Stupore e urgenza
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Come se Gerusalemme non fosse solo l’approdo di un cammino lineare, come se Gerusalemme non fosse solo la santa città a cui attraccare, come se Gerusalemme fosse una condizione, un incontro ineludibile, una Verità che si fa sempre trovare, pulsante e viva, terminale di ogni attraversamento. Come se il Vangelo mi dicesse che non posso raggiungere Gerusalemme senza attraversare la mia Samaria. Si tratta di sprofondare dentro le proprie quotidiane infedeltà.
Mi fa male questa richiesta, rimpiango le processioni dei giusti, quando pregando salivo al monte di Dio evitando con accuratezza di farmi contaminare preso com’ero da un perverso ideale di purezza. Qui invece sto camminando lontano da quello che tutti chiamano santità, sto in luogo pericoloso.
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Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Se sei nella tua Samaria la lebbra, anche se cerchi di confinarla, ti viene incontro, è alito di morte, rifiuto, discarica vergognosa, carne di cuore in disfacimento, per questo avevo paura. Sapevo che la mia Samaria mi avrebbe mostrato la parte malata di me, mi fermo, spero che i lebbrosi stiano a distanza, non so se riuscirei a sopravvivere guardando da vicino i miei sogni trasformati in incubi. Lo so che lebbroso è stato il mio agire e che qualcuno soffre a causa mia. È la parte orrenda che mi abita, impossibile andare a Gerusalemme senza passare da qui. Ormai lo accetto. La mia parte malata supplica attenzione. Io intanto devo imparare ad aver fede in Cristo, devo sentire che mi amerà ugualmente, devo sperare che abbia pietà di me, più di quanta ne abbia io di me stesso. Eppure tremo.
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
La Sua parola mi coglie alle spalle, mi prende come un brivido, vorrei aver capito male ma so che è così, lo so ma non voglio accettarlo, alla mia parte malata e peccatrice Cristo ordina di camminare con me. Di andare adesso verso i sacerdoti. Io volevo aspettare di essere puro, attendevo guarigioni, la mia parte malata invece deve camminare insieme a me, accanto a me, dentro me. E io ancora non lo sopporto. Cosa diranno di me? Avrei voluto essere presentabile prima di mostrami ai sacerdoti, vorrei essere puro prima di accedere nel cuore degli altri. Serve fede per camminare così: lebbroso e coraggioso, a viso aperto, piaghe al sole. Io peccatore non ancora convertito, volevo una storia esemplare di conversione da raccontare invece ho solo la mia miseria, la mia lebbra e la vergogna per ciò che sono.
E mentre essi andavano, furono purificati.
Camminare purifica. Il movimento di cammino incontro alle persone compiuto con sincerità, onesto, se non punta a nascondere o a voler mostrare solo la parte migliore purifica. Asciuga la lebbra. Eppure ancora Signore mi dimentico che devo la mia vita agli altri, alla loro pazienza, al fatto che ci sono e che mi permettono cammini di avvicinamento.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Se ripenso al mio passato, alla mia vita, sento che è proprio così, la parte straniera ed infedele, quella di cui avevo vergogna, quella che aveva sfasciato l’apparenza costruita con tanta cura, lei smascherata, tornando da Lui, mi riconsegnava a me. E in quel momento, nell’istate dell’incontro, sentivo che non dovevo far altro che franare in adorazione.
Tornare a casa lodando Dio a partire dal cuore delle mie lebbre perdonate. Tornare a casa lodando Dio sfinendo in pianto ai piedi delle persone che ho usato, ferito, abbandonato. Quel movimento di ritorno al Risorto, anche se in minima parte, uno su dieci, è già frammento di verità. Anticipo di Eternità.
A questo mi sento chiamato, a far tornare tutto a Lui, a sentire che il male che mi abita pur mantenendo la pesantezza dello scandalo, pur attraversato dalla tenebra (soprattutto quando ha fatto del male ad altri, quando ha scandalizzato i piccoli) può trasfigurarsi in possibilità. Sembra una bestemmia, ma devo arrivare a ringraziare per il male che ho riconosciuto perché mi ha liberato dall’idea di perfezione che avevo di me. E devo continuare a chiedere perdono per la mia complicità al male.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
Nella domanda di Cristo non c’è giudizio, solo stupore ed urgenza. È il pastore buono e bello a parlare, è il cuore del padre in attesa. In me un gregge di pecore smarrite chiede di poter tornare a casa. Scongiuro a me stesso di non dimenticare mai di essere stato raccolto e curato. Prometto al Signore di voler imparare lo stesso stupore e la stessa urgenza, mi piacerebbe saperla testimoniare alle persone che incontro.
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Tornare a Lui per alzarsi. Per risorgere. Tornare a lui per farsi salvare la vita.
AUTORE: don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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