Commento al Vangelo del 25 dicembre 2011 – Paolo Curtaz

Natale del Signore – Notte: Is 9,1-3.5-6; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Ci siamo. C’è.
Ci siamo.
Ci siamo preparati, abbiamo percorso il sentiero dell’avvento, abbiamo lasciato che la Parola ci conducesse, che illuminasse questi tempi fragili, questi momenti inquieti, che ci donasse una speranza ora che tutti usano parole forti come crisi, fallimento, sacrifici…
Chi ci può veramente salvare?
Gli organismi internazionali, certo, che devono trovare il modo di uscire fuori dalla dittatura dei mercati, dalla follia di un’economia che condiziona le nostre scelte, dall’ineluttabilità di un capitalismo senza freni, senza regole, senza misura.
Ma quella salvezza non ci è sufficiente; necessaria, certo, per vivere dignitosamente del frutto del nostro ingegno e del nostro lavoro, ma ben altra è la salvezza di cui abbiamo bisogno.
Cesare Augusto, grazie alla sua abile politica, inaugurò l’epoca d’oro della pax romana e la sua venuta fu salutata come un segno di abbondanza per tutto l’Impero. Il 23 settembre, data della sua nascita fu festeggiato come l’inizio dell’anno solare. Fu proclamato salvatore di ogni uomo.
E proprio sotto il suo Impero, in un oscuro villaggio di pastori, una giovane coppia della Galilea fa nascere il suo primogenito, il Salvatore.
Quello vero.

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Disintossicarsi

Vorrei tanto che la crisi ci portasse almeno un buon risultato: quello di riportarci all’essenziale, di farci tornare al significato profondo di quello che stiamo vivendo, quello di riprenderci il Natale, svenduto dai cristiani alla fiera dei buoni sentimenti.
E senza combattere.
L’atmosfera che circonda il Natale ci emoziona, ed è inevitabile che sia così.
Ma è giunto il momento di lasciare che oltre all’emozione sia la teologia a parlare al nostro cuore.
Crediamo di sapere tutto degli eventi. Forse bisogna avere il coraggio di azzerare i nostri ricordi, la nostra fantasia, per tornare a quella sera.
Accadde che
Una giovane coppia giunge a Betlemme, la città che ha visto nascere il re Davide.
È un censimento ad averli portati laggiù, forse un censimento regionale, un modo che, da sempre, i potenti hanno di manifestare la loro autorità.
La donna aspetta il suo primogenito e viene accolta in casa di qualche parente (inimmaginabile che fossero rifiutati con il senso sacro dell’ospitalità nel mondo orientale!), ma per tutelare il suo pudore partorisce nel retro della casa, normalmente costituita da un unico vano, là dove si custodivano gli animali di piccola taglia e le derrate alimentari, la cassaforte di ogni abitazione.
La scena si sposta all’esterno, da un gruppo di pastori che passano le giornate e le notti, da marzo ad ottobre, nei brulli pascoli della Giudea. Non i pastorelli dei nostri presepi, ma persone poco raccomandabili indurite dal lavoro, che rabbini del tempo paragonano ai pubblicani, considerati bugiardi (non potevano testimoniare ad un processo) e inaffidabili.
Loro ricevono l’annuncio: gli sconfitti, i perdenti, i condannati.
Non i sacerdoti di Gerusalemme, tutti presi dal funzionamento del ricostruito tempio per aspettare davvero un messia inopportuno.
Non Erode, che ha ottenuto il trono con determinazione e ferocia, e che vede nel Messia un pericoloso concorrente.
Non la brava gente di Gerusalemme, tutta presa dalla quotidianità.
Accessibilità
La ragazza partorisce, lava il bambino, lo avvolge nelle fasce, lo depone nella mangiatoia.
Nessuna lucina misteriosa, nessun prodigio, nessun effetto speciale.
Dio nasce come ogni bambino, la salvezza ci giunge nel più banale dei modi.
E i pastori cercheranno una mangiatoia per riconoscere il Messia. E gli astronomi una stella.
Dio si fa incontrare là dove siamo, parla ai nostri cuori con il linguaggio che conosciamo.
È il nostro sguardo che cambia, è la luce del nostro cuore che sa vedere al di là dell’apparenza.
Ecco il nostro Dio: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l’acerbo seno della madre.
È un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, ed è tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l’emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione problematica.
Non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità. Non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.
Vorrei un Dio che mi risolvesse i problemi, non un Dio che me li crea.
Vorrei un Dio potente e forte, non un neonato bisognoso di tutto.
Vorrei un Dio più efficiente, non perdente. Schierato con i forti, non difensore dei deboli.
Vorrei qualche effetto speciale, così, per convincermi.
E invece.
Buon Natale
Che Dio nasca nel mio cuore, nel tuo, amico lettore. Il Dio vero, non quello dei nostri deliri, delle nostre vane aspirazioni. Il Dio che condivide con i poveri, che salva chi pensa di essere perduto.
Un abbraccio a tutti voi, numerosi amici internauti, a tutti coloro che sono venuto ad ascoltarmi, quest’anno, in giro per l’Italia, ai tanti che leggono i miei libri: è per me stupore continuo sapere di come quel burlone di Dio usi le mie povere parole di cercatore di Dio per scuotere altri cuori e aprire le porte.
Vi voglio bene di quel bene che Dio mi vuole.

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