L’invito di Gesù alla conversione personale continua a essere pressante. Gli interlocutori di Gesù pensavano che la causa di alcune disgrazie e ingiustizie fossero i peccati delle stesse vittime. Persino i suoi stessi discepoli dimostrarono di avere quella stessa mentalità quando videro il cieco dalla nascita: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9, 2). Costituivano se stessi giudici inappellabili delle coscienze altrui. Tuttavia Gesù li rimprovera per questo loro atteggiamento, perché non esaminano la propria vita, ignorano lo stato della loro anima, e così non si convertono.
La conversione è un ritorno a Dio e con la sua luce riconoscere il proprio peccato e dare inizio a una vita nuova, secondo le parole del Salmo: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità […]. Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi (Sal 51, 3.5). “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”, ricordava Papa Francesco nel convocare il giubileo straordinario della misericordia[1].
La parabola di Gesù ci parla della pazienza di Dio. Il padrone dell’albero di fichi piantato nella vigna aspetta da tre anni che quell’albero dia frutto ed è disposto ad aspettare un quarto anno, perché il vignaiolo ha promesso che farà tutto il possibile perché il raccolto successivo non sia ancora una volta infruttuoso. Sicuramente “pietoso e misericordioso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 103, 8); però la pazienza divina non può essere una scusa per rimandare la conversione, per non ricorrere continuamente alle fonti della grazia divina: i sacramenti, la linfa divina che impregna e vivifica la nostra anima e ci fa diventare persone che danno frutto.
[1] Papa Francesco, Misericordiae vultus, n. 1.
Luis Cruz
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