Commento al Vangelo di domenica 29 Maggio 2022 – Comunità Kairos

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La liturgia domenicale di questa settimana celebra la festa dell’Ascensione, evento pasquale che l’evangelista Luca racconta nel suo Vangelo come evento finale della vita di Gesù di Nazaret (Lc 24,46- 53) e negli Atti degli apostoli come evento iniziale della vita della Chiesa (At 1,1-11), brano della Prima Lettura.

L’episodio dell’Ascensione, descritto soltanto negli ultimi tre versetti del brano (vv.50-53), è un commiato che avverrà solo ad una condizione, il cuore di tutto il cap. 24: riconoscere il Risorto tramite le Scritture per annunciarlo fino ai confini della terra. È questo l’annuncio della Chiesa a cui i discepoli devono credere per portare avanti la missione di Gesù ed essere testimoni dell’universalità della salvezza. L’evangelista Luca ci dice chiaramente in tutto il Vangelo, ma in particolare nel cap. 24, che il

Risorto si può riconoscere solo tramite l’intelligenza delle Scritture: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza

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delle Scritture” (v.45) e per questo il brano si apre ai vv.46-49 proprio con un riferimento alle Scritture. Pertanto, lo scopo di Luca, che scrive ai cristiani che non hanno conosciuto Gesù, come noi, è quello di invitarci all’ascolto della Parola, perché solo nella Parola possiamo riconoscere Gesù Risorto e dare testimonianza agli altri dell’annuncio pasquale. Le donne al sepolcro, i due discepoli di Emmaus e tutti i discepoli non hanno un vantaggio rispetto a noi. E Luca tiene a sottolineare che anche loro, come noi, hanno avuto bisogno delle Scritture per credere. I discepoli devono dunque credere al Cristo risorto e a nulla vale il fatto che essi hanno già sperimentato un incontro reale e non illusorio con Gesù che addirittura mangerà davanti a loro (Lc 24, 36-43). La loro incredulità rimane e vale anche per loro quanto lo stesso Luca scrive in 16,31: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”.

Come superare quindi tale incredulità? È necessaria la lectio divina del giorno di Pasqua (vv.44- 47) fatta da Gesù stesso, il grande ermeneuta delle Scritture che spalanca la mente dei suoi discepoli per comprendere le Scritture. Grazie a questa rilettura della Scrittura in chiave cristologica i discepoli crederanno e dopo la Pentecoste lo Spirito permetterà loro di rifare ogni volta, in mezzo agli uomini, il medesimo gesto interpretativo. Gesù, dunque, propone come “sta scritto” (v.46) la sua interpretazione delle Scritture e ribadisce ciò che spesso aveva annunciato ma senza essere compreso pienamente: doveva accadere che Egli soffrisse e morisse per poi risuscitare il terzo giorno affinché si compissero le Scritture e si realizzasse la volontà del Padre di salvare l’umanità dalla morte e dal male. Solo grazie a questa rilettura interpretante delle Scritture i discepoli saranno nelle condizioni di svolgere il loro compito: predicare la conversione e il perdono dei peccati a tutte le genti. I discepoli, poiché hanno seguito e ascoltato Gesù, sono perciò “testimoni”, non solo per quanto hanno “imparato” dal suo insegnamento ma soprattutto per quanto hanno “vissuto” (Lc 1,2).

Gesù conduce i discepoli a prendere coscienza del fatto che l’esperienza pasquale è universale e li costituisce quindi testimoni della grazia di Dio: “Di questo voi siete testimoni” (v.48). Per essere testimoni non occorre però “guardare il cielo”: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che è stato di tra voi assunto fino al cielo, verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11). Essere testimoni vuol dire ricordare i passi e le azioni compiute da Gesù che ci indicano la via da percorrere senza “fughe” dal mondo e dalla storia.

L’annuncio del Risorto verte sull’invito alla conversione e sul perdono dei peccati. Quest’ultimo è un dono che non necessariamente segue la conversione, aspetto messo particolarmente in risalto da Luca nell’episodio del padre misericordioso che accoglie il figlio perduto ancor prima che egli possa convertirsi (Lc 15, 11-32). La salvezza è per tutti, è universale e lo vediamo ancora con Pietro che afferma: “Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita” (At 11,18).

La predicazione a tutte le genti, la conversione e il perdono dei peccati devono cominciare da Gerusalemme, simbolo di Israele, luogo dove si realizza la salvezza secondo la promessa biblica (Is 40,1- 2; 48,2; 65,19) e luogo dove i discepoli devono restare fino al giorno del compimento della “promessa del Padre”. Da Gerusalemme, dalle “proprie città” il messaggio universale di salvezza deve però andare a tutti i popoli, verso gli estremi confini, verso le “periferie”, meta di quella “Chiesa in uscita”, “che sa fare il primo passo, che sa prendere l’iniziativa senza paura, per andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva” (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, I, 20-24, 2013).

L’ultima parola di Gesù è l’annuncio di una promessa (v.49): “Ed ecco, io mando la promessa del Padre mio su di voi” […], si tratta chiaramente del dono dello Spirito Santo che verrà effuso il giorno di Pentecoste (At 2,1-11).

Il Vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù che conduce i suoi discepoli verso Betania e, “alzate le mani, li benedisse” (v.50). Gesù benedice i discepoli prima di lasciarli e di ascendere al cielo, benedice la Chiesa nascente, il popolo della nuova alleanza, come riportato anche in At 3, 26: “Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione perché ciascuno si converta dalle sue iniquità”. La benedizione di Gesù, da una parte conclude la sua missione storica e dall’altra apre il futuro mandato della Chiesa.

“Ed essi si prostrarono davanti a lui” (v.52), i discepoli si mettono ad adorare Gesù, con l’Ascensione inizia la preghiera incessante verso il Signore Gesù. “Poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (v.53). Ed ecco lo spazio alla gioia, non c’è più spazio per il senso di abbandono o per il lutto, i discepoli hanno preso consapevolezza che il loro Maestro non appartiene più alla sfera dei morti, è vivente, fuori dalla dimensione del tempo, resta per sempre in comunione con Dio e presente in mezzo a noi attraverso lo Spirito Santo. La gioia dei discepoli è pertanto la nostra stessa gioia, nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. E questa è la ragione permanente della gioia cristiana.

L’azione finale di lode da parte dei discepoli (“e stavano sempre nel tempio lodando Dio”) è la nuova condizione della comunità dei credenti, nell’attesa del ritorno ultimo e definitivo di Gesù di Nazaret, la cui Ascensione ci riguarda dunque da vicino poiché evoca la nostra assunzione tra le braccia misericordiose del Padre.

“Gesù torna al Padre benedicendo, e i discepoli benedicono a loro volta Dio; il grande movimento circolare della benedizione è stato innescato…a noi il compito di non fermarlo, non solo con le nostre parole, ma soprattutto con il nostro agire”. (Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Ed. Qiqaion, 2015).

Commento a cura di Luigi Comunità Kairos


Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay