Gesù, il Figlio di Dio.
La prima parte di questo vangelo la si comprende bene, è il secondo dei tre annunzi della passione, sappiamo la profondità teologica che questi annunzi hanno nei sinottici; ma la seconda parte, quella del tributo e della moneta nella bocca del pesce ci è difficile afferrarla, come se sentissimo una storia che sembra uscita da un libro di fiabe.
I commenti dei padri che si trovano su tale pericope sono tutti improntati a rapporti cristiano e stato, chiesa e società, pagare o meno le tasse, non provocando scandalo, all’essere insomma buoni cristiani e bravi cittadini. Cose queste che hanno una loro bontà e che pur giuste, non mettono tuttavia in evidenza il fatto che Gesù qui sta nuovamente proclamando la sua divinità.
Le applicazioni pratiche non dovrebbero mai far perdere di vista che i vangeli sono stati scritti non come una istruzione morale ma come un’opera catechética atta a far comprendere il fondamento della fede, il quale risiede nella proclamazione del Cristo vero Figlio di Dio, uguale al Padre nella sostanza, e che è morto ed è risorto. Tale realtà, al tempo in cui l’evangelista scrive, aveva trovato il suo compimento e, la sua pur breve tradizione di allora, cercava di metterla in risalto.
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Allora, ciò che deve spiccare è il breve discorso di Gesù e non certo la conclusione, che pur avendo un suo valore didattico, non ha certamente la portata delle parole di Cristo, che si proclama, Figlio di Dio e uguale al Padre. Il messaggio del vangelo era per loro ma vale anche per noi. Chiediamo perché siamo capaci sempre di riconoscere Gesù Figlio di Dio e fratello nostro.
Monaci Benedettini Silvestrini
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