“Quando fu vicino, vedendo la città, pianse (o anche: “scoppiò in pianto”) su di essa” (v. 41). Poche parole, di grande intensità, che si fa ancora più toccante quando si immagina visivamente la scena. La tradizione cristiana antica ha voluto fissare questo luogo e segnarlo con la chiesetta del Dominus flevit, sul monte degli Ulivi, da dove si gode di una delle viste più suggestive della città di Gerusalemme; a partire del tempio, oggi la “Spianata del tempio” con le sue moschee.
Cosa vede Gesù? Vede dinanzi a se l’imponenza di un edificio religioso con le sue liturgie e tutt’intorno un denso intrico di case, viottoli e scale, e poi un formicolare di uomini e donne, indaffarati e ignari. E su tutto questo la cappa di un’insensata ottusità, accompagnata da una incolpevole piccolezza. Perché certo anche a Gesù, in quel momento, l’essere umano sarà apparso troppo piccolo per essere all’altezza della sua vocazione. E per questo piange…
Gesù da quel luogo supremo non maledice, come troppo spesso si è ripetuto commentando questo brano, ma piange! Abbiamo qui uno dei rari casi in cui il Maestro lascia scorrere le sue lacrime senza nasconderle. Non le cela perché sono lacrime preziose, rivelatrici, che narrano ancora una volta l’unico movente di tutto il suo agire. Sono preziose come quelle che, a breve distanza di tempo (anche lì appena prima di entrare in Gerusalemme) e di spazio (appena al di là della sommità del monte degli Ulivi), Gesù versa sull’amico morto, secondo il quarto vangelo il quale ricorda che “scoppiò in lacrime” (Gv 11,35).
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Gesù piange perché vede la potenza distruttrice del male, ne vede l’ineluttabile corso. Rievoca anche il suo cammino, la sua predicazione e i suoi gesti di cura. Ne ricorda alcuni frutti, di cui i discepoli che lo attorniano sono segno, sebbene fragile come mostreranno i fatti che seguono, ma misura anche la pochezza dei risultati, che ora si esprime in quell’insensata cecità che porta alla rovina.
“Se avessi compreso anche tu…” (v. 42), dice Gesù in un dialogo appassionato con una città che resta sorda alle sue parole. Se avessimo compreso anche noi, che siamo parte di questa città che è il mondo, e che sono i mondi in cui ci muoviamo… “Se avessi compreso anche tu … ciò che porta alla pace. Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi” (v. 42).
C’è una via che porta alla pace, ma a volte siamo troppo piccoli per vederla. E c’è un tempo in cui è possibile percorrerla, cui ne segue uno in cui essa è nascosta. Gesù vede quella via e conosce quel tempo, e soffre perché la città non riesce a vedere quello che lui vede, e per questo andrà, ignara, verso un travaglio di distruzione. Ineluttabile? Ci sono dei momenti in cui è così, sembra dirci il vangelo di oggi, perché noi poveri esseri umani non siamo capaci di fare meglio.
Ma la storia non finisce qui. Gesù si farà lui stesso via per la pace. Farà del suo corpo il nuovo tempo di cui qui si annuncia la distruzione, e della sua carne e del suo sangue il nutrimento per una nuova comunione. Perché quello che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio”, come Gesù aveva appena detto (Lc 18,27).
Questo pianto, allora, è anche promessa di vita, che Gesù dona ancora una volta, perché lui resta fedele nonostante noi. Ma una vita che passerà attraverso una morte, quella di Gesù, e una distruzione, quella di tutto ciò che la nostra ottusità ha eretto.
fratel Sabino
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