GETTATI NELLA STORIA COME SEMI NELLA TERRA PERCHE’ CRISTO DIA IN NOI IL FRUTTO DELL’AMORE
AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE
Spesso il Vangelo ci trascina in un violento testacoda, come quando Gesù parla del Regno di Dio, oggetto preferito delle confidenze sussurrate “
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Lo può “descrivere” solo una “parabola” che racconta una storia, ma allo stesso tempo è molto più di un semplice oggetto. Il Regno è come un uomo che semina, ma è anche come il seme, che “cresce e germoglia”. E’ una persona, ma è anche la sua vita. E’ un piccolo resto che distende le sue radici nella terra ma non resta fermo; come il popolo di Israele si muove nel buio dell’Egitto, buca la superficie della terra uscendo dalla schiavitù, esce alla luce passando attraverso il mar Rosso, e continua a crescere nel deserto puntando il Cielo della terra promessa per diventare un popolo che, come un segno dell’amore di Dio, distende i suoi rami, “tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra”. Il Regno di Dio è Cristo, che getta se stesso nella storia di ogni uomo, ma è anche il Popolo unito a Lui come la terra al seme.
Egli ne assorbe le speranze e i fallimenti, le gioie e i dolori, anche i peccati, per trasformare tutto in un prodigio di amore robusto e fecondo. E’ un mistero, è il Mistero Pasquale nel quale il corpo esanime di Gesù è trasformato in un corpo glorioso capace di dispensare vita senza fine. Mette i brividi, eppure neanche l’uomo Gesù “sapeva come” ciò sarebbe potuto accadere. E lo si vede bene nel Getsemani, quando, prostrato nell’angoscia, chiede al Padre di risparmiargli il calice della Passione. Quella notte Gesù si trovava proprio come un contadino che getta il seme in terra: questi sa che lì dentro accade qualcosa capace di trasformare quel puntino che teneva in mano in una pianta o in un albero, ma non sa come ciò si realizza. Il contadino, infatti, non è mai stato un seme, e per quanto le conoscenze scientifiche attuali ce lo sappiano spiegare, nessuno di noi ha mai vissuto l’esperienza di un seme gettato in terra.
Così Gesù è dovuto entrare nell’ignoto, in quel passaggio doloroso e sconosciuto che il demonio ha colto a pretesto per tenerci schiavi tutta la vita. Sapeva che lo avrebbero preso, insultato, deriso, flagellato e appeso alla croce; sapeva che sarebbe morto e risorto, ma come ciò sarebbe accaduto non lo sapeva. Era certo che il Padre non lo avrebbe abbandonato, ma doveva entrare senza mappe né istruzioni in quel pezzo di terra a forma di sepolcro; doveva, per essere il primogenito di molti fratelli, la primizia del Regno di Dio, il Capo che porta alla salvezza il suo Popolo. Doveva perché in Lui tutti noi, scelti e chiamati a far parte del suo Corpo vivo nella storia, potessimo entrare nella terra buia che ci attende per uscirne vittoriosi come un albero che abbraccia nella salvezza le Nazioni pagane ancora schiave del demonio.
Ecco, le parabole di oggi annunciano il Regno di Dio come il passaggio dalla morte alla vita: lo profetizzano per Gesù ma anche per ciascuno di noi; e anche per ogni uomo, per chi ci è accanto in ufficio e per il quale pensiamo non vi sia più speranza. Anche per tuo figlio o tuo cugino, anche per un pedofilo o un terrorista. Non sappiamo come possa accadere che anch’essi si salvino. Certo sono liberi, possono rifiutare sino in fondo l’occasione. Ma per tutti, misteriosamente, c’è un pezzo di terra dove Cristo si getta per morirvi con loro e così strapparli alla dannazione unendoli a sé nella risurrezione.
E quel pezzo di terra è proprio quel momento in cui la persona accanto è più indurita, ci aggredisce e ci insulta, ci rifiuta e disprezza; ci uccide dentro. E’ il kairos, il momento favorevole in cui la terra si spacca, magari impercettibilmente, per accogliere il nostro amore, che significa la nostra morte. Perché così è accaduto a Gesù, quando ha gettato se stesso nella terra della nostra vita che con i peccati lo ghermiva per ucciderlo. No, non sappiamo che cosa succederà dopo, quanto tempo dovremo restare in quel sepolcro spalancato dai peccati dell’altro. Lo sa una moglie abbandonata da un marito? Lo sanno il padre e la madre di un figlio che li detesta e se ne va di casa?
Lo sa chi è stato truffato e derubato, insultato e calunniato? Lo sa un missionario rifiutato e perseguitato? No, nessun cristiano che offre la sua vita lo sa, ma ha la certezza che darà frutto, perché allo stesso modo l’amore di Cristo ha dato frutto in lui. Nel Vangelo di Giovanni Gesù invita gli apostoli a “guardare i campi – tutto il mondo! -che già biondeggiano per la mietitura”; e nel brano di oggi, dove si legge di “metter mano alla falce”, l’originale greco ha “apostellei”, che significa “inviare”, da cui deriva “apostolo”. La mietitura è dunque l’invio degli apostoli, perché l’annuncio del Vangelo è già l’inizio della raccolta dei frutti! Non è questione di “dormire o vegliare”, perché “il chicco pieno nella spiga” non dipende dagli apostoli, ma da Cristo.
E’ Lui che ha già dato la sua vita per tutti, ed è ancora Lui che parla e agisce nei cristiani. Per questo Egli vede anche nel più grande peccatore, anche nelle zone del mondo più pagane e indifferenti al vangelo, la salvezza che gli uomini non vedono perché non sanno: Lui sa perché è entrato nella morte ed è risorto perché il suo mistero di Pasqua dia frutto in tutti. C’è una “spontaneità” del bene più forte del male che è sempre innaturale. Essa si sprigiona nell’uomo quando egli viene a contatto con l’origine e il compimento del bene; quando cioè Cristo tocca il suo cuore e vi entra per risuscitare in lui e far crescere e fruttificare il seme divino che vi giace sin dalla creazione.
E’ quanto accade come un segno di speranza in chi è accolto nella Chiesa attraverso un lungo cammino iniziato con la semina della Parola; in virtù del suo potere, essa “cresce in lui spontaneamente” generando fede, speranza e carità, i segni della vita nuova che estenderà i suoi rami per accogliere i peccatori nella misericordia.