Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 3 Luglio 2022

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La missione come lotta interiore

Il testo evangelico odierno presenta le disposizioni che Gesù dà ai discepoli inviandoli in missione (Lc 10,1-12) e le parole che rivolge loro una volta ritornati dalla missione stessa (Lc 10,17-20). Il testo ha dunque una valenza ecclesiologica in quanto riguarda la missione e la presenza della chiesa tra gli uomini, tuttavia, se si tiene conto del fatto che il messaggio che Gesù, tramite i discepoli, fa giungere alle città e ai villaggi nei quali si sarebbe recato nel suo cammino verso Gerusalemme, è annuncio di pace e proclamazione che il regno di Dio si è fatto vicino, comprendiamo che il testo ha una portata cristologica fondamentale. Pace Regno di Dio, infatti, si manifestano in Gesù stesso.

Il testo contiene un ricco insegnamento sulla missione che si aggiunge e, per certi versi si sovrappone, a quello riportato in Lc 9,1-6. In Lc 9, nel primo invio in missione, sono inviati i Dodici, numero che evoca le dodici tribù di Israele e sembra eco di una missione che prioritariamente deve rivolgersi ad Israele. In Lc 10, invece, sono inviati settanta (o settantadue) discepoli. La cifra “settanta”, secondo Gen 10 e tutta la tradizione biblica, indica la totalità delle popolazioni della terra: così sarebbe evocata la dimensione universale della missione che per altro i discepoli inizieranno solo a partire dalla Pentecoste (At 2,1ss.). Ora, ancor prima di esaminare le parole di Gesù, vale la pena di rilevare i due angoli prospettici o punti di vista da cui è possibile leggere queste parole. Il primo punto di vista è quello di Gesù, di colui che formula tali disposizioni. Gesù parla all’imperativo e al futuro. Egli distacca fisicamente da sé i suoi discepoli: “Andate” (10,3), ma li unisce a sé nell’esperienza di fede dell’annuncio del Regno. Quell’annuncio che è sempre stato il centro del suo messaggio. E Gesù prevede ciò che avverrà. Soprattutto dà disposizioni grazie alle quali i discepoli potranno guardarsi da se stessi e vincere se stessi.

Egli conosce la meschinità dei discepoli cui pure fa fiducia inviandoli in missione. Sa che potranno fare della missione il luogo delle loro pretese, che potranno trasformarla in un viaggio di piacere, pervertirla in un privilegio. Essi potranno ridurre la grandezza della predicazione del Regno di Dio alla piccolezza della ricerca di piccoli agi e comodità e allora dice loro: “Mangiate quel che vi vien messo davanti, non passate di casa in casa” (cf. 10,8). Sa che saranno tentati dall’egoismo, dal fare della missione la loro impresa personale, individualistica, e li manda a due a due (10,1); sa che saranno tentati di aggressività, proselitismo, violenza e li manda come pecore in mezzo a lupi (10,3); sa che saranno tentati di accumulare, di premunirsi per il futuro, e dice loro di non prendere borsa né bisaccia (10,4); sa che saranno tentati di trasformare l’annuncio del Regno in opera filantropica di portare soldi, cibo e abiti e dice loro di non portare, nemmeno per se stessi, né cibo né soldi né sandali né due tuniche (9,3; 10,4); sa che saranno tentati di distrarsi, di dissiparsi in chiacchiere e relazioni futili, e dice loro di nemmeno fermarsi a salutare lungo la via (10,4). Chiede loro di bruciare le parole cortesi per non ritardare l’annuncio urgente del Regno. Sa che saranno tentati di farsi servire invece di servire e dice loro di curare i malati, di dare pace e diffondere benedizione (10,5.9); sa che saranno tentati di ritorsioni e ripicche verso chi non li accoglie e dice loro di lasciare a Dio il giudizio e di ribadire l’annuncio che il Regno è vicinissimo (10,10-12).

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Inviandoli in missione è come se li inviasse a una lotta contro se stessi, contro la parte peggiore di sé, che forse sarà più tentata di mostrarsi una volta che ci sia distanza dal loro maestro. E non a caso, quando i discepoli tornano, pieni di gioia per il successo della missione, non ne parlano nei termini di conversione, di evangelizzazione, di adesione di tanti alla fede, ma di esorcismo. “Anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (10,17). Che non significa solo che hanno saputo liberare persone che erano sotto il potere del maligno, ma anzitutto che hanno saputo vincere il maligno in se stessi, su se stessi, hanno saputo vincere le tentazioni da cui Gesù li ha messi in guardia. Tanto che Gesù dice loro: “Vi ho dato potere di calpestare le potenze del male: niente vi nuocerà” (cf. 10,19). Niente potrà farvi del male: nihil vobis nocebit.

Ecco allora il secondo punto di vista da cui leggere queste disposizioni. Quello di chi le riceve: i discepoli. Che possono cogliere queste parole come un mandato. Forse non ne sanno cogliere la portata e il significato, probabilmente non capiscono il perché di certe parole e indicazioni di Gesù. Probabilmente alcune di queste sembreranno loro stravaganti, esagerate, oppure dettagli insignificanti, cose irrilevanti, poco spirituali, e tuttavia, almeno in questo caso, essi le osservano cogliendole come mandato: cioè come atto di fiducia che li responsabilizza, che fa scaturire le energie per compiere ciò che solo la forza del Signore può compiere. “Io vi ho dato potere”: Ego dedi vobis potestatem. Questo potere abiterà in voi a misura che crederete e starete attaccati a queste poche parole, a questi appigli di salvezza. Che vi salvano da voi stessi. Avrete questo potere a misura del vostro ascolto e della vostra obbedienza. Della vostra fiducia. Della vostra fede. Del vostro credere all’amore di chi vi ha dato tale mandato. Amore che vede la vostra miseria e crede alla vostra capacità di vincere il male in voi stessi.

I discepoli sono inviati per preparare la strada a Gesù: la missione è ancillare nei confronti del Signore, è annuncio e preparazione della sua venuta. Per questo i discepoli sono inviati a due a due: perché la loro comunione e fraternità è già annuncio del Regno, perché il Vangelo, che nell’amore trova il suo centro, è testimoniato adeguatamente da vite in relazione, da uomini che si aiutano e sostengono vicendevolmente, da persone che, vincendo le antipatie e le inimicizie, cercano di accogliersi, rispettarsi, volersi bene. Gli inviati poi, sono pochi rispetto alla smisuratezza delle messe (10,2), sono dotati di pochi mezzi e di ancor meno certezze: povertà, minoranza, precarietà non sono deprecabili ostacoli che impediscono l’efficacia della missione, ma sono le condizioni poste da Gesù per la missione evangelica. La povertà degli inviati deve far risaltare il fatto che la missione è svolta dalla persona nella sua interezza. Non basta avere pochi mezzi, occorre essere poveri, non basta proclamare il Regno di Dio, occorre essere uomini di Dio, non basta annunciare la pace, occorre essere operatori di pace. Così gli inviati possono davvero essere “agnelli” (Lc 10,3) che seguono l’Agnello, Gesù Cristo. La missione, infatti, non è altra cosa rispetto alla sequela, non è una realtà a parte, ma ha senso proprio e solo come sequela Christi. In questo affidamento radicale al suo Signore, l’inviato potrà sperimentare la protezione che il Signore gli accorda: “Nulla potrà farvi del male” (Lc 10,19). Inviato in mezzo a lupi, senza alcuna assicurazione del successo della sua missione, anzi, essendo stato prevenuto dal Signore sulla possibile non accoglienza (cf. Lc 10,10), l’inviato potrà tuttavia conoscere in queste tribolazioni la certezza di fede di essere sulle tracce del Signore che conobbe la non accoglienza, il rifiuto, e non vi si ribellò. Come il suo Signore, l’inviato cristiano è chiamato ad accogliere la non accoglienza che gli uomini possono riservargli e ad annunciare a tutti che il Regno di Dio è vicino.

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La povertà e inermità dell’inviato sono anche il luogo in cui può manifestarsi la potenza dello Spirito di Dio: “I demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Lc 10,17). Vi è una forza straordinaria nell’estrema povertà, nel rifuggire tutto ciò che è potere e protagonismo da parte dell’inviato di Cristo: anzitutto perché sempre la potenza di Dio si manifesta nella debolezza del credente, ma anche perché la piccolezza degli inviati viene sentita dai destinatari della missione come non minacciosa e perciò crea fiducia e rende possibile il miracolo dell’incontro tra diversi, tra lontani, che grazie proprio alla povertà possono avvicinarsi gli uni agli altri senza diffidenze e timori. La povertà, la mitezza, l’inermità sono fondamentali per la missione cristiana.

Proprio per questo Gesù invia uomini senza denaro, senza provviste di cibo, senza umane sicurezze, “spogli”: ciò che devono portare e visibilizzare nella loro persona, nel loro corpo e nelle loro relazioni è l’annuncio della vicinanza del Regno e dunque la necessità della conversione. La povertà degli inviati è segno e testimonianza credibile di un Regno che essi stessi attendono come vitale. E questo atteggiamento dice la verità del loro annuncio.

A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose