Dire “io” e non negare l’inferno
Mi affascina il mistero della traiettoria della pecora che sprofonda in smarrimento, della moneta che si nasconde anche a se stessa, del figlio minore che lascia la casa. Anche la traiettoria impaurita del figlio maggiore mi interroga.
Sono i momenti veramente segreti presenti nella pagina evangelica di oggi, strade nascoste, voragini esistenziali, spazi sottratti alla descrizione: il pastore, la donna e il padre devono fare i conti con un vuoto, con un non sapere che lega al distacco un senso di impotenza. Occorre mettersi a cercare, senza sapere dove, oppure aspettare sperando che il figlio ricordi e forse ritorni.
Ho paura che non ci possa essere vera fede senza questo momento di perdita, la fede è per gli smarriti. Per questo Cristo mangia con loro mentre dal recinto dei novantanove scribi e farisei non sanno far altro che belare le loro mormorazioni piene di buon senso.
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Ma che lo smarrimento sia reale, cioè che un giorno si arrivi a credere di aver sbagliato tutto, che si arrivi a pregare l’arrivo della morte per essere liberati dal nulla in cui ci siamo infilati. Che si accetti l’esistenza dell’inferno: per averlo visto, per esserci entrati dentro.
Fino a quel momento non c’è problema, davvero nessun problema, si può continuare a parlare di Dio, a dire anche cose sensate, a parlare di buon pastore come ne parlerebbe una pecora nel recinto, incensare eccessive bontà , toccare i cuori con una misericordia dolce ma ignara di cosa significhi la paura di aver dilapidato la vita.
Si può parlare di Lui dicendo cose bellissime e giuste, accarezzando i cuori, davvero non c’è problema, si può fare anche del bene. Ma quando frani nello smarrimento le cose cambiano. tu cambi. Ma devi dare nome a tutto questo, occorre rientrare in se stessi e accettare questa condizione. Smarrirsi e non accettarlo è quanto di peggio possa accadere a noi e a chi ci sta accanto.
Non accettare il fallimento, non vedere che con il nostro comportamento facciamo soffrire, non piangere per le persone che abbiamo usato, tradito, dimenticato… questo è il vero inferno. Quello a cui ci si abitua, quello che abitiamo. Il vero inferno è smarrirsi dentro i nostri deliri di onnipotenza e blindare il cuore, anestetizzarlo, non permettere a niente e nessuno di toccarlo.
Smarrirsi invece e accettare di essere falliti, sentire che siamo parte del male, colpevoli, complici, siamo noi la pecora smarrita, la moneta, il figlio minore ingrato. E il maggiore intestardito. E provarne vergogna, sinceramente.
Accettare e riconoscere di essere perduti. Sentire il dolore dell’umiliazione, misurare il dolore inflitto agli altri e non minimizzarlo, non credere a nessun prete che con una frettolosa assoluzione prova a metterci al riparo da noi stessi. Fermarsi invece e inchiodarsi al presente e iniziare a dire: “io”. Uscire dalla retorica del gruppo, del gregge e della comunità e dire semplicemente “io”, con un nodo che stringe la gola e la paura che il Pastore sia così lontano da non sentirci. Dire “io” e sapere che abbiamo un percorso di liberazione lungo e duro che ci aspetta. Dire “io” e sentire di non avere le forze per cambiare. Dire “io” e piangere e vergognarsi e guardarsi nella nostra miseria e accorgersi che quella è già preghiera. Forse la prima della nostra vita.
C’è un recinto a cui siamo chiamati a tornare ma non è quello di chi si crede giusto e impeccabile, è quello intimo, il deserto che ci portiamo dentro, lo spazio della verità . Smarrirsi è iniziare a svelarsi a se stessi, e bisogna avere il coraggio di trovare compagni di viaggio che non minimizzino, che non fingano, che non cerchino immediatamente la scorciatoia della consolazione: sprofondare nel male che ci abita, chiamarlo per nome, smettere di vestire i panni dell’innocente, chiamare per nome la propria miseria e lì, solo lì, sperare di accorgersi di essere amati, nonostante tutto.
AUTORE: don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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