Don Lucio D’Abbraccio
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Va’ e anche tu fa’ così!
Nel Vangelo odierno abbiamo ascoltato che un dottore della Legge, volendo mettere alla prova Gesù, lo interroga ponendogli una domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù non polemizza, ma fa dare al suo interlocutore la risposta giusta: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Il dottore della Legge fornisce una risposta ineccepibile, citando due passi della Torah: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Si tratta di un precetto che non va commentato, va vissuto!
Ecco perché Gesù ribatte: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai», ossia, avrai la vita eterna. Ma costui, invece di accogliere l’invito a vivere la verità che già conosceva, e che Gesù gli ha confermato, volendo giustificarsi, pone un’altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». Il prossimo per gli ebrei comprende gli appartenenti al popolo d’Israele. Con questa domanda è come se il dottore della Legge avesse voluto chiedere a Gesù: «Chi deve essere oggetto del mio amore? I connazionali? I fratelli nella fede? Chi?».
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Ecco allora che il Signore risponde a quest’uomo raccontandogli la parabola nota come «parabola del buon samaritano». Mentre un uomo scende da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti, che lo derubano e lo lasciano mezzo morto sul ciglio della strada. Accanto a lui passano un sacerdote e un levita, «uomini religiosi, di chiesa», che conoscono bene la Legge, servono Dio nel tempio, insegnano a distinguere il bene dal male, ma considerano la purità legale più importante della vita di un fratello.
Non si fanno prossimo di nessuno e sono chiusi nel loro ruolo, incapaci di provare compassione, misericordia e amore. Costoro si guardano bene dal fermarsi, dall’avvicinarsi al disgraziato in pericolo di vita, fingono di non vederlo. Il levita e il sacerdote sono lontani dal fratello tanto quanto lo sono da Dio! Su quella strada passa poi un samaritano, il «nemico» religioso per i giudei, il credente scismatico ed eretico, colui che è disprezzato da tutti.
Quest’uomo sicuramente avrà avuto i suoi impegni, le sue convinzioni ma, di fronte a un uomo ferito, mette tutto da parte. Egli si avvicina all’uomo «mezzo morto», si fa prossimo a chi è nel bisogno, prendendosi cura di lui: gli medica le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura e lo conduce a una locanda dove dà istruzioni all’albergatore, impegnandosi a pagare le spese del suo soggiorno.
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Al termine della parabola Gesù pone al dottore della Legge la domanda cruciale: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». L’altro risponde: «Chi ha avuto compassione di lui». E Gesù gli dice: «Va’ e anche tu fa’ così». In tal modo lo rinvia alla sua responsabilità, indicandogli che cosa occorre fare per ereditare la vita eterna: non solo provare misericordia, ma fare misericordia verso chi si incontra lungo le strade della vita, lasciandosi toccare dal suo bisogno.
Questo vale anche per noi, nella nostra quotidianità. Non dobbiamo chiederci: «Chi è il mio prossimo?», bensì «A chi io mi faccio prossimo, a chi mi faccio vicino?». Possiamo infatti trascorrere un’intera esistenza accanto ad altre persone senza mai decidere di incontrarle e di prenderci cura della loro sofferenza, cioè di con-soffrire con loro.
Gesù ci ha chiesto di vivere un amore fattivo, concreto, reale, dopo averci preceduto lui stesso in questo cammino. È lui infatti, secondo l’interpretazione dei padri della chiesa, il buon samaritano che, spinto dalla com-passione, si è fatto vicino all’umanità prostrata e ferita; è lui che con tutta la sua esistenza ci ha narrato le viscere di misericordia del Padre (cf Lc 6, 36); è lui che ancora oggi, dopo la sua morte e risurrezione, dice a ciascuno di noi: «Prenditi cura del fratello e io ti ricompenserò al mio ritorno».