Prima lettura: Amos 8,4-7
Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere». |
Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati. Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra. Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti. Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf. Is 1,17). Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3). Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.
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Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti. Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti. Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo. Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri. È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf. Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.
Ma Dio non resta indifferente ai soprusi. Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo. Lo giura per il vanto di Giacobbe. La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf. Am 6,8 e 1Sam 15,29). In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo. Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18). E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).
Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8
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Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
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A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf. 1Tm 1,3).
Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera. È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione. Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf. v. S). E dice come va fatta.
Dev’essere universale anzitutto (v. 1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini. Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v. 2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.
Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv. 3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv. 5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.
Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v. 7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf. 1Tm 1,12-14).
Tema del brano è dunque la preghiera. Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).
Vangelo: Luca 16,1-13
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». |
Esegesi
Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce. L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv. 1-8) e poi una serie di massime (vv. 9-73).
La parabola (vv. 1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto. Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque. E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore. Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli, avvertendo però subito che quella domandata ai figli della luce dovrebbe essere maggiore e soprattutto diversa da quella dei figli di questo mondo, nei giochi con i loro simili.
Con le massime successive (vv. 9-13) Gesù applica la parabola e precisa le diverse scaltrezza. Anzitutto invita a farsi degli amici con la disonesta ricchezza o meglio col mammona della ingiustizia. Similmente anche l’amministratore è detto economo della ingiustizia. Tale specificazione pare indicare un sistema di cose e non equivalere soltanto a un aggettivo che qualifica i singoli casi di una cifra o di una persona ingiusta. L’invito allora è rivolto a chi si trova dentro al sistema ingiusto, perché si comporti in modo da superarlo nella prospettiva delle dimore eterne, cioè con la realizzazione dell’evangelico regno di Dio. In questo senso i figli della luce sono contrapposti ai figli di questo mondo e sono chiamati a diventare economi della giustizia portata da Cristo, con la proposta delle Beatitudini.
Le altre massime diventano così più chiare. La fedeltà o meno del poco, che rende fedeli o meno anche nel molto, riguarda la amministrazione delle ricchezze di questo mondo, il poco, da dentro il quale ci si apre o meno alla amministrazione delle ricchezze eterne, il molto. Per questo Gesù aggiunge: non si può affidarvi la ricchezza vera, evangelica, se non siete affidabili in quella ingiusta, di ordine terreno; non si può affidarvi la vostra, di figli della luce, se non siete affidabili in quella altrui, dei figli di questo mondo. E conclude: Nessun servitore può servire due padroni… Non potete servire Dio e la ricchezza. La contrapposizione non è tanto fra ricchezza e Vangelo, quanto fra i principi ispiratori della gestione della ricchezza: si arriva veramente a farne buon uso quando dai criteri del mammona si passa a quelli di Dio.
Meditazione
Elemento comune alle letture è la denuncia della potenza di seduzione del denaro e della ricchezza che porta Gesù a parlarne come di un’entità divinizzata (Mammona) che si oppone all’unico e vero Dio (vangelo) e che conduce il profeta Amos a smascherare l’ossessiva bramosia di guadagno di latifondisti e commercianti che si mostrano insofferenti al giorno santo del sabato che mette un limite ai loro affari (I lettura).
L’ambiguità del denaro e la sua capacità di pervertire il cuore dell’uomo appare anche nella parabola in cui Gesù presenta a modello «l’amministratore disonesto»: modello ovviamente non per la sua disonestà, ma perché, nel momento in cui gli è stato prospettato il licenziamento, ha saputo agire con scaltrezza (Lc 16,8). Al cuore della nostra pagina evangelica vi è la decisione radicale a cui l’uomo è chiamato per entrare nel Regno di Dio.
Questa decisione richiede qualità che sono esemplificate nell’amministratore che ha saputo reagire con decisione al momento difficile in cui è venuto a trovarsi quando i suoi intrighi economici sono stati scoperti.
Nel momento della crisi, questo amministratore anzitutto dimostra capacità di accettazione della realtà, della nuova situazione prodottasi («Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?»: Lc 16,3); quindi di riconoscimento dei propri limiti, delle proprie incapacità e impotenze («Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno»: Lc 16,3); infine di decisione e scelta preparandosi un futuro: egli agisce compiendo gesti che gli dischiudono un futuro (Lc 16,4-7). Dunque, l’esemplarità di quest’uomo corrotto non sta certo nel suo agire senza scrupoli, ma nel suo discernere realisticamente la situazione critica in cui si viene a trovare e nel saper agire di conseguenza. Anche per Gesù costui è un «figlio di questo mondo» (Lc 16,8)! La domanda di Gesù però riguarda i figli della luce: come mai non sanno discernere l’ora, la vicinanza del Regno e mettere in atto prontamente i gesti di conversione che sono essenziali per la salvezza?
Gesù non demonizza il denaro, ma mette in guardia dalla potenza che esso esercita: l’uomo lo divinizza. «Mammona» è termine connesso alla radice ‘aman che significa «credere». Il vangelo denuncia la seduzione del cuore umano e il pervertimento della verità dell’uomo che il denaro può esercitare. Possiamo dire che esso è l’idolo per eccellenza: nel denaro si «crede» il mercato si nutre di «fiducia». E noi scopriamo la nostra insipienza non appena riflettiamo sul fatto che quel manufatto che è il denaro (è l’uomo che «batte moneta») da mezzo di scambio è divenuto fine, da servo è diventato padrone, crediamo di muoverlo e invece è lui che ci agisce, anzi determina i nostri ritmi quotidiani spingendoci a una frenetica corsa all’accumulo. Per questo Gesù pone un’insanabile contrasto fra «servire Dio e servire il denaro»: «Nessun servo può […] Non potete» (Lc 16,13). Questa parola resta una spina nel fianco di cristiani e chiese ricche in una società opulenta. Il vangelo non da ricette, ma la domanda va almeno fatta risuonare: l’abbondanza di mezzi economici e la potenza di mezzi culturali non rende forse illusoria la sequela Christi? E non la rende anche poco credibile?
Condividere e donare ai poveri sono forme di uso cristiano dei beni suggerito nei vangeli: «Fatevi amici con la disonesta ricchezza». Ovvero: donate ai poveri, gli amici di Dio, ed essi, portatori del giudizio escatologico (Mt 25,31 ss.), potranno accogliervi nelle dimore eterne. Ciò che non è avvenuto al ricco che non ha mai mosso un dito per Lazzaro: ora, dopo la morte, mentre Lazzaro è nel seno di Abramo, il ricco è tra i tormenti, e i due sono separati da un abisso invalicabile (cfr. Lc 16,19-31).
Le parole di Gesù sulla fedeltà (Lc 16,10-12) svelano che vi è una gerarchia di realtà con differente valore: c’è un «poco» e c’è un «molto», c’è una ricchezza materiale e c’è una vera ricchezza, una ricchezza non quantificabile in cui consiste la propria personale verità. Una ricchezza fatta di umanità, vero capitale che il Dio creatore ha donato all’uomo in forma di immagine e somiglianza con lui.
Commento a cura di don Jesús Manuel García