Commento al Vangelo di domenica 12 Dicembre 2021 – Comunità di Pulsano

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DOMENICA «DELLO SPIRITO E DEL FUOCO»

Quando Luca scrive il suo evangelo, parecchie decine di anni dopo l’ascensione, la Chiesa conferisce ormai il battesimo cristiano nello Spirito, attraverso il ministero degli apostoli. Il racconto dell’evangelista non manca certo di un fondamento storico, ma il suo interesse è rivolto in primo luogo alla storia della salvezza che continua nella comunità primitiva. Venuta meno l’attesa di una fine imminente, il richiamo del Battista alla conversione acquista un significato nuovo: gli uomini sono invitati a modificare la loro esistenza quotidiana, il loro modo di vivere nel presente.

Le folle che Luca descrive nel brano di oggi sono un popolo, una moltitudine di uomini di buona volontà, di ogni condizione e professione. Attenti alle parole del precursore, hanno compreso di dover cambiare qualcosa nella propria vita. Come loro, poniamoci anche noi la domanda: «Che cosa dobbiamo fare?». È il punto di partenza di ogni conversione: bisogna rinunciare alla propria sufficienza, riconoscere la necessità di essere folgorati da una parola che ci farà uscire da noi stessi. Ciascuno poi cercherà il modo migliore per compiere, nel proprio ambiente di vita e nella professione, i suoi doveri di giustizia sociale, di aiuto reciproco e di carità.

Ma queste folle che gettano un primo sguardo sulla propria vita e accettano di aprirsi, all’interno della realtà quotidiana, all’imprevisto di Dio, sono anche «un popolo in attesa». Deve arrivare qualcuno che porterà avanti nel loro cuore il cammino iniziato. Qualcuno! Anche oggi sorgono dei precursori, che preparano la via ponendo al nostro tempo le grandi domande a proposito della vita e della morte. Oggi come ieri, i profeti di Dio rimandano a un Altro, più forte di loro: Gesù Cristo, che continua a venire per battezzare ciascuno nel fuoco che deve bruciare la nostra paglia e nello Spirito che raccoglierà il grano maturo.

Questa Domenica (Cfr. colletta1) è tradizionalmente dedicata alla gioia nella maggior parte delle antiche liturgie; è la domenica di Gaudete, Rallegratevi!, come recita l’antifona d’ingresso tratta dal capitolo finale dell’epistola ai Filippesi (4,4.5b):

Rallegratevi sempre nel Signore:

ve lo ripeto, rallegratevi,

il Signore è vicino.

Altra caratteristica sono i paramenti sacerdotali «rosacei» che possono sostituire il tradizionale colore viola. Il rosa compare solamente due volte nell’anno liturgico: la terza domenica d’Avvento, appunto, e la quarta domenica di Quaresima, detta Laetare (lo stesso significato di Gaudete, dall’antifona d’inizio).

Durante questi due tempi di ravvedimento e di conversione (metanoia), la Chiesa fa quasi una pausa per considerare meglio la gioia che aspetta e alla quale si prepara: la gioia del Natale e della Pasqua.

In queste due domeniche di gioia, il viola, colore abituale del tempo di penitenza, si attenua in rosa, senza tuttavia passare al bianco, colore riservato alle solennità della natività e della Risurrezione.

Che la liturgia di questa Domenica possa essere definita la ‘liturgia della gioia” in modo eminente, lo ricaviamo soprattutto dalle letture che ci vengono proposte.

I lettura: Sof 3,14-18a

La prima lettura ci parla infatti non più soltanto della gioia dell’uomo e del popolo che su invito del profeta esplode in grida di esultanza perché JHWH lo ha salvato dalla condanna che pesava su di lui; ma ci parla ancora in modo paradossale e forse unico nella Scrittura, almeno per intensità, della gioia di Dio che esulta per il suo popolo salvato, una gioia così intensa che fa danzare Dio e lo fa gridare di esultanza «come in un giorno di festa» (v. 18a). Dopo un oracolo d’ira e di punizione, che investe Gerusalemme come ribelle e impura, essa che non ha accettato la Voce del suo Signore (3,1-8), viene un altro oracolo, bensì di perdono e di benedizione. Le sue note sono il piccolo “resto” fedele, scelto e posto per salvare tutti gli altri, e l’invito a gioire di nuovo (vv. 9-20).

La pericope di oggi inizia con l’appello rivolto a Gerusalemme, con il suo titolo principale, «la Sposa», o «Figlia di Sion», e anche «Figlia di Gerusalemme» (v. 14). In parallelismo, sono espresse due esortazioni con due titoli, e due imperativi a gioire (v. 14). Per amore del piccolo “resto” il Signore ha ormai revocato la condanna per la sua Città che fu infedele per un tempo, ha disperso i suoi nemici che la punivano, e viene a porsi quale Re e Sposo in mezzo alla Sion santa (v. 15). Dal momento di questa Venuta potente e benedetta, la Sposa, Sion, potrà finalmente riprendere il coraggio di un tempo felice, e sarà esortata a farlo (v. 16).

Il motivo è ribadito. Il Signore dimora ormai con la sua Sposa, e poiché ormai la Sposa non pone più ostacoli, è diventato il suo Salvatore onnipotente. Non solo. Egli stesso gioirà di amore nuziale, di amore per la Sposa sua, ed esulterà per i canti nuziali, le grida gioiose del Convito, una festa che non cesserà più (vv. 17-18a). Va qui notato che già i Padri, e poi i commentatori moderni, nel saluto dell’Angelo del Signore a Maria Vergine di Nazaret, «Gioisci, Maria, piena di Grazia, il Signore con Te» (Lc 1,28), ritrovano precisamente il saluto del Signore alla Vergine Figlia di Sion, la Figlia di Gerusalemme, la Sposa diletta:

Gioisci molto, Figlia di Sion… Figlia di Gerusalemme… Il Signore Re d’Israele sta in mezzo a Te (Sof 3,14.15b citazione desunta dal testo greco).

Maria al momento dell’ Annunciazione è la Città di Dio, che attendeva la divina Presenza.

Il salmo responsoriale e la seconda lettura riprendono questo motivo di gioia e ci sollecitano a esultare e gioire sempre nel Signore che è la vera, unica e più profonda ragione di pace e di letizia per l’uomo: «Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele».

In questa luce possiamo anche accostare il brano evangelico che, se si presenta come un evangelo di penitenza, ci indica tuttavia, proprio attraverso la penitenza che esige, la via per una gioia vera e duratura. Come il brano di Sofonia è un’esplosione di gioia che segue all’opera purificatrice e redentrice che Dio ha compiuto in mezzo al suo popolo, così il brano evangelico vuole condurci, purificati e pentiti, alla gioia dell’incontro col Signore che viene.

Dopo la presentazione del Battista sulla scena dell’evangelo (Cfr. II Dom. di Avvento C), l’evangelista Luca propone ora i temi essenziali del messaggio del profeta venuto dal deserto, centrati su alcune esortazioni morali (vv. 10-14) e sull’annuncio propriamente messianico (vv. 15-17; il v. 18 è un sommario conclusivo). La triplice domanda rivolta a Giovanni dai suoi ascoltatori: «Che cosa dobbiamo fare?», nelle intenzioni dell’ evangelista, vuole sottolineare che la preparazione in attesa del Messia comporta non soltanto disposizioni interiori, ma anche una pratica di vita. Convertirsi è mutar mente, adeguandosi ai pensieri di Dio e mettendosi con un nuovo comportamento sulle sue vie. Il nuovo comportamento indicato da Giovanni, non nasce dal fare qualcosa di diverso dal solito o aggiungendo nuove e più rigorose pratiche alle precedenti attività, ma riporta all’osservanza dei comandamenti verso il prossimo. La risposta di Giovanni nella sua lapidarietà tende a rimuovere l’iniquita, il vero diaframma che impedisce con i fratelli un rapporto giusto (v. 10).

Nell’altro libro di Luca, la domanda rivolta negli stessi termini a Pietro dopo il discorso di Pentecoste sta a significare che la folla era stata profondamente «toccata nel cuore» (At 2,37). È facile pentirsi a parole, accompagnate magari da altrettanti facili sospiri; il difficile comincia quando dai sentimenti si deve passare ai «frutti degni della conversione» (3,8). Dal punto di vista della sinossi evangelica, che come abbiamo ricordato la volta scorsa (Cfr. II Dom, di Avvento C) comincia appunto con il racconto relativo al Battista, Luca, più vicino a Matteo (Cfr. Mt 3,7-12; Mc 1,7-8), ha in proprio la distinzione in tre classi tra coloro che interrogano Giovanni:

  1. le folle,
  2. i pubblicani
  3. i soldati

Queste distinzioni rivelano la destinazione universale del messaggio portato dal precursore.

Esaminiamo il brano

10 – «Che cosa dobbiamo fare»: quelle stesse folle che da Giovanni erano state paragonate a delle vipere (v. 7) fanno ora una dichiarazione di disponibilità, di apertura al messaggio. In altri termini accettano l’invito a superare l’astrattezza di una conversione puramente giuridica o rituale e a vincere le remore di un reciproco condizionamento all’interno del proprio gruppo.

Siamo figli di Abramo si diceva allora; oggi si dice siamo cristiani; siamo presbiteri; siamo religiosi; siamo catechisti; andiamo in chiesa; frequentiamo gruppi; ecc. ecc. È la realtà di un orgoglio personale e di gruppo che non lascia spazio ad altri, neppure a Dio; è l’atteggiamento interiore di chi sfugge ad ogni presa, di chi si autogiustifica a tal punto da non essere più sensibile ad una predicazione che propone una giustificazione dall’alto. Siamo come alberi belli a vedersi, forti e con tante foglie ma senza frutti: i frutti buoni della conversione.

Nella pagina evangelica dell’incontro al pozzo di Gesù con la donna samaritana (Gv 4,1-42) la questione del luogo legittimo dove adorare Dio era un “pomo della discordia” fra Giudei e Samaritani. Rivendicare un tempio proprio era, certo, una forma di antico “campanilismo” ma anche un modo di affermare un’identità diversa. Nel racconto dell’evangelista Giovanni Gesù indica una via per superare i particolarismi, quella di un culto che non è più legato a luoghi specifici, bensì a un atteggiamento di fondo: il culto in spirito e verità.

Lo spirito soffia dove vuole”, come dice Gesù a Nicodemo (Gv 3,8), vuol dire che è presente ove si ascolta la sua voce, e poco importa il luogo o il momento. In Gv 14,6, Gesù si identifica con la “verità”: “Io sono la via, la verità e la vita”. Questa verità è una via, ed è anche la vera vita. In poche parole, la verità si scopre a poco a poco quando si segue Gesù di Nazaret sulle vie dell’evangelo.

Se riflettiamo sul nostro modo di vivere l’evangelo oggi possiamo osservare che la questione di territorio – di luogo – ha una grande importanza. Sin dal Concilio di Trento, in particolare, ogni cristiano è registrato in una parrocchia e appartiene a una diocesi, vale a dire unità territoriali (oggi ci sono anche le unità pastorali!). Tutto ciò ha la sua utilità e la sua giustificazione. E non è certo l’unico elemento dell’identità cristiana.

  1. Alla luce dell’evangelo di Giovanni, potremmo chiederci qual è il vero fondamento dell’identità cristiana. È davvero legato al “territorio”? Oppure occorre sfumare questo aspetto?
  2. Quali sono i veri criteri che permettono di definire un vero culto secondo l’evangelo? Dove e come si rende un “culto in spirito e verità” al vero Dio?

Tu sei il salvatore del mondo” (Gv 4,42) Notiamo che nel brano giovanneo citato Gesù non cerca di convertire i Samaritani al Giudaismo ortodosso di Gerusalemme. Indica piuttosto una via che permette di superare la divisione e gli antagonismi.

  • Possiamo sognare, forse, qualche cosa di simile oggi per riconciliare le diverse confessioni cristiane?
  • Possiamo sognare una forma di fede che potrebbe unire anche gli altri credenti in un solo Dio? E unire le diverse religioni e tutte le persone di buona volontà? Oppure sono chimere?

La folla mostra quindi una volontà di cambiamento; l’imperativo aoristo usato nell’originale greco di Luca indica proprio la volontà di dare inizio a qualche cosa di nuovo. Le risposte del Battista riguardano cose già note, ma che gli uomini avevano posto volontariamente da parte. Giovanni a tutti comanda di ritornare sui loro passi e di cambiare pensieri e affetti; indica a ciascuno i doveri particolari del proprio stato.

11 – «Chi ha due tuniche, ne dia una..»: Il primo frutto della conversione che viene chiesto da Giovanni è la carità. Non si tratta di una blanda elemosina, della “giustizia distributiva” umana, la quale avviene a spartizione già operata, bensì di una vera condivisione delle proprie sostanze, una metà delle quali, non una piccola parte, và data ai poveri. La giustizia dell’ AT ha come presupposto la paternità di Dio, e quindi la fraternità tra gli uomini; per questo ciò che tu hai e il tuo fratello non ha, non è tuo, ma da condividere. È negata l’economia dell’accentramento e del possesso, perché Israele, dall’Egitto in poi, è vissuto nell’economia del dono (cfr episodio della manna che accumulata marcisce, Es 16,16-27). Quando Israele cadeva nell’economia del possesso, nasceva l’ingiustizia; allora perdeva il dono della terra e imboccava la via dell’esilio. Da qui il rito di offrire a Dio le primizie donate e condivise con chi non le ha (Cfr. Dt 26,1-11). Si tratta dunque di un impegno forte che presuppone un vero cambiamento di mentalità. In questo caso la predicazione del Battista si allinea alla tradizione profetica che da questo punto di vista trova la sua espressione migliore in Is 58,6-10.

«chi ha… chi non ne ha»: il tempo presente usato dall’autore, se da una parte indica un possesso legittimo e pacifico, dall’ altra dice che si tratta non di uno stato eccezionale, ma ordinario; gli stracci non sono una veste decente.

«tunica»: il Battista non dice di avere una sola tunica, né di dividere la propria, ma di dare quella che è di riserva, un soprappiù, a chi non ne ha.

«dia»: l’imperativo aoristo positivo usato da Luca dice bene che questo gesto è nuovo nella vita degli ascoltatori; i quali tuttavia già davano qualche cosa.

«faccia»: l’imperativo presente positivo in greco ci dice infatti che costoro già davano qualche parte del cibo; ora devono continuare a dare con una generosità che arriva a dividere in due quanto essi possiedono.

12 – «Vennero anche dei pubblicani»: sono gli agenti delle tasse, che riscuotevano per conto dell’oppressore straniero le gabelle sulle merci che entravano o uscivano dalla città. Erano considerati come la maschera del peccato, perché trasgredivano sotto tutti gli aspetti il codice del dono. Essi erano i subalterni dei grandi appaltatori di imposte, ovviamente invisi a motivo del loro antipatico ufficio, e odiati particolarmente in Israele perché al servizio dell’autorità pagana d’occupazione; da aggiungere che, non essendo allora le tariffe stabilite con rigore, era facile cedere alla tentazione di aumentare arbitrariamente l’importo a proprio beneficio. Dire pubblicano e dire ladro era in quel tempo la stessa cosa, perciò nell’evangelo si trovano in coppia coi peccatori (Lc 5,30; 7,34; 15,2; 19,7). Anche i pubblicani sono disponibili alla conversione; anzi fin dal principio sembrano i primi disponibili ( Cfr. 7,29.34; 15,1; 18,9ss; 19,lss).

13 – «Rispose loro»: La proposta che fa loro Giovanni sembra minimale, così da non cambiare nulla della loro situazione. Il Battista non esige che gli esattori abbandonino la loro professione, ma vuole che nel suo esercizio essi non commettano abusi.

«non esigete nulla dì più….»: altro imperativo presente positivo che ordina di continuare un’azione già iniziata; questo può indicare che almeno qualche volta i pubblicani avevano agito onestamente e perciò dovevano continuare a non esigere più del fissato. Inoltre Giovanni non vuole distoglierli da questa occupazione (condannata senza appello dall’opinione pubblica ebraica), intendendo perciò che anche in quella condizione ci si poteva mantenere onesti. Del resto Luca suppone, senza pudiche menzogne, che il cristiano viva in un sistema di iniquità: è in questo sistema che è chiamato a esercitare il possibile di misericordia. Non si possono dividere i buoni dai cattivi (Cfr. Mt 13,24ss, parabola della zizzania).

Il terzo evangelista è anche più ardito dell’evangelista Matteo e capovolge i criteri di bontà (Cfr. 18,9ss, parabola del fariseo e del pubblicano): non siamo giusti, bensì graziati e giustificati, e chiamati a lasciar trasparire, in questa situazione di male, la grazia sua. Per questo Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (Cfr. 5,29; 7,29.34; 15,1; ecc.) e narra, dopo le parabole della misericordia, la parabola dell’amministratore infedele, il quale può dire: «so io che cosa fare» (16,4). Infatti avendo constatato la propria infedeltà, comincia a usare misericordia e dona ciò che non è suo per essere accolto. Così sembra portare a fondo la disonestà; in realtà comincia invece a riattivare il circolo del dono e della misericordia, che aveva interrotto con i suoi imbrogli, instaurando l’economia del possesso. Zaccheo sarà colui che realizza la parabola (19,1 ss).

14 – «alcuni soldati»: questi potevano essere sia soldati romani, sia, più probabilmente, Ebrei che formavano ad esempio le guarnigioni di Erode. Erano mercenari (polizia di dogana più che veri e propri guerrieri e militari) addetti al servizio della riscossione delle tasse per dare man forte agli esattori e scoraggiare le resistenze dei contribuenti. Anche ai soldati Giovanni non dice di lasciare il loro mestiere, ma di non fare violenza a nessuno, di non denunciare il falso e di accontentarsi della loro paga.

«non maltrattate»: l’imperativo aoristo negativo ordina di non dare inizio a un’azione nuova. È l’invito a non ripetere questo peccato, già commesso qualche altra volta. Si preferisce la traduzione: non ripetete maltrattamenti con nessuno, che non continuate a maltrattare, o peggio non fate maltrattamenti troppo ambiguo.

«non estorcete»: la Neo Volgata porta «non calunniate» nel senso di falsa denunzia a scopo di lucro. Anche qui Luca usa l’imperativo aoristo negativo che ordina di non dare inizio a un’azione nuova. Vale quanto detto sopra per il verbo precedente.

«contentatavi»: qui Luca usa l’imperativo presente positivo ordina di continuare un’azione già iniziata; anche questo verbo, al presente, dice che quelle guardie erano oneste: continuate ad essere contenti. L’insieme di questo episodio dimostra che era possibile esercitare onestamente sia la professione di esattore che quella di guardia; i consigli di Giovanni rafforzano infatti tale giudizio. Chiunque può produrre i frutti della conversione, non solo delle classi privilegiate, ma anche della gente comune e coloro che in apparenza sembrano impossibilitati ad attuare un simile invito.

15 – «il popolo era in attesa»: Quello che fin qui Luca ha proposto con la predicazione del Battista non è un minimale di morale cristiana, un’etica professionale realistica, in contrapposizione al discorso di misericordia di 6,27-38 (l’amore dei nemici). La predicazione di Giovarmi forma quel «popolo ben disposto» (1,17) ad accogliere la rivelazione dell’amore per i nemici di 6,27-38. Ben disposti ad accogliere Gesù si mostreranno, infatti, sia Matteo (Cfr. 5,27-32) che Zaccheo (19,1-10), entrambi pubblicani e così il centurione che ama il popolo e costruisce la casa di preghiera di Lc 7,1-10 e Cornelio, centurione incontrato da Pietro in At 10,lss. Nel cammino di conversione dall’idolo a Dio Padre, il Battista annuncia la conversione dall’idolo, Gesù invece la conversione al Padre.

«il popolo»: non si tratta del popolo ebraico nel suo insieme o in quanto tale, ma di quella folla che attorniava il Battista, a noi ormai nota nella sua realtà.

«si domandavano in cuor loro»: Luca a differenza di Matteo e Marco ama far emergere la problematica che investe la predicazione e l’opera di Giovanni (Cfr. Gv 1,25). Giovanni per il tono e il contenuto della sua predicazione, oltre che per il particolare atteggiamento che ha assunto, ha suscitato nella gente il pensiero che egli potesse essere il Messia atteso (Cfr. Gv 1,19-23).

«cuore»: dagli ebrei era considerato sede dell’intelligenza più che dei sentimenti.

«il Cristo»: dal greco Cristos = unto (in eb. masiah = messia); con l’articolo indica l’Atteso da tutti, il Messia autentico.

16 – «Giovanni rispose»: Il Battista non lascia spazio alle false attese, né si presta agli equivoci. È importante l’identificazione del vero messia e Giovanni, ricorrendo ad alcune forti contrapposizioni, ci aiuta a farlo.

Giovanni contrappone il suo battesimo a quello di Gesù:

  1. l’acqua al fuoco e allo Spirito Santo;
  2. infine se stesso a Gesù, che chiama «più forte di me».

Un particolare: l’evangelista Luca tralascia l’inciso «dopo di me» (comune a Matteo e Marco) perché intende mettere in rilievo la distanza tra Giovanni e Gesù. Nella II Dom. di Avvento C abbiamo evidenziato come Luca non insista sui rapporti tra Giovanni e Gesù, né sulla dipendenza tra la prigionia di Giovanni e l’inizio del ministero di Gesù (Cfr Mc 1,14).

«forte»: nell’AT era uno dei titoli divini, ad es. in Is 28,2 (ma anche in Dt 10,17; Ger 32,18; Is 10,21); in Is 9,5 la nascita del bambino di stirpe regale, che è il re-Messia, apportatore di pace, gioia e prosperità, tra i suoi titoli porta quello divino di «Dio forte» (ischyrós molto usato nella preghiera bizantina).

«non sono degno…»: Giovanni non solo dichiara di non essere l’atteso, ma è talmente consapevole della superiorità dì Gesù che nei suoi confronti non si sente neanche degno di prendere la posizione dello schiavo che scioglie il laccio dei sandali per la lavanda dei piedi. La lavanda dei piedi era un servizio reso obbligatoriamente all’ospite che si accoglieva in casa (Gen 18,4; 24,32; Lc 7,38.44), e ordinariamente veniva eseguita da uno schiavo non ebreo (1 Sam 25,41).

«Spirito Santo»: Lo Spirito era atteso per gli ultimi tempi (Cfr ad es. Gl 3,1-5) per restaurare con una nuova creazione gli uomini che lo avevano perduto.

«fuoco»: La nota del fuoco è frequente nell’A.T., in connessione sia con la Manifestazione divina o teofania, sia con la Parola divina che arde nel cuore e purifica, sia con la punizione dei nemici, sia con il Giudizio della fine dei tempi. Il Fuoco divino in effetti è Dio stesso che trasforma gli uomini purificandoli.

L’allusione allo Spirito-Fuoco rimanda con il pensiero alla Pentecoste, in cui i discepoli sono battezzati e consacrati per sempre; ma il medesimo effetto avviene nell’iniziazione cristiana che tutti abbiamo ricevuto.

17 – «Egli tiene in mano il ventilabro…»: Giovanni indica altri segni: quelli del Giudizio finale. L’immagine della spulatura indicava già nei profeti il giudizio di Dio: il grano buono condotto nel granaio al sicuro e la pula (normalmente conservata per molteplici usi) destinata al fuoco stanno ad indicare un premio e una pena durevoli come conseguenza del giudizio.

«pula»: L’immagine, come accade per quasi tutti i simboli neotestamentari, ha una matrice biblica e un trasparente significato. Pula della storia sono i malvagi, come dice il Salmo 1; alla pula sono comparati da Osea anche coloro che adorano idoli rifiutando il Dio vivente (13,3); pula per Isaia sono anche i nemici del popolo di Dio, gli oppressori, i tirarmi, le superpotenze (17,13). Anche la vita è raffrontata dal profeta Sofonia alla pula: «pula che scompare in un giorno» (2,2).

«ventilabro»: Il termine designa a volte la forca a più denti (o la pala), a volte il vaglio dal fondo piatto.

18 – «consolando evangelizzava»: cosi la traduzione letterale. Sulla linea del testo iniziale, che è ripreso dal libro delle Consolazioni di Isaia (40,1 ss), la predicazione di Giovanni è chiamata «consolazione» (annuncio del perdono di Dio) più che esortazione ed «evangelizzazione» in gr. euaggelion = lieto annuncio, che il Signore proseguirà e porterà al suo compimento.

Colletta:

Guarda, o Padre, il tuo popolo,

che attende con fede il Natale del Signore,

e fa che giunga a celebrare con rinnovata esultanza

il grande mistero della salvezza,

Per il nostro Signore…

Oppure:

O Dio, fonte della vita e della gioia,

rinnovaci con la potenza del tuo Spirito,

perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti,

e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio

del Salvatore, Gesù Cristo tuo Figlio.

Egli è Dio, e vive e regna con te…