Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 13 Febbraio 2022

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I sazi e gli affamati

Questa domenica presenta il testo delle beatitudini nella versione propria del terzo vangelo, testo che si differenzia da quello più noto presente nel primo vangelo per il numero di “beatitudini” (quattro contro le otto di Matteo) e per la presenza di quattro “guai” che formano una precisa contrapposizione con le beatitudini. Se a essere dichiarati “beati” sono poveri, affamati, piangenti e perseguitati, i guai si indirizzano a ricchi, sazi, ridenti e a coloro che sono lodati. Inoltre, se le beatitudini di Matteo sono inserite nel cosiddetto discorso della montagna (cf. Mt 5,1), quelle di Luca sono pronunciate in un luogo pianeggiante (cf. Lc 6,17).

È subito dopo aver costituito il gruppo dei Dodici (Lc 6,12-16) che Gesù pronuncia queste parole che dunque assumono un valore particolarmente significativo nei confronti del gruppo e della vita di quei Dodici “ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6,13). E certo, i Dodici sono destinatari immediati e privilegiati di queste parole (“Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva”: Lc 6,20); tuttavia, è una folla numerosa che ascolta questo discorso, folla formata da ebrei e anche da persone provenienti da zone non ebraiche, come le città fenicie di Tiro e di Sidone (Lc 6,17). È evidente che Luca non intende solo mostrare che la fama di Gesù si è estesa al di fuori dei confini di Israele, ma vuole anche prefigurare l’estensione post-pasquale al mondo non ebraico dei gentili del messaggio di salvezza di Gesù. Inoltre, poste immediatamente dopo l’annotazione che la folla “cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti” (Lc 6,19), le parole di Gesù che propongono beatitudini e guai, intendono far uscire la fede di chi lo segue e lo cerca dalla dimensione magica e interessata.

Riportano le folle sulla terra, e dunque sul piano delle scelte e delle responsabilità, dei sì e dei no da dire, dunque degli inevitabili conflitti. Colpisce poi che questo parlare in pubblico di Gesù – tratto caratterizzante la sua attività kerygmatica e pedagogica – non ha il tono di una conferenza ma di una testimonianza e trasmissione di vita. Come già evidenziato nell’episodio dell’omelia di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,22-30), la parola e la persona di Gesù chiedono un’opzione, uno schierarsi, uno scegliere: e l’adesione a Gesù il Messia suscita una divisione tra gli uditori svelando i pensieri del cuore (cf. Lc 2,34-35). Possiamo dire che la pagina evangelica che mette a diretto confronto, in un brutale vis-à-vis poveri e ricchi, affamati e sazi, afflitti e gaudenti, perseguitati e gente ammirata, lodata e stimata, implica una necessaria scelta di campo, un’opzione che in definitiva è tra l’autosufficienza e la fiducia nel Signore, ovvero tra l’idolatria e la fede.

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Le parole di Gesù sono comprensibili alla luce del fatto che in Gesù vi è l’avvento del regno di Dio tra gli uomini. “Beatitudini” e “guai” sono lo sguardo di Dio su situazioni umane contraddittorie: questo sguardo è paradossale e vede ciò che l’uomo non vede, sconvolgendo i parametri umani di valutazione. Ovviamente le beatitudini non predicano la felicità del povero in quanto povero, ma annunciano che nel Cristo che ha abitato la povertà e la situazione di bisogno, queste situazioni non hanno l’ultima parola, non hanno la forza di ostruire il futuro e di uccidere la speranza, ma vengono risignificate e diventano esperienza del Regno e apertura a esso. La beatitudine non consiste nella povertà o nel patire la fame e la persecuzione, ma nell’essere raggiunti dall’azione di Dio in Gesù, il Messia che secondo la profezia di Is 61,1ss è venuto a portare ai poveri la buona notizia (cf. Lc 4,18-19). Lo sfondo veterotestamentario di queste parole non è tanto sapienziale, quanto profetico. A questo proposito, è utile ricordare che l’espressione “guai”, tratta dal linguaggio profetico (Is 1,4; 5,8-24; 30,1; 33,1; ecc.), non indica una maledizione, ma è minaccia di un giudizio che può ancora essere evitato grazie alla conversione. Potremmo forse rendere l’espressione con “sventurati voi, o forse con l’espressione “ahimè”. Si tratta di un grido di lamento, di dolore che invita a un cambiamento, a una conversione aprendo così uno spiraglio di speranza, di vita e di futuro.

Una differenza tra le due categorie destinatarie delle beatitudini e dei “guai” è il rapporto con il presente. Per i ricchi, sazi e gaudenti il presente è chiuso in se stesso, pieno, bastante a se stesso e, non conoscendo né mancanze, né vuoti, non suscita neppure attese o desideri: la situazione di benessere fa cadere in quella forma di idolatria che è l’autosufficienza del presente. Vi è contiguità tra ciò che è pieno e ciò che è chiuso. Ci si potrebbe interrogare non solo a livello personale, ma anche sociale: una società che non sopporti vuoti e rimuova mancanze e sofferenze e persegua saturazione soffre di un troppo pieno che uccide il desiderio e l’anelito all’oltre, alla trascendenza. È una società che tende all’obesità. E ne consegue ottusità. È significativo l’uso del verbo empímplemi per indicare i “sazi” (Lc 6,25: qui saturati estis). Il verbo indica coloro che si sono rimpinzati di cibo, sono sazi, ma anche appagati, riempiti, soddisfatti. Non a caso l’azione di Dio celebrata nel Magnificat canta il Dio che “ha saziato (riempito) di beni gli affamati” (Lc 1,53), mentre “ha rimandato vuoti i ricchi” (Lc 1,53). A fronte di chi è nel troppo pieno, abbiamo chi si trova nel vuoto. Per chi conosce pianto, povertà, fame, il presente è segnato da una mancanza, da un vuoto, e, paradossalmente, diviene un presente aperto perché abitato dal desiderio, dall’attesa, dalla passione per il cambiamento. In particolare, se il povero sviluppa il senso dell’affidamento e della fiducia, non così chi è ricco e sazio, che si chiude in se stesso.

Non è poi fuori luogo notare come vi sia una sorta di logica interna e di concatenazione tra le varie situazioni esistenziali elencate da Gesù: il povero è colui che è sprovvisto del necessario e anzitutto, manca del pane quotidiano, del cibo, e questo lo pone in situazione di lamento e pianto. Il povero è anzitutto il mendicante che spesso è anche oggetto di disprezzo. Al contrario, il ricco è colui che può premettersi di banchettare ogni giorno lautamente, come avviene nella parabola di Lc 16,19-31 dove il ricco, sazio e gaudente, si contrappone a Lazzaro, povero, affamato, nudo, senza casa, ma dove, nella prospettiva escatologica della parabola, i destini dei due sono completamente ribaltati. Questa parabola è un bel commento narrativo al discorso di Gesù che alterna beatitudini e guai.

L’ultima beatitudine (cf. Lc 6,22-23) e l’ultimo “guai” (cf. Lc 6,26) si discostano dagli altri tre e presentano una forma particolare. Lo sguardo divino discerne come atteggiamento profetico quello di chi, “a causa del Figlio dell’uomo”, conosce e sopporta insulti, calunnie, odio. E discerne come menzognero l’atteggiamento di chi si compiace del fatto che “tutti parlino bene di lui”. Chi cerca di compiacere gli altri, di essere sempre lodato, di incontrare l’apprezzamento altrui, dimostra di non avere come referente il Cristo e lo scomodo Vangelo, ma di cercare il consenso umano. La capacità profetica dei cristiani e delle chiese sta nella capacità di fuggire l’omologazione, la ripetitività delle abitudini, nell’osare le parole audaci del Vangelo, quelle parole di cui neppure loro, i cristiani e le chiese, sono padroni, ma ne sono i primi destinatari. La profezia chiede la scelta radicale tra Parola di Dio (da obbedire, che scomoda, mette in discussione e in crisi, chiama a conversione) e parole umane (di conferma e di lode). A questo proposito si esprime molto bene l’esegeta Santi Grasso quando scrive: “Il ‘guai’ si rivolge a tutti coloro che godono di grande stima (v. 26) Nella storia biblica la fama e il consenso popolare sono ricercati dai ‘falsi profeti’. Essi parlano non a nome di Dio, ma per opportunismo, al fine di guadagnarsi l’approvazione dell’uditorio”.

Possiamo dire che vi è una gioia, una beatitudine per chi osa la libertà della fede. Questo richiede coraggio, il rischio della solitudine, del cantare fuori dal coro, ma dona la gioia impagabile di essere se stessi davanti a Dio, agli uomini e alla propria coscienza, obbedienti fino in fondo alla vocazione personalissima che il Signore ha accordato a ogni volto. Dona la gioia di rischiare tra gli uomini la propria interpretazione e comprensione del Vangelo. Ben sapendo che al credente non è chiesto di non sbagliare, ma di osare il Vangelo – con intelligenza e discernimento – pagandone il prezzo in prima persona.

Vi è un narcisismo ecclesiale, per cui si sta attenti al giudizio degli uomini e si mendica la loro approvazione, che è una sorta di anestesia che vuole preservare dalla sofferenza e dal senso di fallimento che deriverebbe dall’essere criticati, corretti, rimproverati. Mentre il Signore dice: “Io rimprovero e castigo quanti amo” (Ap 3,19). Ma si sa, la mondanità ecclesiale non differisce certo dalla mondanità del mondo.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose