DOMENICA «DELLA PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA»
L’Evangelo di questa domenica parla in primo luogo del Battista che annuncia un avvenimento straordinario, riferisce il suo grido lanciato nel deserto e descrive la sua missione: preparare la via, spianare la strada. La sua azione appartiene alla storia universale, ma di fronte all’avvento della Parola di Dio il suo nome si cancella. Dopo un lungo silenzio in cui non c’erano più stati né segni né profeti, Dio parla di nuovo, e l’eco della sua voce, che tuona attraverso le solitudini, annuncia una svolta decisiva della storia del mondo. Con un intervento ultimo che supera e compie le preparazioni antiche, Dio sta per venire.
La Parola che fa irruzione nel tempo riguarda tutti gli uomini. «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio». Luca raccoglierà ben presto l’eco universale di questa Parola, quando descriverà, nel libro degli Atti, il lungo viaggio e la prodigiosa diffusione dell’evangelo, da Gerusalemme fino a Roma (At 28,28). Quando Luca scrive, può dare un nome alla Parola, pienamente compiuta attraverso un mistero di morte e di risurrezione: Gesù Cristo, al di fuori del quale non c’è salvezza, egli è il solo che possa salvarci (At 4,12). Ma per vederlo bisogna prima morire a se stessi, convertirsi: è il messaggio di Giovanni.
Dio fa udire la sua voce in mezzo alle voci discordanti della storia. I grandi lo ignorano o lo disprezzano. Ma, prendendo la parola, uomini semplici non cessano di far risuonare l’invito al nuovo esodo dell’umanità verso la salvezza, verso il Cristo. Sapremo ascoltarli?
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Is 30,19.30
Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare i popoli
e farà sentire la sua voce potente
per la gioia del vostro cuore.
Il Profeta dopo aver annunciato la punizione del popolo ribelle (30,8-18), interpella il “popolo di Sion”, la Sposa diletta del Signore che ha il diritto all’annuncio favorevole e sfavorevole. La benevolenza del Signore muta il suo destino: Egli stesso viene per salvare con il popolo amato anche le nazioni pagane, tutti gli uomini che lo vogliano. Il Signore che viene in questo modo sovrano non vuole provocare il terrore ma la Gioia divina nel profondo del cuore dei fedeli.
Canto all’evangelo Lc 3,4.5
Alleluia, alleluia.
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Alleluia.
Il testo che cerca di orientare la proclamazione dell’Evangelo è ripreso dal libro delle consolazioni d’Israele (Is 40-55) nei vv. 3-5 del c. 40 che annunciano il ritorno del popolo dall’esilio e la presenza del Signore in mezzo ad esso. Affinchè questo possa accadere e primariamente il ritorno del Signore, anche oggi la condizione necessaria è preparare tutto e simbolo di questa volontà degli uomini è la strada nuova nel deserto. Solo così «tutta la carne», ossia tutta l’umanità potrà sperimentare la divina salvezza.
Il tema dominante di questa II Dom. di Avvento è dunque l’urgenza della conversione, come si evince facilmente anche dall’operato e dai richiami di san Giovanni Battista. Dopo le gioiose e limpide pagine dedicate dal medico Luca alle infanzie parallele di Gesù e del suo precursore Giovanni, la storia del ministero pubblico di Cristo è introdotta da un solenne avvio (vv. 1-2), secondo il metodo e il gusto degli autori greci, che al tempo del terzo evangelista erano i maestri della storiografia (non dimentichiamo che Luca era formato dalla cultura greca).
Un preciso riferimento cronologico e una galleria di personaggi inseriscono nella storia universale l’inizio dell’evangelo di Cristo. Il c. 3 infatti è da considerarsi l’inizio dell’Evangelo in senso stretto (l’evangelo dell’infanzia va considerato a sé); qui Luca pone un trittico (predicazione di Giovanni il Battezzatore, il battesimo di Gesù e le tentazioni di Gesù) che viene solitamente qualificato come «pre-sinottico». Anche se sono interrotti dalla «genealogia di Gesù», questi tre episodi costituiscono una grande unità letteraria, la cui memoria risale ad un periodo di tradizione orale del materiale evangelico, precedente ad ogni tentativo di redazione testuale, alla quale tutti e tre i sinottici annettono grande importanza. Il fatto che questa terna di episodi sia stata conservata in blocco da tutti e tre fa giustamente pensare ad un dato tradizionale dal quale nessuno ha ritenuto di doversi scostare. Tuttavia, come abbiamo verificato più volte, i ricordi della tradizione non sono stati passivamente accolti e trasmessi: ognuno degli evangelisti, e Luca in modo particolare, ha messo in atto la sua attività redazionale, come risulta dalle seguenti analisi:
- La prima caratteristica lucana la troviamo nel sincronismo iniziale (vv. 1 2). A differenza di Matteo e Marco, Luca introduce la comparsa di Giovanni il Battezzatore, preludio essa stessa alla venuta del Messia, con un «sincronismo a sei», che serve senz’altro a descrivere la situazione politica della Palestina di quei tempi (Cfr. 1,5; 2,1-3). In questo modo Luca non intende solo ubbidire a un canone storiografico, né intende offrire al lettore solo un quadro, il più completo possibile, dello status quo della Palestina d’allora. C’è indubbiamente in Luca una intenzione che possiamo chiamare teologica: egli infatti vuole far passare l’idea che la storia della salvezza si inserisce in un dato momento della storia universale; che il disegno salvifico di Dio trova la sua realizzazione in seno alla storia dell’umanità.
- La seconda osservazione da fare è che Luca, qui come altrove, tende a distinguere fino a separare nettamente tra loro, le varie parti di una grande unità. Ecco come: la parte dedicata a Giovanni (vv. 1-20) è nettamente delimitata entro il sincronismo iniziale (vv. 1-2) e la notizia relativa all’imprigionamento di Giovanni (vv, 19-20). Anticipando a questo punto la notizia che Matteo e Marco ci danno più avanti (rispettivamente in Mt 14,3-4; Mc 6,17-18) Luca separa volutamente e in modo molto forte il tempo di Giovanni da quello di Gesù (a tal punto da non nominare più Giovanni quando si tratterà del battesimo di Gesù). Anzi, Luca distingue nettamente la missione dì Giovanni da quella di Gesù anche da un punto di vista geografico: Giovanni infatti si muove solo nella regione del Giordano (3,3; Cf 4,1) nella quale Gesù non eserciterà mai nessuna azione (a differenza di Mt 4,15.25; 19,21 e di Mc 10,1). Lc 16,16 esprime chiaramente quanto ora rilevato: Giovanni viene a chiudere un periodo della storia della salvezza, quello veterotestamentario; solo con Gesù (Lc 4,43 e la sua differenza da Mt 3,2 ) prende inizio la predicazione del Regno. Dal punto di vista dei contenuti, questo brano di Luca si caratterizza per i seguenti tratti:
- viene accentuato il carattere pratico e quotidiano della conversione, specialmente con l’aggiunta dei vv. 10-14 (evangelo della III di Avvento C);
- viene sottolineato il fatto che Giovanni non è il Cristo, il Messia atteso (v. 15; Gv 1,20 e 3,28).
I lettura: Bar 5,1-9
Il coraggio di credere. La speranza del popolo di Dio è così grande che talvolta solo i poeti possono esprimerla. Questo testo pieno di luce fu scritto mentre Israele era oppresso, disperso, senza splendore né avvenire politico, e forse lo ha cullato in ingannevoli illusioni di potenza e di rivincita. Ma esso era soprattutto, e tale rimane, una splendida evocazione delle meraviglie che Dio prepara, poiché «ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» nell’ora dell’incontro gioioso tra il salvatore e l’umanità, incontro che Dio ha l’audacia di promettere ai suoi figli e che noi abbiamo l’ardire di sperare.
Attribuito al segretario fedele del grande Geremia, Baruc, il libretto che va sotto il suo nome (5 capitoli e l’Epistola di Geremia agli esuli babilonesi, cap. 6) è contenuto solo nella Bibbia greca dei Settanta. Se dal titolo il suo contenuto è profetico, esso è anche fortemente sapienziale (cap. 3-4). Lo scritto è di epoca post-esilica (sec. 5°-4° a. C.?), quando si trattava di rincuorare il popolo tornato in patria, ma che non aveva ancora ripreso il suo vigore spirituale, in quell’orribile «medio evo persiano», che con la larvata ma soverchiante dittatura politica e la sua oscurità aveva soffocato questo popolo. La struttura dei capitoli è finalizzata a far riconoscere la Giustizia, la Bontà e la Sapienza divina al popolo, il quale è descritto come immerso nella putredine della morte e del peccato, metafore per indicare in modo discreto l’idololatria alla quale in qualche modo aveva ceduto il popolo nell’esilio, lontano dalla patria e dal tempio, senza poter vivere la Legge santa del Signore. Si ha qui un’esortazione al popolo, che termina con il cap. 5, composto dei soli vv. 1-9.
Fin’ora era interpellato Israele (1,1 – 4,29), adesso (4,30-37 e 5,1-9) è investita la Città di Dio, Gerusalemme, il cuore d’Israele. L’esordio è l’appello a Gerusalemme in quanto Sposa del Signore, vista come protagonista del secondo esodo, quello dall’esilio, che sta per cominciare. Essa è esortata a deporre le vesti del lutto antico ed indossare le sontuose vesti nuziali della gioia, della festività ormai diventata realtà, «lo splendore della Gloria» che ormai in eterno le proviene da Dio. Simile movimento stava in Is 52,1. Ora, ecco la Sposa adornata per accogliere il suo Signore e Sposo che, sotto la forma simbolica dell’irresistibile divina Gloria, viene per lei, per restare con lei in eterno (v. 1).
Le vesti nuziali sono descritte con un simbolismo carico di significato salvifico. Non si tratta più di vesti materiali, e per così dire aggiunte alla persona come oggetti che a suo tempo si smettono. La teologia simbolica qui parla della Sposa, che per lo Sposo suo deve rivestirsi permanentemente del Signore stesso. E il Signore nel suo amore estremo la riveste con il manto della sua divina Giustizia e l’adorna con il diadema nuziale che è la «Gloria dell’Eterno». Qui per la prima volta si trova questo titolo divino nella Scrittura (v. 2). È analogo a questo il testo di Is 61,3.
Il Signore allora produce la sua teofania nuziale. Lo Sposo investirà il mondo stesso con lo splendore irraggiante che emana dalla Sposa. Tutta la creazione sotto il cielo ne sarà invasa, al duplice scopo che tutti conoscano il Signore d’Israele, e che Gerusalemme si faccia ella stessa teofania del suo Signore e Sposo (v. 3). Non solo. Tra gli indicibili gioielli nuziali il Signore dispone che la Sposa riceva il nome nuovo. «Dare il nome» da parte di Dio significa creare e individuare, e tenere in possesso. La Sposa sarà questa creatura nuova, diletta, a immagine stessa dello Sposo, che è Gloria sfolgorante. Questo è il nome: «Pace della Giustizia e Gloria della Pietà». Esso significa che la Sposa, essendolo ella stessa, porta al mondo la Pace divina, ossia la “Giustizia” divina, la suprema Misericordia soccorrevole e onnipotente, e la Gloria divina, che è donata a chi rivolge al Signore il suo culto sincero (v. 4).
Il testo adesso diventa esortazione alla forza nuova e propriamente divina, che riecheggia Is 60,1: Gerusalemme deve risorgere dall’abbattimento, deve porsi sulle alture, deve guardare verso l’Oriente, da dove sorge la Luce divina, che parla. E parla il Santo, comunicando la sua Parola efficace. Ed ecco che da oriente e da occidente, ossia da ogni parte, il Signore raduna i figli dispersi per la Sposa, adesso resa Madre feconda, resa ella stessa questi figli esultanti in quella Parola, nel memoriale rivolto al loro Signore (v. 5).
È descritta la storia antica e triste. Questi figli allora uscirono verso l’esilio, a piedi, spinti dalla soldataglia di aguzzini. Il Signore adesso li riconduce salvati, nella gloria di un’intronizzazione regale (v. 6), come figli del Regno, in sacra processione (qui Is 49,22; 66,20). Non solo. Ma Egli stesso si pone all’opera efficace, e così appiana nel deserto le alture, spiana le valli e livella il terreno (Is 40,4; 49,11, nella medesima situazione), affinché ora Israele, tutto il popolo santo, possa avanzarsi in solenne processione sacra, condotto dal suo Signore che si manifesta come la Gloria divina (vedi qui la Nube di giorno e la Colonna di fuoco la notte, nel primo esodo, quello dall’Egitto: Es 13,21) (v. 7). Anche la creazione adesso collabora, come sempre nei momenti decisivi, con il suo Creatore. Il deserto si trasforma volentieri in foreste e in alberi odoriferi, per facilitare la processione sacra (qui Is 41,19; 55,13) (v. 8).
La motivazione finale manifesta la bontà e l’amore del Signore per la Sposa. Egli infatti riporta il popolo suo nella gioia, come popolo illuminato dalla Gloria sfolgorante, con la Misericordia e con la Giustizia che provengono da Lui (v. 9). La Venuta del Signore così si compie, nell’incontro con il suo popolo esultante.
«Grandi cose ha fatto il Signore per noi» oggi tutta l’assemblea canta ancora con il salmista la gioia delle gesta potenti del Signore per il suo popolo.
Esaminiamo il brano
1 – «Nell’anno…»: Sulle soglie dell’evangelo Luca addensa una somma di informazioni destinate a costruire una solida impalcatura storica, secondo il suo dichiarato programma di comporre con diligenza «Un racconto degli avvenimenti che si sono compiuti tra noi» (1,1). Luca è il primo e l’unico evangelista che colloca la storia della salvezza o dell’evangelo nella storia di tutto il mondo, fornendo ben sei dati cronologici al riguardo. Non è la prima volta che l’evangelista inquadra i suoi componimenti in una cornice storica precisa (Cfr. anche 1,5 e 2,1-2) indicando epoche e personaggi, ma qui siamo al massimo livello di informazione. Se noi, oggi, non siamo ancora in grado di ricostruire esattamente la coordinazione di questi dati, ciò non è dovuto a negligenza o insicurezza da parte di Luca, ma alla mancanza di documentazione esauriente in proposito.
«decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare»: nome dell’imperatore romano Tiberio Claudio Nerone, che dopo la sua adozione da parte di Augusto, fu chiamato Tiberio Cesare Augusto (muore nel 37 d.C. ). Fu da Augusto associato al comando supremo dell’impero nell’anno 764-765 di Roma; ma pare che egli stesso si considerasse imperatore solo dal 767, armo in cui morì Augusto (14 d.C). In questo caso l’armo quindicesimo sarebbe il 782-783 di Roma, 29-30 d.C; Gesù avrebbe avuto 31-32 armi, il che concorda con il “circa trent’anni” di Lc 3,23, L’opinione prevalente degli studiosi è che l’evangelista si attenga all’uso delle province orientali dell’impero, partendo nel suo computo dall’anno in cui Tiberio, morto Augusto (19 agosto 14 d.C.) che lo aveva adottato e associato nel governo, restò solo arbitro della potenza di Roma.
Seguendo il calendario siriaco, Luca conta come un anno intero i mesi tra il 19 agosto (giorno della morte di Augusto) e il 1° ottobre, inizio dell’anno civile. L’anno decimo quinto di Tiberio comincerebbe perciò il 1° ottobre del 27 d.C, in accordo con l’indicazione del quarto evangelo (Gv 2,20), che colloca la prima Pasqua del ministero pubblico di Gesù nella primavera dell’anno 28 d.C.
«Ponzio Pilato era governatore della Giudea»: il codice D (codice occidentale o di Beza, VI sec.) precisa maggiormente e corregge con “essendo procuratore “. Ponzio pilato fu infatti il 5° procuratore o meglio praefectus della Giudea dal 26 al 36 d.C. come conferma l’iscrizione latina trovata in Palestina, a Cesarea marittima, nella primavera del 1961 dalla Missione archeologica italiana: pontius pilatus praefectus iudaeae.
«Erode tetrarca della Galilea»: in origine “tetrarca” (gr. tetr(a)-àrchés : «quattro» e «capo») voleva dire governatore della quarta parte di un territorio; passò poi a significare il governatore di una parte qualsiasi di un territorio diviso, fosse la metà o la terza o la quinta parte di esso; titolo superiore a governatore ma inferiore a re, benché indichi una indipendenza politica e amministrativa. Erode Antipa era un figlio di Erode il grande e resse l’amministrazione della Galilea dal 4 a.C. al 39 d.C, anno in cui fu mandato in esilio da Caligola. Uomo crudele e sospettoso, viveva in adulterio con Erodiade, sua cognata; fece imprigionare e poi decapitare Giovanni Battista.
«Filippo»: era un altro figlio di Erode il grande, quindi fratellastro di Antipa; governò sulla Iturea e Traconitide, territori a nord del lago di Tiberiade, dal 4 a.C. al 34 d.C, quando morì. Fu il migliore fra gli Erodi, anche se sposò la nipote Salome, dopo la famosa danza che costò la testa al Battista, circa il 31 d.C
«Lisania»: è conosciuto attraverso la testimonianza di Giuseppe Flavio e alcune iscrizioni rinvenute solo nel 1912 ad Abila, 30 Km a occidente di Damasco. Lisania ebbe l’Abilene (territorio della città di Abila) dal 4 al 37 d.C, tetrarchia piccola in confronto a quelle sopra nominate e perciò ricordata per ultima. Successivamente data ad Agrippa I dal 37 al 44, amministrata poi da un procuratore romano fino al 53, quando venne annessa al regno di Agrippa II; nel 100 venne incorporata alla provìncia romana di Siria.
Dopo aver sentito per tre volte il titolo tetrarca si ha l’impressione che i conti non tornino dal momento che solo tre dei figli di Erode sono stati citati.
In effetti la Giudea-Samaria si trovava precedentemente sotto l’autorità di Archelao (dal 4 al 6 d.C; Cfr. Mt 2,22), destituito poi dai romani e sostituito con un procuratore perché accusato di tirannide e scandalo.
2 – «sommo sacerdote Anna e Caifa»: il popolo di Dio è rappresentato da due sommi sacerdoti, che Luca presenta in greco con un singolare, reso per chiarezza con un plurale dalla traduzione liturgica.
Luca evita il plurale affinché non si pensi a due consoli (come in Roma), ma sia chiaro che il potere, unico in diritto, era diviso di fatto,
«Anna»: (o Anano, abbreviazione di Anania) sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C, deposto da Valerio Gallo, conservò sempre un così grande prestigio e una tale autorità di fatto da vedere ben cinque dei suoi figli e il genero Caifa arrivare al sommo pontificato.
«Caifa»: di cui si può dire visse nell’ombra del suocero Anna, fu sommo sacerdote dal 18 al 36 d.C, quando venne deposto da Vitiello.
Sono stati nominati sette personaggi storici, pagani e giudei, per indicare attraverso il numero sette la completezza della storia, non importa se pagana o giudea, perché ambedue sono un’unica realtà (Cfr. Ef 2,14: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’ inimicizia»). Ora lo scenario è completo: pagani e giudei sono gli spettatori dei grandi avvenimenti che stanno per avere inizio e i destinatari della Parola. L’universalismo di Luca è stato dichiarato con chiarezza e finezza in questa lista di nomi e in questa mappa geografica. Questi personaggi riappariranno quasi tutti, in un meccanismo ben congegnato, come attori-autori della passione del Signore.
«la parola di Dio scese su Giovanni»: É’ una espressione solenne (in gr. rhēma theoû), che richiama lo stile dell’AT: di fronte a questa parata di uomini potenti si erge la potenza della Parola di Dio, che scende su Giovanni Battista. L’evangelista considera l’avvenimento uguale a una delle comunicazioni divine fatte ai profeti; l’espressione vuole dunque indicare una comunicazione particolare.
Probabilmente Luca aveva presente, scrivendo questi versetti anche i titoli dei libri profetici in cui l’espressione «la Parola del Signore fu rivolta a…» si trova accompagnata ai nomi dei re sotto i quali si svolse il ministero profetico (Cfr. Ger 14-2; Os 1,1; Mic 1,1; Ag 1,1).
Dopo secoli di allarmante silenzio “la Parola” per eccellenza, viva e dinamica, risuona sulle labbra del profeta che chiude L’AT.
«figlio di Zaccaria»: anche la menzione del nome del padre si riallaccia assai chiaramente alla tradizione profetica (Cfr. Is 1,1; Ger 1,1; Ez 1,3; Bar 1,1; Os 1,1 ecc.).
«nel deserto»: Il deserto è l’ambiente dove Giovarmi riceve la Parola. Nella tradizione Biblica il deserto è il luogo tradizionale della manifestazione di Dio e luogo della prova (Cfr. Os 2,16ss; Dt 8,2-4 ecc.).
Il deserto richiama inoltre l’esperienza fondamentale dell’esodo, l’uscita dalla schiavitù verso la libertà e il servizio di Dio. In esso si è formato il popolo di Dìo, divenuto popolo nel comune pericolo scampato, nelle comuni difficoltà superate, nella comune meta agognata, nutriti dalla stessa parola e dallo stesso cibo.
Nel deserto non c’è nulla che uno possegga più dell’altro: si è necessariamente uguali, senza bagagli ingombranti, uniti agli altri; ciò che hai in più ti appesantisce il cammino, e, se non è buttato o condiviso, può diventare motivo di divisione e disavventure. Dunque il deserto è il luogo del transito, tempo di rinnovamento, preparazione a rientrare nella vita piena.
3 – «percorse tutta la regione del Giordano»: l’espressione vuole indicare la valle del Giordano; in particolare ì territori fertilissimi, in cui sorgevano centri di gran lusso, come Archelaide e Fasaele, ma particolarmente Gerico, vera regione dell’opulenza, specialmente sotto Erode il Grande. L’evangelista Luca distingue bene perciò il deserto vero e proprio in cui avvenne la vocazione di Giovanni e la regione in cui si svolse la sua predicazione, regione che alternava tratti desertici ad oasi incantevoli.
«per predicare»: il verbo kèryssò, tipico della predicazione profetica ha il significato fondamentale di: «agire come un Araldo».
«un battesimo di conversione»: il battesimo di Giovarmi richiama si il genere delle abluzioni rituali in uso nel mondo ebraico, ma si distingue nettamente da queste. Esso, infatti, è segno non di un qualsiasi bisogno di purificazione, ma di un radicale mutamento interiore, di un ritorno ai pensieri e alla volontà del Dio dell’Alleanza. Resta comunque un battesimo che, a differenza di quello istituito da Cristo «con Spirito Santo e fuoco» per cancellare radicalmente i peccati di tutti (Lc 24,47; At 3,19 ecc.), è «con acqua» (3,16), amministrato da uno che è inferiore a Cristo. I lettori di Luca sanno già che la missione di Giovanni è di dare al popolo di Dio «la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati» (1,77), che Cristo soltanto può dare.
«di conversione»: ( dal gr metánoia = mutamento di pensiero ) è una traduzione migliore invece di “penitenza”. È una parola cara a Luca, che, insieme al verbo corrispondente, la utilizza ben 14 volte; nel mondo greco classico era usata per indicare un atteggiamento interiore circa una condotta (morale o politica) antecedente. Per i grandi padri del deserto “fare metània” era fare la “condanna di se stessi”; riconoscere la propria miseria e correggere quindi le proprie colpe e i propri atteggiamenti.
4-6 – «sta scritto…»: un’azione completa nel passato, ma che dura nei suoi effetti fino al presente e tende al futuro. E’ un termine tecnico nel N.T. per indicare quanto nell’AT venne scritto sotto l’ispirazione divina.
«una voce»: è un grido umano, ma non ancora una parola. L’espressione si richiama al costume antico di un araldo che precedeva il corteo reale in tutte le città e paesi che questi doveva attraversare, bandendo ovunque l’invito a riparare le strade e a riattivare i ponti per rendere più agevole il cammino del re. Il profeta Isaia (40,3-5: « Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato») con queste parole invita a far diventare agevole la strada per il ritorno dalla schiavitù di babilonia.
«Preparate la strada…»: con tutta la tradizione evangelica (Mt 3,3; Mc 1,3; Gv 1,23) Luca vede nel ministero del Battista il compimento di una profezia di Isaia, appartenente a quella parte del libro che con maggior insistenza annuncia l’universalità della salvezza futura.
«ogni monte e ogni colle sia abbassato»: sottolinea l’esigenza di umiltà, condizione necessaria per accedere al regno di Dio che riempie gran parte del terzo evangelo fin dal cantico esultante di Maria nel Magnificat (Cfr. l,51-53a; 14,11; 18,14).
«ogni uomo»: (in gr. sárx= carne; ovvero tutto il mondo, ognuno, tuti) Luca è il solo a prolungare la citazione fino al punto in cui è menzionata la salvezza di «ogni uomo», che è il tema sovra ogni altro prediletto dal terzo evangelista.
«vedrà la salvezza»: «ópsetai tò sōtḗrion» L’evangelista Luca modifica il testo di Isaia sostituendo il termine “gloria” con il vocabolo “salvezza”.
Il termine greco qui usato è ” sōtḗrion “, alla lettera lo “strumento di salvezza”; la salvezza per eccellenza, aspettata con varie sfumature di significato, già espressa nel cantico di Simeone (2,30) e in perfetta linea con la concezione lucana dell’universalità della salvezza messianica. Il vocabolo ricorre qui e alla fine dell’opera lucana (At 28,28: «Sia dunque noto a voi che questa salvezza (sōtḗrion) di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!»), come se Luca avesse voluto creare una inclusione letteraria che caratterizzasse stilisticamente e qualificasse teologicamente tutta la sua opera (Evangelo + Atti). Lo strumento di-salvezza è Cristo; contemplato dalla Chiesa come venuto una volta per sempre, ma contemporaneamente come colui che sta qui con noi, che resta con noi, che tornerà da noi. Per questo l’annuncio di Giovanni Battista è permanente e attuale per tutti gli uomini, «tutta la carne» dei nostri tempi.
II Colletta:
O Dio grande nell’amore,
che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno,
raddrizza nel nostri cuori i tuoi sentieri,
spiana le alture della superbia,
e preparaci a celebrare con fede ardente
la venuta del nostro salvatore,
Gesù Cristo tuo Figlio.
Egli è Dio…