Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 27 Febbraio 2022

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Non lasciamoci offuscare da antipatie e pregiudizi che ci impediscono di riconoscere il fratello

Quando leggiamo della trave davanti all’occhio da rimuovere per poter vedere la pagliuzza altrui, pensiamo generalmente alla necessità di eliminare prima il nostro peccato – grande come una trave – per togliere la pagliuzza altrui. Questo tema, però, è preceduto dall’esordio sulla capacità di vedere e la cecità da cui è necessario guarire: «Può forse un cieco guidare un altro cieco?» (Lc 6,39).

Gesù dirà ai farisei nella discussione riguardo alla guarigione del cieco nato: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,41). La colpa dunque non è essere ciechi: la colpa è ritenersi in grado di vedere quando, invece, la realtà testimonia l’esatto contrario.

Questo è il problema di tanti cristiani, magari praticanti che, proprio in virtù della pratica, ritengono di poter guardare gli altri dall’alto in basso. Non è la pratica che rimuove la trave dall’occhio, bensì è il pianto amaro sulle proprie povertà: come il pianto di Davide riguardo al peccato verso Uria, o il pianto di Pietro sul suo tradimento. Gesù si rivolge ai giusti che credono di vedere e che invece sono più ciechi degli altri; mi credo vedente, ma il peccato resta lì, non è tolto, non è stato rimesso.

Gli occhi si aprono solo con l’esperienza del perdono dei peccati, altrimenti siamo guide cieche che portano le persone nel fosso del moralismo. Solo la misericordia guarisce l’uomo dal vero buio che è non conoscere l’amore.

Va anche notato che la pagliuzza è un oggetto naturale – può essere identificato con un filo d’erba rinsecchito oppure un fastidiosissimo ciglio finito sulla cornea – mentre una trave è certamente un oggetto artificiale, frutto di lavoro artigianale. Vediamo dunque che i due oggetti non hanno nulla in comune se non quello di trovarsi entrambi davanti a un occhio. Dunque sono oggetti che impediscono di vedere la realtà delle cose per come è; impediscono di percepire il reale nella sua verità.

Nello specifico la trave, in quanto oggetto artificiale, può simboleggiare le artificiosità mentali, i pregiudizi, le cecità emotive che ci impediscono di vedere l’altro nella sua verità, mostrandocelo viziato dai nostri schemi, dalle antipatie, dalle invidie e dalle concupiscenze proprie di uno sguardo non redento. La trave è tutte queste cose insieme le quali, finché non scompaiono, impediscono di vedere l’altro come fratello.

È lo sguardo che deve essere guarito e redento, per far sì che l’uomo possa vedere le cose per come le vede Dio. Allora nelle persone che hanno sbagliato non si percepiranno più assassini, ladri, truffatori e criminali, ma figli e fratelli schiavi del peccato, vittime di ciò per cui Gesù è venuto a liberare l’uomo; si vedranno figli di Dio impediti di manifestare la bellezza e luminosità che ognuno di loro potenzialmente può esprimere, se in comunione con Cristo.

Il gusto del biasimo altrui deriva sempre dalla cecità su se stessi, dal fatto che la lampada – il nostro occhio  – si trovi a essere tenebrosa (cfr Lc 11,34). La prima frase che Dio pronuncia nella Bibbia è: «Sia la luce!». Tutto comincia dal Padre che dà vita alle cose. Gesù è definito nel prologo di Giovanni: «La luce vera, quella che illumina ogni uomo». Senza di essa siamo nel buio.

Usiamo questa luce per ricordare quanta misericordia il Padre ha avuto con noi stessi: non siamo stati trattati secondo i nostri peccati, perché ogni parola insaporita dalla memoria della misericordia ricevuta, diventa veleno.


Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli