Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 20 Febbraio 2022

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DOMENICA «DELLE PRIME VOCAZIONI»

VII del Tempo per l’Anno C

Poco prima dell’inizio dell’era cristiana, un rabbino ebreo raccomandava: «Non fare agli altri quello che a te è sgradito. Tutta la legge sta qui, il resto non è che un commento» (Hillel). Gesù non si ferma a questo punto, ma ci chiama ad una trasformazione ben più profonda della nostra mentalità: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». Più nessuno, ormai, può essere escluso dal nostro amore, neppure i nemici dichiarati, neppure i persecutori.

La carità, dunque, non è assolutamente un amore facile, superficiale, subito soddisfatto di se stesso, oppure cavilloso e calcolatore. E non può essere confusa con un semplice atteggiamento di umana filantropia. Chi potrebbe pretendere di avere in sé la forza di rispondere all’odio con l’amore, alla maledizione con la benedizione, alla persecuzione con la preghiera? In queste parole dell’Evangelo affiora l’immagine di Gesù stesso, che mette in atto la misericordia divina perdonando sulla croce ai suoi carnefici: un amore disinteressato, gratuito, di una generosità senza limiti, non violento.

Si tratta davvero di amare senza misura! Amare l’altro semplicemente perché esiste, perché entra nella sala del banchetto, anche se io mi trovo ad essere una pietra calpestata da lui, come coloro che venivano sepolti nella cattedrali, il cui nome era presto cancellato dai passi della gente.

Amare gratuitamente, non con uno spirito avido che cerca di trarre profitto dalla bontà! Amare con gli occhi limpidi, non in base al bene e al male di cui non spetta a noi essere giudici, ma in base a ciò che ognuno porta dentro di sé di unico e in definitiva di salvato. Amare rinunciando ad avere sempre l’ultima parola, accettando il rischio di essere ingannati, sapendo perdonare senza condizioni e senza limiti. «Che la misericordia prevalga sempre sulla tua bilancia, fino al momento in cui sentirai dentro di te la misericordia che Dio prova nei confronti del mondo» (Isacco il Siro).

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 12,6

Confido, Signore, nella tua misericordia,

Gioisca il mio cuore nella tua salvezza,

canti al Signore che mi ha beneficato.

Come l’orante nell’Antif. d’ingresso (Sal 12,6a-c, SI) s’impegna a cantare l’azione di grazie e la lode al Signore, sempre largo nel donare i suoi beni (9,15; 118,17), allora come adesso anche noi speriamo sempre nella divina Misericordia, affinché la nostra esistenza esulti nella salvezza di cui Egli è ricco come esultò per il salmista.

Canto all’Evangelo Gv 13,34

Alleluia, alleluia.

Vi dò un comandamento nuovo, dice il Signore:

che vi amiate a vicenda, come io ho amato voi.

Alleluia.

Questo testo ha la funzione di far risaltare il tema principale del giorno, orientandolo verso il punto ritenuto centrale. E questo è individuato nel «precetto nuovo», l’amore fraterno motivato però non dall’egoismo della carne o del gruppo, bensì dall’amore fontale e causale del Signore per i suoi.

A immediato seguito della lettura di domenica scorsa, l’Evangelo offre il succo del «Discorso della pianura». Dopo i quattro «Guai!» contro i ricchi, seguiti dall’annuncio della salvezza ai poveri, le beatitudini (Lc 6,20-23), ora il discorso riprende il contatto con i discepoli, i destinatari dell’insegnamento di Gesù per proporre l’esigenza fondamentale di un amore totalitario e incondizionato a tutti. Una pagina densa e sfrondata dall’evangelista Luca dalle antitesi con l’insegnamento dei rabbini a benefìcio dei suoi lettori provenienti dal paganesimo. II tema del perdono e dell’amore domina la liturgia della Parola di questa Domenica; un lungo ed interrotto canto dell’amore e del perdono che si orienta verso una delle frontiere più difficili da varcare, quella dell’amore dei nemici.

È questo infatti l’atteggiamento di Dio che, come si dice nel salmo responsoriale «perdona tutte le tue colpe e non ci tratta secondo i nostri peccati» (Sal 102)

In Dio la giustizia è vinta dall’amore. La conquista di questa libertà dello spirito è fatta balenare anche nella prima lettura, nel celebre episodio del deserto di Zif in cui Davide, pur avendo tra le mani il suo avversario, sceglie la via del perdono. Il comportamento di Davide è forse mitigato dalla fraterna amicizia con Gionata, figlio del re (Cfr. ad es. 2 Sam 1,25-26), tuttavia è un modello per ogni ebreo: come il grande re è stato generoso così anche tu devi essere pieno di misericordia: «il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà» (1 Sam 26,23). Bellissima è, al riguardo, una riflessione sviluppata dal libro della Sapienza (Cfr. Sap 11,23-24a; 12,18-19).

I lettura:  1 Sam 26,2.7-9.12-13.22-23

Il contesto dell’episodio narrato dalla I lettura è uno dei punti più tragici del recente regno unito d’Israele. Il popolo vuole «un re come gli altri popoli» con i loro regimi tirannici, che portano alla rovina. Il popolo non reputa più che il suo Signore, il suo unico Re divino, che lo ha creato come popolo, sia sufficiente per la sua sopravvivenza. Il cap. 8 del libro 1 di Samuele descrive questa lacerazione.

Il Signore è irritato con il suo popolo che Lo rigetta come Sovrano unico, tuttavia concede a Samuele, allora Giudice del popolo, unico moderatore e capo, oltre che sacerdote e profeta, di ungere un re per Israele. Non senza il grave avvertimento, che «un re» sopra il popolo sarà solo un tiranno, un succhiatore di sangue, uno sperperatore di risorse e di energie, sfruttando indegnamente la grande massa dei suoi sudditi indifesi (vedi in specie i vv. 7-18). E se poi il popolo trovandosi nella rovina griderà al Signore, il Signore non lo ascolterà (v. 18). Samuele perciò consacra un uomo scelto, integro e valoroso, Shaul ben-Qish, della tribù di Beniamino (cap. 9-10), il quale lotta vittoriosamente contro gli Ammoniti e i Filistei (11,1 – 13,7). Ma Saul commette l’errore gravissimo di offrire l’olocausto al Signore senza Samuele, il sacerdote (13, 8-12). Il quale subito gli contesta che il Signore ha scelto un altro re (13,13-15). Saul seguita a vincere Filistei, Amaleciti e altri nemici (14,1 – 15,8), ma risparmia il re amalecita Agag. Lo assassina di sua mano Samuele (brutto episodio per un «servo di Dio»), il quale contesta di nuovo a Saul la sua decadenza da re (15,9-35) e unge David come re d’Israele (16,1-13). Comincia la tragedia.

Saul, benché abbia concesso sua figlia Mikol per sposa a David, lo perseguita per gelosia, non rassegnandosi (16,14 in poi), in molti episodi di caccia all’uomo. David risparmia Saul, giuntogli a tiro, la prima volta nella caverna di Adullam (22,1-5), poi nella caverna di Engaddi (24,1-23). Adesso, simbolicamente per la terza volta, mostra di nuovo la sua misericordia verso Saul, perché lo considera sempre come l’«unto del Signore».

Saul quindi con la sua guardia scelta investe David, rifugiatosi con i suoi guerriglieri nell’orrido deserto di Sif, a occidente del Mar Morto (v. 2). David con il fido Abisai fa un’incursione, di notte, nello stesso accampamento reale. Entrano nella tenda di Saul che dorme, con la lancia simbolo del potere regale infissa per terra, mentre la guardia del corpo dorme senza avere disposto le sentinelle, tanta è la sicurezza ostentata (v. 7). Abisai si offre di trafiggere Saul, e liquidare la questione, data l’occasione così facile (v. 8). Ma David lo redarguisce: chi attenterà all’«unto del Signore» senza colpa mortale? (v. 9; anche 11,16. 23; 24,7.11). Si contenta, mentre il Signore aveva versato il «sonno» sull’accampamento, di prelevare i simboli regali, la lancia e la coppa personale del re (v. 12). Risalito con i suoi sulla cresta del monte sovrastante, a distanza di sicurezza (v. 13), David prima interpella Abner, il capo della guardia del corpo del re (vv. 14-16), poi Saul (vv. 17-21), che lo richiama a sé. Adesso David conclude con grande mitezza. La lancia è restituita in segno di devozione e di pacificazione (v. 22). Ma si appella al Signore, affinché retribuisca ciascuno «secondo la sua giustizia e fedeltà», come egli ha fatto: misericordioso verso il suo re e sempre fedele, dato che il Signore gli ha dato l’occasione della vendetta e però non volle «stendere la mano sull’unto del Signore» (v. 23).

Come tutti i grandi, ad esempio il divino Giulio Cesare, David è un generoso e magnanimo. L’episodio, da collegare con l’Evangelo di oggi, mostra come si debba «vincere con il bene il male» (Rom 12,21), con la medesima misericordia che mostra sempre il Signore a tutti i suoi figli. Resta, come abbiamo già osservato poco prima, per la teologia un problema grave: David omicida e adultero (2 Sam 11), non solo è perdonato, ma il Signore lo costituisce per sempre come la figura incancellabile del Re messianico e gli promette una discendenza eterna (2 Sam 7). Mentre Saul, benché implori, non ottiene remissione. Sul mistero della scelta imperscrutabile di Dio non resta che chinare la testa. La grande, tragica figura di Saul resterà nella sua imponenza e nel suo eroismo; e il teatro in seguito ne farà anche un personaggio di spicco, l’oggetto ripetuto di rievocazione senza esito.

La pagina evangelica è estremamente semplice ma anche terribilmente ostica al nostro egoismo e a una visione del mondo sempre più chiusa, prepotente, prevaricatrice. Le parole di Gesù operano un capovolgimento totale che fa impallidire il detto «occhio per occhio» (Cfr. Es 21,24s), la ferrea “legge del taglione”, una sorta di “giustizia” legalizzata che era già un passo avanti rispetto alla vendetta punitiva, senza misura alcuna (Cfr. Gen 4,23b-24). Si tratta di un amore divino (agape) e non di un amore umano; Gesù ne è consapevole, infatti fa pesare nella sua parola tutta la sua autorità e il suo mistero: «io vi dico».

L’insegnamento di Gesù non tende a ridurre i suoi discepoli a foglie morte in balia della tempesta della malizia, non assicura impunità agli aggressori e non spiana la via al banditismo; Gesù non enuncia la legge degli uomini, ma quella del suo regno, della quale autore e garante è soltanto Dio. La pericope è articolata in tre parti:

  1. 27-31 e comprende un appello, un commento e una regola generale conclusiva;
  2. 32-35 è modulata sul simbolo del prestito e conclusa da una promessa;
  3. 36-38 si aprono con un appello all’imitazione di Dio a cui segue una sequenza di impegni che rendono l’amore totale e incarnato in tutti i contesti di vita e si concludono con un’altra promessa.

In sinossi il capitolo 6 di Luca corrisponde, anche se in forma più breve e con differenze (Cfr. Lectio Dom VI per annum C), ai cc. 5-7 dell’Evangelo di Matteo, conosciuto come il «discorso della montagna».

Il testo dell’evangelista Luca è molto più breve, perché molta parte del «discorso» di Matteo riapparirà nella sezione lucana conosciuta come «grande inserto» (cc. 9-19), insieme a del materiale esclusivo su Gesù come le parabole del buon samaritano, del Padre misericordioso, del ricco epulone.

Mentre Matteo sceglie come cornice della predicazione di Gesù il «discorso [il suo Evangelo è appunto strutturato su cinque grandi discorsi: 1° della montagna (5,1-7,29); 2° di missione (9,35-11,1); 3° di parabole (13,1-52); ecclesiastico (18,1-357; 5° le invettive contro i farisei (23,1-367], il terzo evangelista preferisce distribuire la stessa predicazione nella cornice di un lungo viaggio che Gesù compie dalla Galilea a Gerusalemme.

Esaminiamo la pericope

27 – «A voi che mi ascoltate io dico»: è Gesù che parla con autorità e sì rivolge ai suoi discepoli, che già lo hanno scelto come Maestro e ora attendono la sua Parola.

«dico»: il verbo all’indicativo presente riprendere il discorso iniziato con “beati…” rivolto ai presenti e interrotto dai “guai…” rivolto ad assenti e sembra raggiungere tutti gli uomini fino a noi che ascoltiamo oggi!

«amate»: il verbo attivo imperativo presente è agapao; l’imperativo presente indica che l’amore qui comandato è una disposizione d’animo ininterrotta, continua, che quindi non ha bisogno di venir iniziata ex novo o di nuovo (come direbbe l’aoristo).

Il greco biblico conosce tre forme:

  1. attiva: il soggetto compie l’azione;
  2. media: il soggetto agisce secondo uno speciale interesse nei propri riguardi (esprime una sfumatura nel modo di agire);
  3. passiva: il soggetto subisce l’azione.

Nella Bibbia il verbo agapao è utilizzato prevalentemente per indicare l’amore di Dio verso gli uomini, un amore volontario e incondizionato; mentre per indicare l’amore fra gli uomini viene utilizzato il verbo fileo, che contiene una maggiore inclinazione di sentimento e di amicizia (Cfr. Gv 21,15-17).

«i vostri nemici»: questa regola scardina la legge del taglione e supera le rigide esigenze della giustizia. Amare chi sta dalla nostra parte è comprensibile, ma… i nemici! L’intuizione ancora esitante dell’AT è ora portata alle estreme conseguenze (leggi Es 23,4-5). Non si tratta di un amore ideale, fatto di vaghe e buone parole, ma di un amore che si deve manifestare con precisa concretezza.

Questo atteggiamento richiesto dal Signore viene successivamente precisato con altri tre verbi: fare del bene; benedire e pregare, e poi commentato da una serie di esempi folgoranti, intenzionalmente paradossali. La guancia, il mantello e il dono sono immagini emblematiche per esprimere un amore che non conosce frontiere e riserve.

«fate del bene»: poieite attivo imperativo presente: fare l’opposto di quello che vorrebbe l’odio (misein), continuare a fare il bene. Non per quello che fanno, ma nonostante e in risposta a quello che fanno.

28 – «benedite»: eulogeite attivo imperativo presente: continuate ad augurare il bene. Disposizione di grande importanza in quei tempi e in Oriente, dove si ritiene che una benedizione o una maledizione prenda corpo e consistenza per aderire o avvolgere il destinatario come una veste o una cintura.

«pregate»: pros-euchesthe medio imperativo presente: mentre l’imperativo pres. ordina di continuare una azione già iniziata, la forma media del verbo esprime una sfumatura nel modo di pregare. È come se dicesse “fatelo per il vostro interesse”.

Pregare Dio è sempre possibile ed è un’azione direttamente opposta a quella della calunnia (Cfr. v. 22): mentre infatti questa tende a mettere in cattiva luce presso gli uomini (che possono essere ingannati), l’altra influisce direttamente su Dio, che nel peccatore anche più riprovevole vede sempre un proprio figlio.

29-30 – Gli esempi chiarificatori sono tre e non vogliono certo esaurire la casistica o stabilire una formalità ma indicare un comportamento di fondo, una disposizione permanente dello spirito. L’intuizione ancora esitante dell’AT (leggi ad es. 23,4-5) è ora portata alle estreme conseguenze

«porgi»: par-eche attivo imperativo presente: anche qui l’imperativo presente ci dice che l’evangelista Luca intende sottolineare le disposizioni generali del cristiano, che non mutano con il mutare delle circostanze.

«l’altra guancia»: Le utilizza allos (= altro) che nel linguaggio classico indica un “altro fra molti” (lat alius); ellenisticamente può indicare un altro “fra due” (lat. alter). L’Evangelista conosce bene la distinzione tra fra allos (uno fra molti) ed eteros (uno fra due, come sarebbe in questo caso); ma l’averla ellenisticamente trascurata gli permette di sfruttare il senso più generale che assume l’affermazione, come se il cristiano non avesse due guance da presentare, ma un numero tale (allos) da far stancare e vincere in questo modo ogni violenza. Questo comportamento, se il porgere l’altra guancia dovesse esaurirsi nel prendere in santa pace gli schiaffi, potrebbe essere indice di paura, di vigliaccheria, di quieto vivere. Gesù stesso sarebbe in contraddizione con il suo insegnamento; infatti a chi lo schiaffeggiava durante il processo nel sinedrio Gesù reagì dicendo: «Se ho parlato male, mostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Cfr. Gv 18, 22-23). La mitezza di Cristo, in armonia col comportamento del “servo di JHWH” (Is 50,5-6), non esclude il tentativo di ridurre alla ragione il violento. La guancia offerta significa la rinuncia al proprio onore perché si stima il precetto dell’amore più del proprio interesse.

«ti leva il mantello»: nell’ambiente povero agricolo della Palestina il mantello è considerato come la “casa”; nella legge antica (Es 22,25-26): il mantello preso in pegno doveva essere restituito perché serviva da coperta per la notte. Togliere il mantello significava privare una persona di ciò che gli era particolarmente necessario e indispensabile.

«la tunica»: il mantello più esterno si può portare via, ma la tunica, aderente direttamente al corpo, non può essere tolta senza romperla se si fa resistenza: quindi per essa non si deve iniziare una discussione.

«tutto»: il testo greco porta panti, voce cara a Luca usata da lui nell’Evangelo 152 volte + 170 in Atti (Mt 128; Mc 67; Gv 63); in posizione predicativa e senza articolo indica ogni, tutto intero, senza eccezione.

«dà»: didou attivo imperativo presente: il tempo indica una massima di carattere generale ed è più efficace di Mt 5,42, che usando l’aoristo sembrerebbe limitare la nota ad una sola volta o, meglio, pensare al caso singolo.

«non richiederlo»: attivo imperativo presente: continua l’enumerazione al presente per non rompere l’ipotesi a carattere generale.

31 – «Ciò che non volete…»: è la cosiddetta “regola d’oro”; un detto di tipo sapienziale già noto ai rabbini del tempo di Gesù; si tratta quasi di un principio etico comune, “razionale”. Si faccia attenzione al fatto che, nell’Evangelo si ha una formulazione positiva della regola: «fare», mentre, sia nella Bibbia (Cfr. Tb 4,15) che nella letteratura rabbinica e anche pagana, essa è nella formula negativa: «non fare». La differenza non è poca, perché la formulazione positiva abbatte tutti gli argini e stimola a tutte le generosità. È facile stabilire ciò che non si vuole, ma è impossibile mettere un limite ai desideri; l’Evangelo non frena, ma libera: scatena, si potrebbe dire.

«fare»: attivo imperativo presente: i “presenti” dei verbi rimbalzano uno all’altro come «tema e risposta» in una sinfonia mai prima scritta.

32-34 «se amate…»: il verbo, un indicativo presente è ancora agapao: tempo presente perché è un modo di comportarsi “quotidiano”, ovvero sempre e questo comportamento caratterizza i veri discepoli di Gesù.

«fate del bene»: passivo imperativo aoristo: la sfumatura verbale considera il bene da fare non come una regola di vita ma “quasi subito” e per un interesse particolare che è vivere in Cristo!

35 – «invece»: meglio trad. “piuttosto” in quanto qui si pone un forte contrasto con quanto lo precede.

«amate»: (agapao) attivo imperativo presente che dice quale deve essere l’atteggiamento abituale del cristiano.

«fate del bene»: ancora un attivo imperativo presente.

«prestate»: ancora un attivo imperativo presente cioè un atteggiamento abituale e senza eccezioni.

«non sperate niente»: il significato è controverso: può essere tradotto con “togliere le speranze”; oppure il senso normale nel linguaggio medico “non disperate per le sorti di qualcuno”. Se si tiene a quest’ultima, Gesù raccomanderebbe di non disperare perché il rientro è certo: se non in questa vita sicuramente nell’altra.

«e il vostro premio sarà grande»: un ideale tanto grande non può trovare una giustificazione solo umana, ma è sostenuto da una prospettiva escatologica.

«e sarete figli dell’Altissimo»: la ricompensa di cui qui si parla non ha nulla di giuridico, noi siamo servi senza utile (Cfr. 17,7-10), pur in rapporto con il servizio che esprimiamo(Cfr. 19,17.19 ) che deriva dalla benevolenza divina. Questo è l’invito di Gesù: domani sarete in pienezza ciò che oggi vi sforzate di realizzare: figli di Dio! Questa figliolanza è, ad un tempo, dono gratuito di Dio e realtà che si esprime mediante il pentimento, la fede in Gesù e le buone opere.

36 – «Siate»: medio imperativo presente: continuate ad essere misericordiosi (…vi conviene) perché il Signore è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.

«misericordiosi»: in eb. rahamin = utero è la misericordia della madre che ha generato il figlio.

«come è misericordioso il Padre vostro»: nel giudaismo esiste un parallelo significativo: «Come il Padre vostro è misericordioso in cielo, così voi dovete essere misericordiosi sulla terra». L’evangelista Luca ha conservato il tenore originale dell’insegnamento di Gesù, tradotto da Mt 5,48 con la nota sentenza: «Siate dunque perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste». La perfezione non è altro che un modo di amare sullo stile e la forza del Padre; quello stile e quella forza che Gesù rivela e comunica ai discepoli.

37-38 «non giudicate»: attivo imperativo presente: essendo un imperativo negativo l’ordine è di non continuare un’azione già iniziata.

«non condannate»: attivo imperativo presente: come sopra.

«perdonate»: il solito attivo imperativo presente che esprime, come ormai abbiamo imparato, un comportamento che deve essere abituale nella nostra vita. Alla lettera il vocabolo greco apoluete = liberate, assolvete.

I tre verbi ora elencati esprimono tre azioni che si fanno in tribunale: giudicare, condannare, assolvere.

«date»: attivo imperativo presente: decisamente un contegno abituale del cristiano,

«vi sarà dato,., sarà versata… sarà misurato»: si tratta di verbi al passivo, conosciuti come «passivi teologici», cioè che sostituiscono il nome di Dio. Presso gli Ebrei il nome JHWH non si può pronunciare: ebbene, accanto ad altri termini che lo sostituiscono (il Nome, l’Altissimo, il Cielo, ecc.) anche il verbo al passivo si presta a sostituire o richiamare il nome divino. Quindi: Dio vi perdonerà… Dio vi darà», ecc.

È soprattutto l’Evangelista Matteo ad avere questo accorgimento, perché i destinatari del suo Evangelo sono ebrei; dall’Evangelista poi l’uso è passato, in qualche altro passo, come questo, anche in Luca.

«una buona misura… traboccante»: è la nostra ricompensa, che tuttavia risulta sempre superiore alla nostra fedeltà. Dio si comporterà con noi come noi ci comporteremo con gli altri, ma siccome ci è impossibile raggiungere la sua perfezione nella imitazione di lui, la nostra ricompensa, per il suo sconfinato amore di Padre, sarà «una buona misura, scossa, pigiata, traboccante».

«in grembo»: allusione a quella curvatura, usuale in campagna, che si forma sollevando un grembiule o una veste sopra la cintura, nell’atto di formare come un sacco, per versarvi quanto si vuole raccogliere e portare via.

«la misura con cui misurate»: uno sguardo sinottico, a proposito di quest’ultima affermazione di Gesù, ci permette di rilevare che il diverso contesto porta ad un diverso significato:

  • Matteo infatti riferisce la frase di Gesù alla condanna per coloro che criticano il prossimo (7,2),
  • Marco alla conoscenza del mistero del regno (4,24),
  • Luca infine alla ricompensa per coloro che usano misericordia.

La santità è la misericordia che assimila al Padre Santo e Perfetto e Misericordioso. Poiché il Signore Santo Perfetto Buono crea con amore gli uomini «a sua immagine e somiglianza» e per essi dispone tutto per il bene (Rom 8,28-30), e lì ad essi offre sempre la soluzione di tutti i loro problemi, come persone, ma anche come società di persone. Si sa che per il peccato gli uomini conservano e sono l’immagine di Dio, ma perdono del tutto la somiglianza con Lui. Questa somiglianza è infatti una relazione di carità con il Signore, quindi di santità e di perfezione. Occorre che l’immagine di Dio recuperi la somiglianza con Dio. Morendo e risorgendo, il Figlio di Dio opera nello Spirito Santo questo duplice recupero, dell’«immagine e della somiglianza di Dio» portatrice definitiva dello Spirito Santo (1 Cor 15,45), della Carità divina (Rom 5,5), della Comunione divina (2 Cor 13,13). Cristo Signore nello Spirito Santo è l’unica e sussistente «Icona della Bontà» del Padre (Ebr 1,3, che cita Sap 7,26).

Allora nell’Economia dell’indicibile Mistero di Cristo, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio, a partire dall’Iniziazione, ricomincia la lenta e difficile opera per gli uomini: restaura l’immagine di Dio con il battesimo, poi, dotandola dei suoi Doni consacratori con la confermazione, le restituisce anche la somiglianza perduta, che è la «vita della Carità» divina.

Ora, il Signore, il Padre Santo e Perfetto, al di là di tutto si rivela ai figli suoi come «il Misericordioso». Per somma Misericordia e a partire dall’Iniziazione completa in ogni sua parte, il Padre riassimila a sé nel Figlio con lo Spirito Santo i figli suoi peccatori e lontani, li raduna nella Comunità santa e li fa salire alla perfezione della sua Santità, che è la vita della sua Carità misericordiosa, ricevuta e scambiata con Lui e con i fratelli. Ma «Dio è Carità» (1 Gv 4,8.16). Se i figli suoi accettano di diventare «simili a Lui nella carità», ossia perfettamente simili a Dio, tanto di vederlo come è (1 Gv 3,1-2), essi allora sono divinizzati.

«La Misericordia della Carità del Padre nel Figlio con lo Spirito Santo è divinizzante» ci ricordano continuamente i Padri. I discepoli di Cristo sono chiamati a vivere anche nella società, dove essere santi e “misericordiosi” è quasi un reato. Essi non debbono odiare questa società. Debbono certo conoscerne gli immani peccati, debbono certo esserne la voce critica della coscienza. Ma sono posti per operare non da fuori come conventicola chiusa e irritata e impaurita, bensì come generoso lievito, per salvarla.

Questa società nella storia degli uomini ha necessità come mai di santità, di perfezione e di misericordia. Solo i discepoli del Signore possono portarle questi doni trasformanti. Infatti, questa società malata vede 1’«immagine e somiglianza di Dio», l’icona della divina Misericordia, solo nel volto dei discepoli di Cristo. I quali non possono far mancare a essa questa visione di redenzione.

Così, fare il Giubileo divino è “abbonare” ogni debito. I fedeli che vogliano vivere il Giubileo dello Spirito Santo, debbono abbonare ogni debito, a costo che il «sistema bancario» vada a farsi friggere e peggio, come sarebbe altamente augurabile. La misericordia porta a non giudicare alcuno, a non condannare alcuno, mai, altrimenti Dio stesso giudica e condanna (v. 37). Invece occorre dare, e Dio donerà, Egli che «ama il donatore gioioso» (2 Cor 9,7, che cita Pr 28,8a, secondo il greco dei Settanta).

Come al tempo della mietitura, Egli allora distribuirà allora la misura del grano, ma scossa e agitata, per riempire fino al colmo il recipiente di ciascuno. Della misura con cui agli altri i discepoli avranno riempito, sarà a essi restituito.

Anzi, infinitamente di più (v. 38).

Colletta:

Il tuo aiuto, Padre misericordioso,

 ci renda sempre attenti alla voce dello Spirito,

perché possiamo conoscere

ciò che è conforme alla tua volontà

e attuarlo nelle parole e nelle opere.

Per il nostro Signore …

 

Oppure II Colletta:

 

Padre clementissimo,

che nel tuo unico Figlio

ci riveli l’amore gratuito e universale,

donaci un cuore nuovo,

perché diventiamo capaci di amare anche i nostri nemici

e di benedire chi ci ha fatto del male.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…