don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 26 Agosto 2022

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APPROFITTANDO DI OGNI OCCASIONE PER AMARE

Le dieci vergini erano damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un “piccolo vaso” che conteneva l’olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura, che vivono senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. E ciò accade se camminiamo nella Chiesa, se alimentiamo i piccoli vasi con l’ascolto della Parola di Dio, con i sacramenti, con la frequenza alle liturgie; nel seno della Chiesa, infatti, impariamo a nutrire l’uomo nuovo che vi è gestato: e ogni gravidanza inizia con un “ritardo”… Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte.

Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si “destano” come il Signore si “desta” dalla morte! Il ritardo è l’occasione per crescere nell’amore, per prepararsi all’incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell’obbedire e dei genitori nell’ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l’occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito.

Essere “vigilanti” è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che “significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l’unico polo capace di attrarre l’attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza.

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Il cristianesimo è una cosa seria, non è sentimentalismo e amore sdolcinato. E’ una missione, e chi è chiamato ad essere cristiano, deve sapere che diventarlo significa essere trasformati in sale, luce e lievito del mondo, offrendo se stesso per salvezza di ogni uomo. Le “dieci vergini” erano delle damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un “piccolo vaso” che conteneva l’olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. Durante la “Veglia” Pasquale, dopo essere scesi nel fonte battesimale e aver ricevuto l’unzione con l’olio crismale (la cresima), colmi dello Spirito Santo i neofiti attendevano lo Sposo per entrare con Lui al banchetto. Erano “vergini”, cioè rinnovati e senza peccato originale, e “nei piccoli vasi” avevano l’olio dello Spirito Santo che  aveva compiuto in loro segni e prodigi durante l’iniziazione cristiana conducendoli alla statura adulta della fede. Avevano “vigilato” e ora, con i loro piccoli vasi colmi del crisma, erano pronti ad accendere le “fiaccole” con la luce delle opere sante e soprannaturali che rivelavano in essi la nuova natura ricevuta.

E proprio nel cuore della notte di Pasqua, un grido li destava: “ecco lo sposo!”, è risorto, “andategli incontro”. Allora essi si alzavano dal sonno, andavano ad accogliere il Signore che li conduceva con Lui al banchetto dell’Eucarestia, culmine e fonte della liturgia. Anche per noi, la chiamata che abbiamo accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della fede. Creati a sua immagine dobbiamo crescere in esso perché, al giungere dello Sposo, al termine del nostro catecumenato come poi alla fine del mondo, Egli possa “riconoscerci” quali suoi fratelli, chiamarci, destarci e farci nascere alla vita che non muore. Per questo, le nozze eterne si preparano durante tutta la vita. Un fidanzamento, un matrimonio, il ministero presbiterale, la consacrazione religiosa, la maternità e la paternità, anche un’amicizia, non sono cose di un momento, non sono avventure e passioni, roba da grandi quanto effimeri entusiasmi. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: “afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario” (Card. Van Thuan). La saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. La “sapienza” è l’umiltà fondata nella verità. La “stoltezza” è la superbia radicata nella menzogna. La vita è molto seria, e quella eterna ce la giochiamo qui, come ogni uomo; per questo il cristianesimo è quanto di più serio vi sia. Solo percorrendo un serio cammino di conversione potremo ascoltare il grido che annuncerà l’arrivo dello Sposo e trovarci pronti per entrare con Lui nelle nozze. I “piccoli vasi” indicano le orme che precedono i nostri passi: essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l’olio dello Spirito Santo, rinnovare ad ogni evento della vita l’Alleanza che ci fa primogeniti.

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Ci si può addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio. Anche Adamo si è addormentato, e fu vita tratta dalla sua stessa carne. Anche Abramo fu preso da un torpore, e fu l’Alleanza incorruttibile. Anche i discepoli cedettero agli occhi appesantiti, e fu il compimento definitivo della Volontà di Dio. In comune tutti hanno la propria debolezza e il potere di Dio: è Lui che fa tutto, perché Dio dona il pane ai suoi amici nel sonno: mentre dormiamo pulsa la vita autentica, ed è il mistero a cui siamo chiamati, la vita nella morte. La primogenitura è, essenzialmente, vivere senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. E ciò accade se camminiamo nella Chiesa, se alimentiamo i piccoli vasi con l’ascolto della Parola di Dio, con i sacramenti, con la frequenza alle liturgie; nel seno della Chiesa, infatti, impariamo a nutrire l’uomo nuovo che vi è gestato: e ogni gravidanza inizia con un “ritardo”…

Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si “destano” come il Signore si “desta” dalla morte! Il ritardo è l’occasione per crescere nell’amore, per prepararsi all’incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell’obbedire e dei genitori nell’ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l’occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. Essere “vigilanti” è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che “significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l’unico polo capace di attrarre l’attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza.

San Paolo, dopo aver ricordato ai Galati che “il tempo è breve”, conclude dicendo: “Dunque, fino a quando abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede!”. Operare il bene che lo Spirito Santo ispira e compie attraverso di noi, nei fatti e con le persone di ogni giorno: il lavoro con le sue difficoltà, le occasioni per prendere su di sé le pratiche dei colleghi e, per amore, rinunciare al proprio prestigio; il fidanzamento ancorato alla speranza di veder compiuto il desiderio di amare, attraverso il combattimento per la castità, per il rispetto, per la libertà dell’altro, imparando nei piccoli frammenti di vita a rinunciare a se stessi; il matrimonio aperto alla vita, alla volontà di Dio, nelle occasioni di fedeltà che si presentano ogni giorno, nella pazienza e nel dono del proprio tempo, dei propri gusti, accompagnando il coniuge, in tutto, verso l’obbedienza a Cristo; i genitori a cui obbedire anche nelle cose più banali, come lavare i piatti, rifare il letto e lavarsi i denti; la scuola nella quale approfittare per imparare a fare anche ciò che non piace, rinunciando alle più allettanti e gratificanti per compiere la volontà di Dio; la vita religiosa nella quale cogliere l’occasione per obbedire ai superiori, che ci appaiono così spesso meno perspicaci e illuminati di noi, per imparare ad ancorare la vita in Cristo e non negli uomini attraverso i quali Egli ci parla.

Tutto quello che ci è dato di vivere è un’occasione per crescere e prepararsi all’ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti cristianamente, intrisi cioè nell’unzione del Crisma profetico, sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Le vergini stolte sono, infatti, immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo, preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come quella di un corpo addormentato dopo un’ubriacatura, preda di sogni e passioni, ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Vivono tutto addormentate nel sonno drogato della carne, con il cuore assente e vuoto, come i loro piccoli vasi. Non possono colmare d’amore le occasioni che Dio dona loro. Fanno, disfano e non resta nulla: opere morte, opere addormentate. Così è di tanti matrimoni, di tanti fidanzamenti, di tante amicizie: “Invece che spalancare le braccia ad abbracciare il mondo, si vuole ridurre l’abbraccio all’oggetto che piace, che ci è davanti, e così uno lancia le braccia – secondo il paragone dell’Eneide – e stringe il nulla, abbraccia e stringe il niente” (Mons. Luigi Giussani). Sono stolte perché nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad esserne le damigelle d’onore; hanno dimenticato l’abito nuziale, l’olio per le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoria. Hanno, come tanti di noi, partecipato al memoriale della Pasqua del Signore, sorgente e compimento della vocazione, ma non hanno mai rinnovato nulla, non hanno mai accolto davvero la Grazia offerta dalla Chiesa: sacramenti, preghiere, riunioni, forse anche buone opere, ma tutto come vasi forati, incapaci di trattenere lo Spirito Santo.

Stolte come chi pensa di poterla comunque sfangare alla fine, anche se nella vita ha sempre schivato il sacrificio, le piccole occasioni, dissipando l’olio ricevuto senza provvederne dell’altro. La stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell’anticristo che nega l’incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma, alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha amato. Per questo, come alla fine della vita, anche ogni giorno occorre pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà mai fare per noi. Non è possibile distribuire l’olio destinato a ciascuno, perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la propria vita, ma l’olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui bisogna chiederlo al tempo opportuno. Non c’è sentimentalismo o pietismo che tenga: nulla possiamo anteporre a Cristo. Nulla all’obbedienza e all’intimità con Lui. Vi è sempre un ordine fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili.

Così per ogni relazione: quanti ragazzi distruggono la propria vita per tentare di salvare l’amico o la fidanzata drogata, perdendo il proprio olio e non offrendo nulla se non la propria indifesa debolezza. E’ Cristo e solo Lui che scende nella morte, che perdona e risuscita: noi possiamo e siamo chiamati ad annunciarLo, a condurre al suo trono di misericordia chi amiamo, non a sostituirci a Lui. Per questo l’amore autentico agli altri sorge da un’intimità profonda con il Signore: spesso è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di DioLa libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L’unico che è morto al posto di ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il nostro cuore, tenerlo desto, ricevere e custodire lo Spirito Santo perché in noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo amore.

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