don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 27 Marzo 2022

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Si vince e si perde (sempre) in due

Chissà quante volte – dall’aula bunker della sua cameretta, iperconnesso– avrà gridato forte in modo che tutti gli inquilini lo sentissero: “Questa casa è una galera!” Frase che, forse, avrà provocato l’eco d’una risposta: “Questa casa non è un albergo!” Tra una prigione e un albergo si è giocata la vita di una famigliola in apparenza senz’alcun attrito, forse pure invidiata: una siepe alta tutt’attorno, la servitù, i vitelli grassi, i sandali e i bei vestiti. Passando, beati loro!: sempre la stessa storia, quella dell’erba del vicino. Che è sempre più verde della tua, salvo poi scoprire, magari, ch’è sintetica. Nessun agio, comunque, riuscirà mai a compensare il lusso della libertà: “Non ne posso più di un padre-padrone: me la caverò da solo!” Fu così che, quel giovane, «partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo da dissoluto». Senza padre né legami: è il benvenuto alla solitudine. Onore al merito, comunque andrà a finire: il tentativo di vivere da protagonista assoluto della propria storia è pur sempre un tentativo.

Se il padre gli avesse detto no – “Non se ne parla! Qui comando io e finchè sono vivo io non si divide nulla!” – il figliocapriccio non avrebbe mai conosciuto il prezzo della libertà, l’ustione della libertà. Assecondando la richiesta, invece, il padre lo mette nella condizione ideale per scoprire che, recise le radici, del suo destino non importa più un fico secco a nessuno: «Nessuno gli dava nulla». Le prostitute, finchè ha soldi, gli offrono una carne; ma, alla fine, manco le carrube riesce a farsi regalare. Meno dei maiali il mondo valuta la sua presenza sfinita, libera da tutti ma prigioniera di un isolamento inaspettato.

Da lontano era tutto bello, l’erba era verdissima: da vicino è tutto scortese, straniero, e l’erba è pure sintetica. Non che l’altro figlio, il figliosobrio, se la spassi meglio: senza rendersi conto di ciò che ha – «Tutto ciò che è mio è tuo» – nemmeno lui sa che cosa sia la libertà. Cristo, profeta di libertà, sembra ammonire ad ogni piè sospinto che la cosa peggiore non è perdere la libertà: eventualmente, scontata una pena, la si potrà sempre riconquistare. La cosa più meschina è averla sempre addosso ma non saperla apprezzare, non essere capaci d’amarla. Viaggiare con lei addosso e non accorgersi di quant’è bella solo perchè l’abbiamo sempre avuta con noi.

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Pare buffo, ma il figliocapriccio inizia ad amarla quando, sentendosi dire di sì dal padre, la getta alle ortiche con le sue mani. Ha sperperato tutto, eccetto la chiave d’ingresso di casa sua: «(Andrò da) mio padre». Tutto si è fatto maceria, e quando tutto diventa materia fiuta l’unica cosa rimasta viva sotto le macerie: la memoria di papà, la magia di quello spazio dove ti senti al sicuro anche quando è buio pesto. Quando ha tutto ciò che sognava d’avere, scopre di desiderare ciò che aveva già avuto gratis, appena nato. Non si accontenta più di fare ciò che vuole: s’accorge che, senza qualcuno al quale appartenere, non è poi così bello vivere come pareva. Rifiutando papà, s’è perso per strada: è un orfanello con il padre vivo. Che, appoggiato alla finestra, è stato assunto per svolgere il lavoro più massacrante per un padre: aspettare, sostare in attesa.

Sperare che torni perchè se il figlio fallisce, fallirà anche il padre: a casa si vince e si perde in due.
Alla finestra – non a letto – il papà medita sul suo destino di padre: “Se lui non torna, sono perduto anch’io: allevandolo, ho appeso il mio destino di padre alla sua libertà”. Il destino del padre dipende sempre dalla libertà del figlio: per questo non esiste avventuriero più grande d’un padre e d’una madre oggi.

Tutto è loro contro, a tutto vanno incontro, tutto mettono in conto, anche la possibilità più rischiosa: che il figlio, in nome della libertà, non torni più. Oppure che resti e viva senz’accorgersi di com’è bello vivere da figli che appartengono a qualcuno: liberi d’andare e venire senza subire dieci milioni di domande umilianti. Se Dio è un papà così, chissà da chi ha preso quella Chiesa che si diverte a rimarcare la stagione delle prostitute e dei maiali, senz’accorgersi che il figlio è tornato a casa.

Commento a cura di don Marco Pozza
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