in un vuoto di significati, così l’orgoglio delle opere buone compiute, l’onore e disonore, la ricchezza e la miseria, la salute e la malattia. Tutto ciò che inorgoglisce gli uomini, ciò che affascina, che interessa e che inchioda gli uomini nel mondo che passa, perde ogni importanza.
La parola cristiana mira alla trasformazione dell’uomo di creta in uomo dello Spirito, alla realizzazione della redenzione dal piano delle apparenze.
Seguire la via cristiana non è facile; chi vi si impegna rimane appagato in pieno di ogni suo desiderio, di ogni sua aspirazione; per essere cristiani bisogna prima compenetrarsi della convinzione dell’inutilità di molte, troppe cose. Non è facile rinnegare se stessi e questa è la prima condizione; e rinnegare se stessi non significa solo rinunciare a questo e a quello, significa in tutte lettere rinunciare a noi medesimi, essere morti vivendo: «Solo chi non vorrà salvare la sua vita la salverà» (Luca 17, 33).
La redenzione, la giustificazione si compie in noi contemplando ciò che Dio è in sé: tale è la via del pubblicano; non contemplando ciò che Dio è nella nostra mente, come fa il fariseo. Incontriamo il mistero divino non umanizzando in noi Dio, ma sforzandoci di illuminare la nostra natura nel mistero divino.
L’amore di Dio non è il nostro amore, è l’amore di Dio in sé. Non l’amore delle proprie virtù, della propria osservanza, della propria interiore dolcezza, del proprio cardiaco intenerimento. Questo amore è sentimento, deificazione di se stessi, non è l’annullamento del nostro essere in Dio.
Il cuore dell’uomo, nell’orazione umile, esce da se stesso, si immerge in Dio, fiorisce nella verità. Dio è in noi come altro da noi, come negazione di noi!
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