don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 24 Luglio 2022

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Morto di fame, morto d’amore

La preghiera è degli spostati. Serve un posto che sia altrove, serve uno spazio fisico, un pezzo di terra, un ritaglio di mondo uguale a milioni di altri pezzi di mondo ma eletto a deserto, almeno per il tempo di sospenderlo il tempo, e deve essere lontano, e vuoto, e inutile.

Non credo sia stata una buona idea riempire le chiese e zavorrarsi in barocche trappole teatrali. Per pregare anche Gesù si sposta, sceglie un luogo, si ferma, ci rimane, e poi finisce. Probabilmente sfinisce, sprofonda in un’assenza che costringe i suoi amici a chiedere ragione di una negazione del suo essere disponibile ai loro magri bisogni di attenzione. La preghiera è un luogo svuotato. La preghiera è negarsi, annegarsi di silenzi, soffocarsi ingoiando la notte a morsi e tagliarsi il respiro sbranando mute stelle. La preghiera è esercizio di morte.

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E poi è solo Gesù. Nessun prete saccente ad accusarlo di eccesso di intimismo, di mancata attenzione comunitaria. Solo, si muore da soli, si prega da soli, si vive affilando la lama della propria solitudine, facciamocene una ragione.

La preghiera svela una solitudine radicale, una morte strisciante, si vorrebbe negare l’abisso per allontanarsi dalla paura, le comunità possono solo illudersi, diabolicamente, di lenire lo scandalo moltiplicando proposte corali. Invece con Gesù nessuna liturgia coinvolgente, silenzio e solitudine. E la morte diventerà consolante, e così anche la preghiera, ma a tratti, e al culmine, liberazione, consegna.

Da lontano i discepoli spiano, sperano, tentano di intuire dove sia il Maestro in quei momenti di assenza. Hanno paura. Vorrebbero solo imparare a pregare, anche Giovanni Battista aveva istruito i suoi discepoli, GesĂą propone un esercizio di morte.

“Padre”, e per Luca non è nemmeno “nostro”, solo padre, una radice e un’assenza da invocare, già abisso di abbandono, in una parola tutta una vita, una relazione mai data per scontata. Una voragine che ti spacca dentro, dove sei Padre? Perché mi hai messo al mondo, perché tanto silenzio? E dalla carne, dal Vuoto e dal Niente ecco la straziante verità, può comprendere solo chi si partorirà a sua volta padre, la preghiera è la negazione di ogni pensiero, Gesù comprende che solo dalla croce, mentre il Suo silenzio si dilata a grembo, in quel momento e da quel luogo, lui potrà rompere le acque e partorirsi, finalmente, padre, definitivamente Dio. Serve inchiodarsi a un luogo a forma di croce, spostarsi in ambito di follia che qualcuno chiama blasfema. Blasfemo come solo l’amore può essere. Pregare è chiedere una paternità dolorosa e totale.

“Sia santificato il tuo nome” e che io possa riconoscerlo il nome silenzioso di Dio, che possa aggredirmi alle spalle la tua presenza, e sorprendermi, azzannarmi, strapparmi dalle abitudini e soprattutto che io non creda di esserne il detentore del Regno, che io non creda di poter avanzare qualche pretesa, è la vita che santifica la Tua presenza e io non posso far altro che ritrarmi, scomparire, farti spazio, trasformarmi in terra, umiliarmi, rendermi deserto, nullificarmi, farmi cannibalizzare dal Vuoto, lasciarlo parlare, svuotarmi, eviscerarmi. Permettere al Regno di mostrarti, nonostante me. Calpestami, camminami dentro.

“Venga il tuo Regno”, e che sia finalmente il tuo e non il mio. Che sia un Regno dove nulla ha più senso se non rimanda a te, che sia un Regno dove unico potere è quello di svuotarsi da ogni potere, che sia profetica la distruzione di ogni gerarchia. Venga il tuo Regno e non il mio, per questo mi sposto e sprofondo nella preghiera, per questo ti chiedo di farmi perdere tutto, che non rimanga più nulla, che non ci sia niente, neanche una minima traccia di me, venga il tuo Regno e mi spazzi via, venga il tuo Regno e non lasci più niente in me se non il bisogno di bussare e di implorare accoglienza in te.

“Dacci ogni giorno il pane quotidiano”, come chiodi a trapassare la carne mi conficchi nel presente. Lo sai quanto mi costa chiedere, anche chiedere a te. E tu mi costringi a farlo ogni giorno perché ogni giorno è diverso, perché non posso mai dare nulla per scontato, se avessi una regola di vita, perimetro chiaro, ruolo perfetto, basterebbe la mia fedeltà, essere fedele a me stesso, invece tu mi chiedi di precipitare sempre nella fatica di decifrare i giorni, di dover implorare pane bastante per attraversare una notte, una soltanto, e poi tornare a cercarti, sfinirmi nel discernimento, umiliarmi nell’affanno di non saper mai cosa fare, scoprire di aver bisogno solo di te. Quotidianamente.

“Perdona i nostri peccati”, perdona i miei peccati, che ci sono, che sono parte del dolore del mondo, che impediscono al bene di illuminare, che sono lo spazio che tu prometti di abitare. E che io possa imparare a perdonare, ma non tanto per diventare migliore, che buono non lo sarò mai, ma per non impedirti di camminare nel giardino delle nostre umane miserie.

“Non abbandonarci alla tentazione” di credere che tutto si giochi qui, qui è solo esodo, passaggio, qui è Calvario, luogo buono per piantarci una croce capace di strappare il velo del tempo e dello spazio, non abbandonarmi alla tentazione di credere solo a quello che vedo, non abbandonarmi alla tentazione di credere a occhi incapaci di contemplazione. Non abbandonarmi alla tentazione di credere che la preghiera sia la vita finalmente ordinata, che sia colorare stando nei bordi, che serva una bella calligrafia e una dizione perfetta. Liberami dalla tentazione della perfezione liturgica, liberami dalla buona educazione, liberami dalla nostalgia delle preghiere gioiose dei tempi dell’adolescenza, liberami dalla malinconia che mi prende quando non trovo più le coinvolgenti liturgie dei tempi del seminario… dammi parole povere e silenzi ancora più scarni e che non mi basti mai.

Comincerò a pregare bussando alla tua porta da disperato, e da affamato, ti prenderò per disperazione. Molesto sarà il mio obbligarti per un pane. Chiederò urlando, cercherò sfinendoti, busserò fino a sfondare la tua resistenza. Sarò disperato d’amore, affamato, mendicante, sfrontato…e forse capirò solo in quel momento, che a pregare così non sono mai stato io, che sei tu quello che mi cerca, che bussa, che chiede, che implora il mio sì. Sei tu il Dio maleducato e innamorato, sei tu il morto d’amore per me. E mi commuoverò, e finalmente sarò preghiera.

AUTORE: don Alessandro Dehò

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