Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 9 Ottobre 2022

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Domenica “dei 10 lebbrosi”

L’azione di grazie non è semplice riconoscenza umana ma un atto di fede.

Il messaggio delle letture di questa domenica non è un semplice insegnamento sul dovere morale della riconoscenza umana. Naaman Siro passa dalla guarigione alla fede: egli non riconosce più altro Dio se non il Dio di Israele (prima lettura). Il lebbroso dell’evangelo torna indietro «lodando Dio a gran voce». Il miracolo gli ha aperto gli occhi sul significato della missione e della persona di Gesù. Egli rende grazie a Dio non tanto perché il suo desiderio di guarire è stato soddisfatto, ma perché capisce che Dio è presente e attivo in Gesù. Egli riconosce che Cristo è il Salvatore in cui Dio è presente ed opera non solo la salute del corpo ma la salvezza totale dell’uomo. E questa è fede. In Gesù egli vede manifestarsi la gloria di Dio (evangelo). Perciò Luca conclude il racconto con la parola di Gesù: «Alzati e và; la tua fede ti ha salvato». Salvato non già dalla lebbra, ma salvato nel senso cristiano del termine. La salvezza dalla lebbra è solo il segno di un’altra salvezza. Il rendimento di grazie del lebbroso guarito nasce dunque prima di tutto dalla fede e non dalla utilità: è contemplazione gioiosa e gratuita dell’amore salvatore di Dio prima che contentezza per la salute riacquistata. Solo in un secondo tempo include la riconoscenza, ma non il semplice cortese ringraziamento per un beneficio ricevuto. L’evangelo non vuole darci una lezione di galateo ma vuole dirci che l’azione di grazie è l’atteggiamento fondamentale dell’uomo che nella fede ha scoperto che la sua salvezza proviene solo dall’azione di Dio in Cristo. Se gratitudine umana e azione di grazie a Dio non si identificano, è anche vero che fra loro c’è continuità. Quando i rapporti personali sono tutti basati sull’utile e sul piacere è ben difficile aprirsi alla contemplazione dell’amore gratuito di Dio. Anzi la mentalità utilitaristica ed egocentrica snatura gli atti religiosi. Se abbiamo perso il senso del gratuito, se le azioni che compiamo hanno il movente nella speranza o nel diritto alla ricompensa, molto probabilmente non possiamo avere l’esperienza della Eucaristia.

L’uomo d’oggi deve scoprire il senso del «ricevuto» per aprirsi al ringraziamento.

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L’Eucaristia non è tanto una legge da osservare per avere la coscienza a posto, e neppure soltanto il nutrimento della comunione fraterna. Ma è, come dice il termine, azione di grazie senza altra utilità, senz’altro scopo che se stessa: è la gioia che fiorisce dalla contemplazione del Dio grande nell’amore, che nasce dalla scoperta di essere salvati gratuitamente.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 129,3-4

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Se consideri le nostre colpe, Signore,

chi potrà resistere?

Ma presso di te è il perdono,

o Dio di Israele.

 

L’antifona d’ingresso è presa dal Salmo129, il celebre De profundis, che è anche uno dei 15 «canti dei gradini», o «delle salite» (Sal 119-133), forse usato mentre i pellegrini nell’ultimo tratto del loro percorso salivano al tempio.

L’Orante, che impersona tutta la comunità, dall'”abisso” non risalibile della sua rovina totale ricorda al Signore, il «Dio suo», che già “gridò”, ossia innalzò la sua voce forte e fervorosa a Lui (v. 1), affinché ascoltasse ed esaudisse la sua richiesta urgente, la sua situazione di disastro non ammettendo dilazioni (cf «2 Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. 3Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge. 4Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio» Sal 68,2-4; opp. «52Mi hanno dato la caccia come a un passero coloro che mi odiano senza ragione. 53Mi hanno chiuso vivo nella fossa e hanno gettato pietre su di me. 54Sono salite le acque fin sopra il mio capo; ho detto: “È finita per me”. 55Ho invocato il tuo nome, o Signore, dalla fossa profonda. 56Tu hai udito il mio grido: “Non chiudere l’orecchio al mio sfogo”» Lam 3,52-56). Dall’abisso l’Orante invoca l’Abisso divino di Bontà. Chiede che gli orecchi del Signore («Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche» Sal 85,6) si tendano, o meglio, che il Signore si faccia vicino e si curi di sentire il grido del suo fedele che implora (vv. 1-2: «Dal profondo a te grido, o Signore; 2Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica»).

Il v. 3 è una confessione e un grido di fiducia. L’Orante sa che il Signore per fortuna non è un dio ragioniere, che tenga la contabilità quotidiana delle iniquità degli uomini (Sal 89,8; 142,2; Gb 9,3), altrimenti degli uomini nessuno sussisterebbe, nessuno sarebbe superstite di fronte alla sempre meritata condanna che non ha discolpa (Sal 75,8; 142,2; Ap 6,17). Il giusto giudizio divino cadrebbe come una folgore distruttrice. Infatti il Signore trascura le colpe, se ne dimentica, non ne tiene conto, le annulla (Ger 31,34). Il che non è un invito a peccare di più. Al contrario, è un’ammonizione, dato che il peccato fa precipitare di più nell’abisso della condizione umana prevaricatrice, e sempre necessitosa di aiuto divino.

L’Orante sa bene che il Signore conosce solo una condizione, quella d’essere e di mostrarsi propizio (Sal 85,15; Is 55,7; Dan 9,9; Rom 6,3), il che avviene quando il fedele ne prende coscienza, convertendosi a Lui (v. 4a). Per questo l’Orante aderisce con il cuore alla santa Legge del Signore, ed è fervido adoratore e annunciatore del suo Signore (Sal 39,2; Is 8,17; 26,7), fedele all’alleanza (v. 4b). Anzi la sua vita intera (l’anima) dipende dalla sua divina Parola (v. 4c; Sal 118,74.81; anche 32,20). Infine, la sola sua speranza è il Signore (v. 5).

Tale speranza è estesa a tutto Israele, il quale deve attendersi tutto dal Signore, più della tensione che hanno nel loro turno le sentinelle dell’alba, e fino alla sera (Sal 5,4-5), senza cedimenti, come ha sperimentato tante volte (v. 6; Sal 130,3). Qui il testo ebraico, non compreso per una volta da quello greco e latino, ha un bellissimo gioco di parole: «l’anima mia è tesa nella speranza al Signore, più che gli attendenti l’alba (le sentinelle) siano attendenti l’alba», con un’assonanza splendida: «mi-šomerîm la-boqer šomerîm la-boqer» molti autori moderni, senza comprendere il semitismo di questa perla, amputano come fosse ripetizione la seconda parte dell’espressione, e le loro versioni sono inespressive e zoppe.

La motivazione della speranza segue al v. 7, che presenta un parallelismo. La Misericordia, che è il contenuto dell’alleanza, sta solo presso il Signore (v. 7a). Presso Lui sta solo redenzione per il suo popolo (v. 7b; Sal 24,22; 110,9; Tob 2,14; Mt 1,21; Lc 1,68), ma questa è sovrabbondante (Is 55,7). E dona la redenzione al suo Israele, nonostante le sue iniquità (v. 8).

L’abisso della miseria e della morte si è accostato così all’Abisso della Grazia e della Vita, e non è stato respinto. La Misericordia e la Redenzione sono attuate nella Resurrezione del Figlio anche per tutto il popolo di Dio.

Inizia così la divina liturgia di questa Domenica, la XXVIII per annum C ma poi nel canto all’evangelo si esulta, la grazia e la misericordia si manifestano:

Canto all’Evangelo 1 Ts 5,18

Alleluia, alleluia.

In ogni cosa rendete grazie:

questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.

Alleluia.

Non solo in 1 Ts 5,18 ma ripetutamente l’Apostolo esorta a innalzare di continuo azioni di grazie (Ef 5,18b-20: «siate invece ricolmi dello Spirito, 19intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, 20rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo»; Col 4,2: «Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie») al Signore, poiché i benefici divini diventano dei fedeli solo nell’atto di darne conto al Signore. Infatti il Signore così vuole da tutti, che si faccia «in Cristo».

Questo è il percorso che siamo invitati a fare “oggi” dopo aver incontrato Gesù, il Signore, nella Sua Parola celebrata e nutriti col Suo Corpo e il Suo Sangue. Come il samaritano prostriamoci e adoriamolo dichiarandoci Suo possesso.

Anche il brano evangelico di questa domenica appartiene alla lunga sezione (9,51-19,28) nella quale Luca, abbandonando lo schema di Matteo e di Marco, condensa intorno all’ultimo viaggio (Esodo verso la Croce e la Resurrezione) di Gesù verso Gerusalemme un abbondante materiale evangelico, che spesso gli è proprio.

Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo e inviato dal Padre nella missione tra gli uomini, ai quali nello Spirito Santo annuncia l’Evangelo e per i quali opera i prodigi della Carità del Regno ra inizia la terza e ultima tappa, che introduce a Gerico, porta della terra promessa.

Una possibile struttura della pericope riconosce tre parti (vedi schema allegato tratto da: Roland Meynet, Il vangelo secondo Luca, analisi retorica, Edizioni Dehoniane, 1994):

  1. La prima parte (11-14) è incentrata sulla domanda dei lebbrosi (13b). Seguono poi due frasi narrative che si chiudono con il verbo “dire” (13a e 14a). Infine, due brani paralleli (11-12 e 14b-e). I due segmenti del primo brano fanno susseguire una subordinata nel primo membro e la principale nel secondo. Ciò vale anche per il brano finale (14b-e). Da notare l’inclusione formata dagli inizi identici dei segmenti estremi.
  2. La terza parte (17-19) comprende agli estremi, introdotte da una frase narrativa (17a e 19a), due parole di Gesù (17bc e 19bc) in cui si corrispondono due verbi relativi alla guarigione, “purificare” e “salvare”. Al centro (18), lo scopo del ritorno “rendere lode a Dio”.
  3. La parte centrale (15-16): agli estremi, lo stesso personaggio, “uno di loro”, identificato come “Samaritano”. Nel mezzo, il binario delle sue azioni (“tornò” e “cadde”) e delle sue parole (“lodando” e “ringraziando”).

Nel gioco dei centri i due personaggi uniti al centro del passo si ritrovano nei centri delle parti estreme: “Gesù” invocato all’inizio (13b) dai lebbrosi è Dio alla fine al quale Gesù avrebbe voluto che tutti e dieci “rendessero lode” (18). Si noterà la ripresa di “voce” nella frase narrativa che introduce le parole centrali della prima parte (13a) e nel primo membro del centro generale (15b); ogni volta la voce è forte. Analogamente si noterà la ripresa di “tornare” al centro generale (15b) e al centro della seconda parte (18a).

Inserito subito dopo la parabola relativa all’umiltà del servizio, che ci è stata proposta dalla liturgia della scorsa domenica, l’episodio della guarigione dei lebbrosi ne prolunga l’insegnamento invitandoci a riconoscere con stupore i doni gratuiti di Dio.

Abituarsi al dono: Naaman (I Lett:) è un generale siriano, e i rapporti del suo paese con Israele sono sempre molto tesi; è lebbroso, e i medici e maghi siriani non possono guarirlo. Una povera schiava gli suggerisce di affidarsi alle cure di un profeta ebreo. Ed egli accetta il parere di una schiava, si affida a un nemico, è disposto a pagare e a umiliarsi. Ma Eliseo non pretende niente da luì; gli ordina solo di lavarsi nel Giordano. E inutile darsi da fare per essere un vero credente: basta abituarsi a ricevere. Non occorre provare la propria fedeltà con atti eroici e con grossi sacrifici. Dio non si paga, lo si riceve.

«Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?». La domanda di Gesù all’unico lebbroso che è ritornato sui suoi passi per rendere grazie apre una delle pause più lunghe dell’evangelo. Gesù aspetta i nove assenti: non è possibile che non ritornino anche loro. Li chiama silenziosamente uno ad uno, e a ciascuno ripete la domanda: «Dove sei?». Sulla strada che lo conduce alla morte e alla risurrezione, su cui camminano anche coloro che lo seguono per mezzo della fede in questo itinerario di salvezza, Gesù incontra la lebbra, una malattia che vieta di partecipare al culto e costringe l’individuo ad evitare la presenza degli altri. Come i poveri che, nei salmi, si appellano alla tenerezza del Dio dell’alleanza, i lebbrosi gridano la propria sventura a quell’uomo in cui la loro fede ha intuito un possibile salvatore. Inviandoli prima di tutto a coloro che hanno l’incarico ufficiale di constatare un’eventuale guarigione. Gesù non si limita a fare una promessa, ma mette alla prova la loro fede. In quel momento, infatti, i dieci non sono ancora guariti. Riacquisteranno la salute lungo la strada, dopo aver obbedito alla parola di Gesù. Allora, al colmo della gioia, ma dimentichi del donatore, si disperderanno come pesci ributtati nel mare, scomparendo ciascuno nel suo vortice di felicità.

Obbedienza o riconoscenza? I primi nove lebbrosi guariti da Gesù, preoccupati di piegarsi alle prescrizioni della legge per far autenticare la propria guarigione, hanno preferito obbedire piuttosto che ringraziare. Il decimo lebbroso al contrario non obbedisce alla legge, non si sottopone ad alcun esame, e trova di conseguenza la libertà di ringraziare. In realtà, una certa preoccupazione di far le cose «per bene», un certo modo di volersi santificare, porta a tali scrupoli e a tali minuzie, che non vi è posto per il rendimento di grazie. La fede invece nasce dal riconoscimento del dono di Dio e si esprime in un «grazie» incessante.

Uno soltanto fa eccezione: un samaritano, uno straniero che vive ai margini del popolo eletto, quasi un pagano! Quest’uomo non si accontenta di aver ottenuto la guarigione attraverso la propria fede, ma l’accresce tornando indietro ad esprimere la propria gratitudine per l’improvvisata divina, riconoscendo in Gesù il sacerdote che, dopo averlo rialzato e salvato, può metterlo in cammino e accoglierlo fra i suoi discepoli. Uno su dieci: è questa la nostra percentuale.

Dobbiamo cambiare: Paolo nella II Lett. ricorda a Timoteo che nella vita bisogna lottare, l’evangelo può portare in prigione. È il caso di scoraggiarsi? La libertà della parola che ha crocifisso Gesù, ha portato Paolo in carcere, e ha provato così la sua efficacia: infatti, un messaggio che non suscitasse opposizione non sarebbe che una «buona parola», pronta a scendere a compromessi. Gesù Cristo è la nostra vera ragione di vivere, perché è morto per noi; la nostra ragione di continuare, poiché la sua lotta ha avuto successo; la nostra ragione di sperare, poiché la nostra debolezza è vinta dalla sua instancabile fedeltà.

I lettura: 2 Re 5,14-17

L’episodio di Naaman Siro, il capo delle milizie del re di Damasco, è in un certo senso esemplare per tutto l’A. T., e Cristo stesso lo richiama un sabato, nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,27; vedi l’Evangelo della Domenica IV del Tempo Ord. C). Infatti, è la fede che adesso nasce anche fuori d’Israele, in uno “straniero”. Naaman sa da una sua giovane schiava ebrea che i profeti in Israele, oltre ad altre azioni straordinarie, guariscono anche dalla lebbra. Così, con le lettere del suo re e portando anche doni, Naaman dapprima chiede la guarigione della sua lebbra al re di Giuda, che ne resta terrorizzato, credendo sia un pretesto del potente regno di Damasco, in caso di rifiuto, per muovergli guerra. Ma interviene Eliseo, che avoca a sé la questione, e fa venire Naaman. Questo si muove nella sua pompa orientale, di piccolo “ras” che si “rotola” nella sua potestà, e quindi si fa precedere, accompagnare e seguire da tutto il corteggio variopinto di servi e di animali e carri, lento perché stracarico di ricchezze e di ornamenti e di suppellettili e di provviste, una spedizione autosufficiente per almeno un anno. Insomma, come si addice a tutti i potenti di questa terra, e come si aspettano che avvenga tutti gli umili di questa terra. Essi che del resto, e nonostante tutto, resterebbero assai delusi se questo sfarzo non avvenisse. Basterà qui vedere la calca di folla anonima ai cortei e alle nozze reali, ma anche alle nozze di persone altolocate, e simili. Questo è chiaro dal contesto, lo confermano le offerte che Naaman, guarito, insiste per deporre ai piedi di Eliseo. Che invece, contro le aspettative, le rifiuta (vedi poi i vv. 15-16).

Eliseo gli ordina di lavarsi sette volte nel Giordano. Ma Naaman dapprima si rifiuta di eseguire quell’ordine, perché per lui altri fiumi di Siria non sono inferiori al Giordano, eppure non operano guarigioni. Ma i suoi servi lo convincono, sulla fiducia nel Profeta, che in fondo ha ordinato non un fatto così imponente e difficile da eseguire, bensì un’azione di poco conto, che non costa nulla (vv. 1-13).

Su questa fiducia, Naaman, obbedisce alla parola del «servo del Signore», e si immerge nel Giordano le sette volte prescritte. È subito guarito. La sua carne torna ad essere nuova e tenera come quella di un neonato (v. 14). Come sempre, il numero 7 è simbolico, indica la completezza di un’azione; e qui assume un tono ieratico che serve anche per impressionare un pagano.

Ma a causa della sua guarigione adesso Naaman muta l’abito mentale. Torna da Eliseo, e gli espone la professione della sua fede. Adesso sa che esiste in tutto il mondo l’Unico Signore, e che tuttavia dimora solo in Israele, da dove domina l’universo (v. 15a). Identica confessione, davanti ai prodigi operati dagli uomini di Dio, esprime il re di Babilonia (Dan 2,47; 3,29; 6,26-27).

In seguito a questa convinzione acquisita a causa del prodigio della sua guarigione, Naaman prega il Profeta di accettare un donativo quale segno di benedizione, ossia di rendimento di grazie a Dio, e di volontà di entrare in comunione (v. 15b). Eliseo giura per il Signore con la formula «Hàj ‘Adònaj, Vive il Signore!», ossia egli non accetta doni per quant’è vero che il Signore è il Vivente. Come si sa, gli orientali sono simpaticamente (e dipende dai punti di vista) molto ossequiosi e complimentosi e insistenti nell’offrire doni, e così è Naaman. Ma il Profeta ha giurato, e non cede (v. 16).

Vista la purità della fede d’Israele, Naaman chiede di portare con sé due carichi della terra sacra d’Israele, perché da adesso in poi con essa formerà una specie di suolo sacro sul quale celebrerà il Signore con sacrifici, abbandonando l’idolatria (v. 17). Così la sua fede iniziale diventa anche sostanziale, ossia, come si dice, è una fede che ormai diventa “informata” di contenuti vivibili. Il culto al Signore Vivente lo pone nella comunione divina, come un membro del popolo dell’alleanza.

Il Salmo responsoriale –  Sal 97(SRD (= Salmo della Regalità Divina è anche il salmo responsoriale della messa del giorno del Natale del Signore) col versetto responsorio: «Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia» (v. 2b adattato) acclama che il Signore manifesta la sua salvezza anche alle nazioni pagane.

L’imperativo innico iniziale ripete il v. 1 del Sal 95 (Messa della Notte). Infatti il «cantico nuovo», dell’esodo (Es 15,1-18) è per i mirabilia, le gesta straordinarie divine, operate con la Destra (Sal 97,1; e ancora Es 15,6). Adesso il Signore ha manifestato le sue gesta a tutte le nazioni, e sono la salvezza e la misericordia (v. 2), in forza della sua anamnesi, ossia dell’accettazione e attuazione della Bontà propria della sua alleanza, e della Fedeltà sua per Israele (v. 3ab; ancora il Magnificat, Lc 1,54-55). Questo è stato sperimentato anche da tutte le nazioni (v. 3cd). L’imperativo innico a gioire, giubilare, allietarsi e cantare Salmi va a tutta la terra (v. 4). Ma «cantare Salmi» con gli strumenti appositi, nel giubilo sacerdotale, è operazione primaria del popolo di Dio (vv. 5-6; Sal 150), che adesso chiama a far parte di sé anche le nazioni pagane.

Esaminiamo il brano

11 Le indicazioni geografiche e topografiche dell’evangelista non obbediscono a criteri di precisione, ma di ambientazione generica e teologica del racconto.

Gesù, in cammino verso la Città Santa, «attraversa »la Samaria e la Galilea.

L’espressione «dia meson» è molto difficile da spiegare; lett. è tradotto con «attraverso la parte centrale della Samaria e della Galilea». In realtà, le due regioni, se di un vero e proprio attraversamento si tratta, avrebbero dovuto essere menzionate nell’ordine inverso, perché la Samaria era tra la Galilea e la Giudea; molti perciò intendono che Gesù si muove lungo il confine tra le due regioni, verso est, per imboccare poi la valle del Giordano fino a Gerico (cf. 19,1).

12 In un abitato si fanno incontro a Gesù 10 lebbrosi, i quali però, per la severa legge levitica debbono tenersi a distanza (cf Lev 13,45-46; Lam 4,15). La lebbra, col peccato che essa significa, ha radunato questi dieci uomini, emarginandoli tutti, senza distinzione di origine, dalla comunità e dal culto. Non possono avvicinare né gli uomini, né Dio. L’isolamento era diretto ad evitare il pericolo di contagio e un interdetto religioso – l’impurità legale – rendeva il malato inabile a far parte dell’assemblea di culto come escludeva chiunque fosse venuto a contatto con lui. Ma il loro grido giunge a Gesù. La sua misericordia non fa differenza tra questi uomini. Tutti quelli che hanno implorato la sua pietà saranno purificati insieme, perché hanno tutti obbedito al suo invito. Tutti potranno far constatare la loro guarigione dai sacerdoti, secondo le prescrizioni della Legge. La lebbra infatti è il più drammatico simbolo del peccato e l’eventuale guarigione doveva essere diagnosticata da un sacerdote, competente in materia di purità e impurità legale (Lv 14,1-32), era seguita anche dall’offerta di un sacrifìcio analogo al cosiddetto «sacrifìcio per il peccato».

«dieci lebbrosi» dieci è anche il numero di adulti (età superiore ai tredici anni) richiesti per svolgere una liturgia comunitaria come assemblea sinagogale (il Minyan = numero); è anche cifra dell’azione umana, che si realizza attraverso le dieci dita delle mani. Questi dieci rappresentano tutta l’umanità, chiamata a far parte della comunità dei figli che ascoltano e fanno la parola del Padre.

Da notare come la sciagura e la miseria affratella e rende bisognosi di compagnia a tal punto che questo gruppo è composto di giudei e un samaritano; nulla come il dolore e la sventura elimina radicalmente le distanze. La preghiera dalla quale erano stati esclusi si realizza comunque ed è efficace.

13Gridano a gran voce: «Gesù sovrintendente » (epistàtès) = titolo che riconosce la supremazia, indica uno che sta in alto; alcuni traducono anche con Signore o maestro. Luca è il solo autore del N.T. a tradurre l’ebraico-aramaico rabbì con il termine greco «epistàtès»; la grecità sacra e profana dà ad epistàtès il significato di preposto, capo presidente.

«Gesù»: (=Dio salva): i lebbrosi sono i primi a chiamare Dio per nome. Oltre ai lebbrosi, solo il cieco (18,38) e il malfattore in croce (23,42) ne pronunciano il nome. Chiamare per nome significa conoscere e avere un rapporto amichevole; essi hanno conosciuto la bontà di lui, e la implorano: abbi pietà di noi! Eleison hemàs Sal 145,2; 51,3-4; Is 33,2.

14«Gesù appena»: = cf buon samaritano Lc 10.33; Padre misericordioso Lc 15,20;

«li vede»: (horáō) e invece di fare un gesto di guarigione, risponde sempre per traverso e per il più di quanto richiesto, come solitamente usa fare, che si rivela sempre essere il modo più efficace: «Andate, mostratevi ai sacerdoti». È il richiamo alla norma severa di Lv 13,32.45-46 I lebbrosi non hanno chiesto esplicitamente la guarigione, ma Gesù va incontro al loro più profondo e straziante desiderio. E quelli sono guariti mentre vanno; mostrano così una grande fede obbedendo, anziché replicare per essere guariti subito. Questi lebbrosi siamo noi tutti, chiamati a seguire Gesù, anche se incapaci di percorrere la sua via. Il Padre ci ha ordinato di ascoltare il figlio (9,35), che ci chiama a fare il suo viaggio (9,23). Ascoltando il Padre, obbediamo al Figlio e intraprendiamo il cammino impossibile che ci prescrive; siamo mondati dall’obbedienza alla sua parola che ci ordina il santo viaggio. All’interno di questo veniamo purificati. Non è che prima siamo giusti e poi possiamo seguire Gesù: la salvezza non è la condizione, ma la conseguenza della sequela. Per questo noi, peccatori e perduti, possiamo percorrere il cammino di Gesù. Confidiamo solo nella sua parola, in povertà assoluta.

Questa è la fede che giustifica e dà speranza contro ogni speranza (Rm 4,18: «Egli (Abramo) credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza»).

Il confronto con la prima lettura è illuminante in tal senso (cfr. 2 Re 5,10-11).

15-16 Uno però torna indietro guarito e rendendo grazie si prostra ai piedi di Gesù. L’evangelista Luca annota semplicemente: «e questo era Samaritano».

Quell’uomo, doppiamente escluso, come lebbroso e come Samaritano, è così abilitato a riconoscere Gesù.

Come si sa, tra Ebrei e Samaritani non esisteva sopportazione (cf Gv 4,9b); Gesù nell’inviare i discepoli in missione (Mt 10,5), prescrive esplicitamente di non andare dai Samaritani. Di fatto proprio all’inizio della «salita a Gerusalemme», i Samaritani non lo accolsero: 9,52-53, ed i discepoli irritati chiedono di far scendere il fuoco dal cielo (cf Evangelo della Dom. XIII).

«Si vide»: ancora horáō. Ora il verbo vedere così espresso in greco indica un vedere che supera la superfice e coglie l’essenza delle cose. È un vedere che porta alla fede (cf Gv 20,8). Luca usa lo stesso verbo e la stessa forma già usati per indicare lo sguardo misericordioso di Gesù.

«Ringraziare» e «ringraziamento»: in greco eucharistéo ed eucharistia, sono termini nuovi ed indicano l’importanza dell’azione di grazie per i cristiani in risposta alla grazia (charis) ricevuta da Dio in Cristo Gesù. Il Samaritano guarito unisce nella stessa lode e nella stessa azione di grazie Dio e Gesù. Egli riconosce davanti a tutti che la salvezza ricevuta è l’opera di Dio in Gesù. La sua fede non fa distinzione tra loro ed egli si prostra dinanzi a colui dal quale è stato purificato come ci si prostra davanti al Signore.

La perfetta espressione del ringraziamento è appunto l’Eucaristia sacramentale, donata da Cristo alla sua Chiesa perché per Lui, con Lui e in Lui essa renda gloria e grazia al Padre.

17-18 Gesù lo accoglie con strane parole. Non lo complimenta, ma come «risposta» quasi lo investe con un triplice incalzante interrogativo. All’unico credente si chiede conto degli altri nove; che non accada come in Gen 4,9: «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’ è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”».

La traduzione letterale del v. 18 è: «Non si trovarono che tornassero a dar gloria a Dio, se non questo estraneo?»; i verbi dovrebbero essere al singolare, come traduce ancora la CEI. Sono invece al plurale, perché il pensiero di Gesù è rivolto ancora agli altri nove. Egli è il vero figlio maggiore che si cura degli altri fratelli perduti. I nove giudei accettano con naturalezza il prodigio e continuano il viaggio verso il sacerdote, pronti a rientrare nella vita umana e religiosa d’Israele, loro popolo. Ritornano a Gerusalemme per compiere una legge, che poi li condannerà al primo errore. Resteranno così sempre immondi. In fondo, la guarigione non apporta loro nulla di nuovo, perché tornano ad essere quello che erano già stati, israeliti; il loro incontro con Gesù è stato semplicemente un episodio superficiale e passeggero. Hanno ricevuto la guarigione esterna, ma internamente sono rimasti legati ai vecchi ideali, un giudaismo che non ha compreso il vero valore della Legge, la salvezza dell’uomo che liberato riconosce la Signoria di Dio (cf Icona allegata). Uno solo per ora torna da Gesù e lo ringrazia per il dono ricevuto; non saprebbe più dove andare, perché la sua vecchia comunità di salvezza non gli offre più garanzie. Ha trovato in Gesù qualcosa di diverso ed è tornato per ringraziarlo e mettersi al suo servizio. Anche lo straniero Naaman ritornò da Eliseo dopo esser stato guarito dalla lebbra. Quest’uomo “graziato” che torna indietro a “rendere grazie” ha dei lineamenti ben caratterizzati: è uno straniero, anzi un samaritano, ed è un lebbroso, cioè un impuro, un colpito, un maledetto. Ha dei lineamenti che non possono non evocarne altri ben noti: «è un samaritano, un indemoniato! Dicevano di lui» (Gv 8,48). C’è somiglianza, c’è nel graziato consanguineità col volto stesso del Donatore gratuito; Cristo che prima ancora di dare qualcosa ha assunto la stessa condizione di colui che era nel bisogno, si è fatto come lui per aprirlo alla salvezza.

19 Dopo la lode del v. 18 il Samaritano è congedato: la fede tua ti ha salvato. Questa formula, che indica la potenza della fede è comune ai sinottici:

  1. Mt 9,22; Mc 5,34; 10,52;
  2. Luca rivolge le stesse parole alla peccatrice (7,50), all’emorroissa (8,48), e al cieco (18,42; cf Zaccheo 19,9).

L’accento va posto su due poli:

  1. la misericordia del Signore, che guarendo i lebbrosi li reinserisce dentro l’assemblea cultuale del popolo di Dio, da cui li escludeva la grave affezione.
  2. la fede dei dieci lebbrosi.

Incipiente in tutti e 10 i lebbrosi, che obbediscono al comando del Signore di presentarsi al sacerdote, essa si sviluppa (aumenta? Vive?) solo nel Samaritano. Questo nel mostrare la sua gratitudine al Signore onnipotente, dal quale sa di essere stato guarito, rivela la pienezza della sua fede accettata ed espressa a Cristo. Quella che era cominciata come una guarigione fisica diviene ora una «salvezza» definitiva.

Intorno a Gesù comunque regna una cieca ostinazione, mentre il Regno di Dio si è appena manifestato davanti a loro con la guarigione dei dieci lebbrosi, i farisei chiedono a Gesù quando verrà (17,20-21) una domanda che ricorda quella di 13,23: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.

Non potevano trovare momento migliore per porgli una tale domanda! La loro mancanza di fede non si poteva manifestare con maggiore evidenza, appena dopo che il Samaritano aveva manifestato la sua.

Decisamente, il Regno di Dio non si impone come l’evidenza di un fatto alla cui osservazione nessuno potrebbe sfuggire. Il Samaritano ha saputo riconoscere nella sua guarigione il segno della presenza del Regno di Dio in Gesù; come i dieci lebbrosi giudei, benché anch’essi guariti, i farisei restano ciechi: vedono i segni e non sanno riconoscere ciò che significano. Come più tardi i sacerdoti, che constateranno la purificazione dei nove lebbrosi giudei, i farisei nel porre la domanda rifiutano già il Figlio dell’uomo che offre loro la salvezza.

I farisei attendono il Regno di Dio. Il loro solo problema è di sapere quando verrà per poterne godere. Non si pongono il problema di sapere se vi saranno ammessi, tanto sono sicuri del fatto loro. Anche i discepoli vorranno vedere il giorno del giudizio e della liberazione dai loro nemici.

Tutti pensano alla condanna e alla morte soltanto come a quella degli altri. Ebbene se uno sarà preso e l’altro lasciato, la minaccia di essere abbandonato agli avvoltoi li riguarda, come riguarda tutti gli altri.

Gesù enuncia chiaramente la legge che regolerà il giudizio al termine del quale uno sarà preso nel Regno di Dio per la vita eterna e l’altro lasciato senza vita, cadavere del quale si ciberanno gli avvoltoi. Chi vuole conservare la propria vita la perderà e chi perde la propria vita la conserverà.

Il paradosso di Gesù, quello del quale ha indicato la via accettando la morte, vuole che tutto sia capovolto d’ora in poi per i fedeli del Cristo: non è la morte degli altri che ci salverà dai nostri nemici, ma la nostra morte accettata che ci salverà e con noi quelli che ci perseguitano. Gesù non ha chiesto al Padre di perdonare a quelli che gli toglievano la vita?

II Colletta

O Dio, fonte della vita temporale ed eterna,

fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo:

ogni fratello in questo giorno santo

torni a renderti gloria per il dono della fede,

e la Chiesa intera sia testimone della salvezza

che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio.

Egli è Dio, e vive e regna con te, …

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano