p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 4 Settembre 2022

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 4 settembre 2022.
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Croce, ignominia divenuta segno di “gloria”

È famoso il detto di un padre del deserto: “Verrà il tempo in cui gli uomini impazziranno. E al vedere uno che non sia pazzo gli si avventeranno contro dicendo: ‘Tu sei pazzo!’, a motivo della sua dissomiglianza da loro”.

Paolo è passato attraverso questa esperienza: “I giudei domandano miracoli e i Greci cercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani” (1 Cor 1,22-23).

Dove sta la vera sapienza?

La logica della croce non è quella del mondo e l’uomo nasce e cresce assimilando quella del mondo. Quando gli viene annunciata la “ follia della croce” è normale e perfino salutare che esiti, venga colto da dubbi e perplessità e che – come spiega il Vangelo di oggi – si sieda per riflettere sulla scelta da fare.

Noi cerchiamo la vita, non la morte, vogliamo evitare ciò che ci fa soffrire e la croce non evoca, purtroppo, l’idea di salvezza.

Certe forme di mortificazione, di penitenze e di pratiche ascetiche non hanno reso un buon servizio alla comprensione dell’invito fatto da Gesù a prendere la croce.

Il cristiano non aspira al dolore (nemmeno Gesù lo ha cercato), ma all’amore.

Tuttavia, quando l’amore è “vissuto fino alla fine” (Gv 13,1) giunge al dono della vita. Ecco perché la croce, da segno di morte, diviene simbolo di vita.

Fino alla fine del III secolo, i simboli del cristiano erano l’ancora, il pescatore, il pesce, mai la croce. Sarà a partire dal IV secolo, con il celebre ritrovamento dello strumento del supplizio di Gesù da parte di Sant’Elena, che la croce diverrà simbolo di vittoria, non sui nemici di Costantino a Ponte Milvio, ma sulla morte e su tutto ciò che fa morire.

Scegliere la croce è scegliere la vita. Ma non è facile da capire.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Donaci, o Dio, la sapienza del cuore”.

Prima Lettura (Sap 9,13-18b)

13 Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14 I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
15 perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri.
16 A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17 Chi ha conosciuto il tuo pensiero,
se tu non gli hai concesso la sapienza
e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?
18 Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito;
essi furono salvati per mezzo della sapienza”.

Il capitolo 9 del libro della Sapienza contiene una stupenda preghiera per chiedere a Dio la sapienza. La lettura ne presenta la terza ed ultima parte.

La sapienza di cui parla la Bibbia non va identificata con l’erudizione, il sapere, l’istruzione ricevuta a scuola.

L’autore del libro della Sapienza era un uomo molto intelligente e preparato: aveva studiato la scienza, l’aritmetica, la fisica; conosceva il movimento delle stelle, il comportamento degli animali, le radici per curare le malattie (Sap 7,16-21). Eppure sentiva il bisogno di chiedere a Dio la sapienza perché essa può essere donata solo da lui.

Come allevare gli animali, come coltivare i campi, quali tecniche impiegare per produrre sempre di più e sempre meglio: sono problemi seri e urgenti, ma non sono i più importanti. Ci sono interrogativi che vanno affrontati perché dalla loro soluzione dipende la riuscita o il fallimento della vita e a questi interrogativi non rispondono i libri di scienza. Che valore dare al denaro, al successo, al prestigio sociale, alla famiglia, alla professione? Possono essere dimenticati, ma anche pericolosamente sopravvalutati.

Per fare scelte giuste e ponderate, è necessaria la “sapienza”, cioè, la luce che viene da Dio, perché – dice la lettura – seguendo i propri impulsi e le proprie intuizioni, l’uomo non arriva a scoprire ciò che è bene. Non è in grado di conoscere il volere del Signore perché i suoi ragionamenti sono incerti. È troppo condizionato dal corpo corruttibile che gli appesantisce la mente. Già fa fatica a capire le cose della terra, come potrà scoprire i pensieri di Dio? (vv.13-16).

Toppi fattori imponderabili condizionano i ragionamenti e le scelte dell’uomo: l’educazione ricevuta, le tradizioni assimilate, i persuasori occulti, la propaganda di chi detiene il potere, l’opinione dominante. Non è facile decidere in modo libero e saggio, camminare per sentieri diritti, se Dio non invia dall’alto la sua luce, se non comunica la sua sapienza (vv.17-18).

I pensieri degli uomini sono spesso deboli, fragili, inconsistenti. Non dobbiamo meravigliarci se la parola di Dio tante volte li contraddice.

Seconda Lettura (Fm 9b-17)

9bIo, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; 10 ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, 11 Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. 12 Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.
13 Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. 14 Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. 15 Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16 non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
17 Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso.

Se i Colossesi hanno conservato con devozione questo biglietto, indirizzato da Paolo a un cristiano della loro comunità, significa che, nonostante la sua brevità, è stato ritenuto prezioso. L’episodio che l’ha originato è commovente. Se ad esso si aggiunge il tono affettuoso, delicato e dolce con cui Paolo lo ha redatto (basta considerare le parole con cui inizia il nostro brano: “Io, Paolo, vecchio e ora anche prigioniero”), si comprende la ragione dell’amore di cui è sempre stato circondato. Veniamo alla vicenda.

Passando per la provincia dell’Asia, Paolo ha incontrato e convertito a Cristo un giovane e ricco commerciante di Colossi di nome Filemone. Costui diviene un cristiano esemplare. Paolo lo chiama “nostro caro collaboratore” (Fm 1) e ne fa un notevole elogio: “sento parlare della tua carità per gli altri” (Fm 5); “la tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, fratello, perché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua” (Fm 7).

Filemone è sposato (Appia che viene citata al v.2 è probabilmente sua moglie), ha al suo servizio operai, domestici ed è proprietario di una casa sufficientemente grande da accogliere tutta la comunità per gli incontri e la celebrazione settimanale dell’eucaristia (Fm 2). Un giorno uno dei suoi schiavi, un certo Onesimo (che significa “utile”!), gli ruba un bel gruzzolo e scompare.

Schiavi che fuggono ce ne sono parecchi. In genere finiscono per mimetizzarsi in una grande città, vivendo di espedienti, di elemosine o di furti, cercando di non farsi riconoscere perché chi viene riportato dal padrone rischia la pena capitale.

Non sappiamo come quest’uomo sia arrivato a incontrare Paolo; visto che l’Apostolo si trovava ad Efeso in prigione, si può supporre che i fatti si siano svolti, più o meno, in questo modo: Onesimo, giunto nella più grande metropoli dell’Asia, si caccia in qualche affare losco, viene scoperto e finisce in galera. Lì incontra l’Apostolo.

Passati i primi giorni di reciproca diffidenza, i due si raccontano le loro storie e scoprono di conoscere le stesse persone a Colossi. Divengono amici e Paolo parla ad Onesimo del Signore Gesù. Dopo alcuni mesi, Onesimo chiede di essere battezzato e quando viene rimesso in libertà vorrebbe tornare dal suo padrone, ma gli manca il coraggio. L’Apostolo allora gli consegna una lettera di presentazione da consegnare a Filemone e a tutta la comunità.

Questa è l’origine della breve e stupenda Lettera a Filemone che oggi ci viene proposta.

Paolo invita l’amico e i cristiani di Colossi a non lasciarsi guidare da considerazioni umane e a supporre che Onesimo si sia convertito per opportunismo. Questi ragionamenti spesso sono il sintomo di un meschino desiderio di vendetta. L’Apostolo raccomanda che Onesimo venga accolto bene: come se fosse suo figlio (v.10), come il suo stesso cuore (v.12), come un fratello carissimo (v.16). Cos’è mai la perdita di un po’ di soldi, paragonata alla gioia di ricevere un fratello? (vv.17-18). Chi ha sbagliato non può essere guardato con sospetto per tutta la vita.

Com’è finita la storia di Onesimo? Non abbiamo notizie sicure, ma tutto lascia supporre che egli sia stato accolto molto bene perché, pochi anni dopo, nella lettera ai Colossesi, Paolo parla ancora di “Onesimo, il fedele e caro fratello che è dei vostri” (Col 4,9). Cinquant’anni più tardi, Ignazio di Antiochia ricorda un certo Onesimo, vescovo di Efeso. Potrebbe trattarsi della stessa persona.

Vangelo (Lc 14,25-33)

25 Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: 26 “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30 Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. 33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Nel campo religioso, le statistiche, le percentuali, le proiezioni, i rilevamenti sono utili se aiutano a riflettere sulle proprie responsabilità e stimolano a rivedere le scelte ecclesiali alla luce del Vangelo. Sono opinabili e tendenziosi invece quando portano a scaricare sull’edonismo, sul laicismo, sul secolarismo… tutte le colpe degli insuccessi. Sono addirittura deleteri se inducono ad interpretare l’aumento degli adepti come un motivo di orgoglio, di vanità, di autocompiacimento.

Di fronte ai “grandi numeri”, alle “folle oceaniche” Gesù, invece di rallegrarsi, si preoccupa. Immagina i suoi discepoli come un “piccolo gregge” (Lc 12,32), come un po’ di “sale” (Mt 5,13) o di “fermento” (Mt 13,33), come “un granello di senape” (Mt 13,31). Non dobbiamo meravigliarci se – come accade nel Vangelo di oggi – egli rimane stupito al vedere che “era molta la gente che andava con lui” (v.25). È colto dal dubbio che ci sia stato un equivoco, che le folle abbiano frainteso le sue parole. Si volta e comincia a spiegare cosa comporta la scelta di essere suoi discepoli (v.25).

Gesù fa tre richieste, molto dure, che si concludono con il medesimo, severo ritornello: non può essere mio discepolo! (vv.26.27.33). Sembra quasi che voglia allontanare le persone, più che attirarle.

Il brano è stato applicato spesso alla vocazione monastica. In realtà è diretto alle folle che vanno con lui, è rivolto a tutti coloro che vogliono essere cristiani.

Iniziamo con una precisazione: Se uno viene a me – dice Gesù – non “se uno vuole venire dietro a me” (v.26). È una differenza sottile, ma significativa perché rivela l’intenzione dell’evangelista. Luca vuole indirizzare le parole di Gesù ai numerosi convertiti delle sue comunità i quali sono attratti dal Maestro, provano simpatia per lui e per il suo messaggio, ma sono anche tentati di “addomesticare” il Vangelo, di renderlo più abbordabile.

Le condizioni che Gesù pone sono chiare e non sono trattabili.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (v.26).

Quando presenta i requisiti della vocazione cristiana, Gesù usa sempre immagini molto forti. Non vuole che qualcuno si faccia delle illusioni. Lo abbiamo sentito qualche domenica fa dichiarare a chi lo voleva seguire: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo… Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Lc 9,57-62). In un’altra occasione ha parlato della necessità di cavare l’occhio e di tagliare la mano e il piede che scandalizzano (Mc 9,43-47). Tuttavia non era mai arrivato ad affermare che è necessario odiare i propri familiari e addirittura la propria vita. Com’è possibile? Il cristiano è colui che ama tutti, anche i nemici.

Qualcuno risolve la difficoltà sostenendo che, nella lingua di Gesù, il verbo odiare significa anche: “amare di meno”, “porre in secondo piano”. È vero, ma forse non è questa la soluzione giusta. Anzitutto l’amore non ha limiti e più si ama, meglio è. Dio non è geloso e considera come rivolto a sé tutto l’amore che è donato all’uomo (Mt 25,40). Non bisogna aver paura di esagerare. Inoltre, ridurre le parole severe del Maestro ad una banale questione di quantità: “amare di più – amare di meno”, vuol dire non capirle.

Quando Gesù parla di odio, si riferisce ai tagli netti che è necessario fare quando si tratta di rimanere fedeli al Vangelo. Odiare significa avere il coraggio di rompere anche i legami più cari, quando costituiscono un impedimento a seguire lui. È l’invito rivolto ai cristiani delle comunità di Luca a dissociarsi, a opporsi in tutti i modi a ciò che è contrario al Vangelo, anche quando questo significa porsi in disaccordo con un amico, urtare la sensibilità di qualche familiare, rinunciare a scelte di compromesso. Questi distacchi, queste prese di posizione possono venire classificati come “odio”, ma sono gesti coraggiosi di autentico amore.

La seconda condizione: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (v.27).

Questa frase viene interpretata spesso come un invito a sopportare con pazienza le contrarietà, le piccole o grandi sofferenze della vita. Altre volte è intesa come un invito a mortificarsi, a fare dei sacrifici.

Gesù non fa una richiesta di rassegnazione, ma di disponibilità a testimoniare, anche con la vita, la propria fede. Il martirio è una eventualità da mettere in conto perché la proposta di vita nuova – quella delle Beatitudini – è sconvolgente, scatena reazioni. Chi non la capisce o la ritiene pericolosa per il buon ordine sociale o religioso, farà certamente ricorso a qualche forma di violenza. Magari si tratterà solo di violenza verbale (insulti, ingiurie, diffamazioni, derisioni), ma può manifestarsi in discriminazioni, nell’emarginazione sociale o religiosa, nella messa al bando. Può giungere addirittura alla violenza fisica, come è accaduto con Gesù.

Questa è la croce che deve aspettarsi il discepolo.

Prima di introdurre la terza richiesta, Gesù racconta due brevi parabole. La prima parla di un uomo che, volendo proteggere i raccolti dai ladri e dagli animali, decide di costruire una torre nel suo campo per mettervi una guardia. Non inizia i lavori senza aver prima calcolato la somma necessaria per portare a termine l’opera. Ne va della sua reputazione (vv.28‑30).

La seconda parabola narra di un re che vuole intraprendere una guerra. Anch’egli si siede e valuta le forze del suo esercito (vv.31‑32). C’era un detto: prima di andare a caccia di leoni, prendi la tua lancia e conficcala per terra. Se non riesci a farla penetrare in profondità, rinuncia al tuo progetto: i leoni sono troppo forti per te!

Le due parabole sembrano un invito a rinunciare alla vocazione cristiana. In realtà l’obiettivo è richiamare la serietà e l’impegno che comporta questa scelta.

Chi ha ascoltato il Vangelo non può illudersi di essere già divenuto discepolo; non sono sufficienti gli slanci e l’entusiasmo iniziale, occorre costanza e forza per perseverare.

La terza condizione: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (v.33).

Non si tratta di dare qualche spicciolo in elemosina. Bisogna rinunciare a tutto. Non è uno scherzo!

Per rendere praticabile questa richiesta è stata escogitata una infelice soluzione. Si è cominciato a parlare di istituti di perfezione (i religiosi, i monaci, le suore) che – prendendo i voti – si impegnano a praticare integralmente ciò che Gesù esige. I cristiani semplici possono invece continuare a possedere e amministrare i loro beni, ma devono rassegnarsi ad essere cristiani imperfetti. Insomma, la rinuncia ai beni non sarebbe un precetto per tutti, sarebbe un di più proposto ad alcuni eroi, decisi a praticare anche le parti “facoltative” del Vangelo.

Si tratta di un trucco maldestro. La richiesta di rinuncia totale ai beni non è rivolta solo a qualcuno, ma a chiunque viene a Gesù.

Affinché non sorgessero dubbi, Luca ha riferito più volte questa condizione posta dal Maestro (Lc 12,33; 18,22…).

Non è facile avanzare proposte concrete. Luca ha presentato negli Atti la comunità in cui nessuno era povero perché tutti avevano messo in comune i loro beni (At 2,44‑45; 4,32-35).

Certo è che la scelta di seguire Cristo comporta un rapporto completamente nuovo anche nei confronti dei beni di questo mondo.

AUTORE: p. Fernando Armellini

FONTE: per gentile concessione di Settimana News