Il comandamento di oggi – “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” – insieme al comandamento che precede nel testo di Giovanni – “rimanete nel mio amore” – sono due pilastri centrali delle nostre scelte vitali.
Ciò che risulta chiaro da subito è lo stravolgimento delle nostre categorie di pensiero e decisionali. L’amore del prossimo, l’amarci gli uni gli altri, non è una dimensione secondaria da mettere in atto alla bisogna, nei momenti di eccezione, nei momenti in cui c’è veramente bisogno.
L’amarci gli uni gli altri è lo scopo del nostro esistere e del nostro relazionarci. Noi non siamo chiamati a discutere amandoci, dove l’azione principale è il discutere. Noi non siamo chiamati a confrontarci amandoci, dove l’azione principale è il confrontarci. Noi non siamo neppure chiamati a relazionarci con amore, dove il centro è dato dal relazionarci.
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No, tutto questo ci porta fuori strada e lo vediamo continuamente. La preghiera diventa un momento da vivere e da dare. L’incontro con la Parola diventa un momento una tantum. La carità è un’azione che mettiamo in atto, perché ci tocca e in momenti sempre più rari perché, sai, c’è la crisi.
Questa non è vita e non è vita secondo la sapienza di Dio.
Ciò a cui siamo chiamati non in seconda battuta, non come un condimento sulla pastasciutta o un dado per la minestra, è “amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati”, cioè: donando la vita per l’altro.
O l’azione principale della nostra vita è questa, o la motivazione per cui ci muoviamo a compiere qualsiasi tipo di azione è questa, oppure è tutta una buffonata.
Amo, per questo compio gesti di carità, prego, costruisco case, vado in ufficio, lavo i piatti, porto pazienza, curo un malato, divido l’eredità coi miei di casa eccetera eccetera.
Ma se compio dei gesti, di qualsiasi tipo essi siano, e poi cerco di condirli con l’amore, io compio un atto di travestimento e di mascheramento. Getto una maschera di cristianità sui miei gesti che risultano falsi e non vitali, che risulteranno costretti e non liberi.
L’unico comando che ci deve preoccupare è il rimanere nell’amore Trinitario per amare come la Trinità ha amato donando se stessa in Gesù che è morto per noi. Che poi abbia fatto miracoli, abbia predicato, abbia annunciato, abbia camminato, sia stato in compagnia: tutto questo non conta, tutto questo è secondario. Vale a dire che viene dopo. È come la caduta di una cascata: c’è ed avviene perché sopra c’è una sorgente. E la sorgente è questa: dare la vita per i propri fratelli, amarci come Lui ci ha amati, essere liberi nella gioia.
Le azioni che poi compiamo e dove le compiamo, poco interessa.
Questo è uno stravolgimento del nostro modo di pensare e di agire, ma è giusto e bello che lo sia. Non è importante se io compio una bella opera magari da lasciare ai posteri: un po’ di cemento e un muro che si sgretolerà col tempo e che abbandonerà la memoria degli smemorati nostri contemporanei in men che non si dica.
Se vivi di amore e per amore, quello non si perde. Quello si inficca nel cuore dei fratelli e, soprattutto, nel cuore di Dio. La memoria di questo amore diventa memoriale, diventa messa, diventa vita, corpo donato per gli altri: qui possiamo riscoprire la gioia del rimanere nell’amore.
Gesù ci chiama amici e non servi, perché ci fa conoscere il suo pensiero e il pensiero della Trinità. Gesù ci chiama amici e non servi, perché sappiamo cosa fa Lui e non ci nasconde nulla. Noi siamo amici di Dio perché sappiamo che Gesù da ricco che era si è fatto povero e ha donato la sua vita per noi quando ancora eravamo peccatori: vale a dire oggi! Nella piccolezza di questa sapienza, tanto stolta per il nostro modo di pensare, noi siamo chiamati a ritrovare il centro della nostra esistenza, delle nostre scelte.
Ama e fa’ ciò che vuoi! Mais nada.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM