p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 10 Ottobre 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 10 ottobre 2021.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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Lascia i beni e avrai il Bene

Scelto come arbitro della gara musicale fra il flauto di Pan e la lira di Apollo, il re Mida aveva attribuito la vittoria al primo. Solo uno sprovveduto, uno con la sensibilità musicale di un asino poteva sbilanciarsi in un simile giudizio. Gli crebbero orecchie asinine e divenne il simbolo dell’uomo scriteriato. Un giorno Dioniso, riconoscente per un favore ricevuto, gli permise di manifestare un desiderio, promettendo di esaudirlo. Mida, senza riflettere e guidato dalla sua proverbiale stoltezza, chiese che ogni cosa da lui toccata si mutasse in oro e così avvenne, ma da quel momento non fu più in grado né di mangiare né di bere.

Di questi miti sorride solo chi non si rende conto che rispecchiano la nostra realtà e denunciano scelte insensate che sono le nostre.

Siamo noi che, fra il suono della lira apollinea, simbolo dell’armonia, dell’equilibrio delle passioni, della moderazione, e la melodia del flauto, strumento di seduzione e stimolo agli eccessi, preferiamo il secondo.

La bramosia insaziabile dell’oro, la cupidigia dei beni, l’idolatria del denaro sono causa di preoccupazione, inquietudine e affanno, tolgono il respiro e rendono impossibile la vita, ma continuano a essere ritenuti obiettivi per i quali vale la pena vivere. Tutto ciò che si tocca – la professione, la ricerca scientifica, le amicizie, la famiglia e, a volte, la stessa religione – è apprezzato… se produce oro. Questa è la follia.

“Uomo dalle orecchie d’asino” era considerato dai saggi dell’antichità, “pazzo” è stato definito da Gesù chi fa dell’accumulo dei beni lo scopo della propria esistenza (Lc 12,20).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non voglio puntare la vita sui beni, ma sul Bene”

Prima Lettura (Sap 7,7-11)

7 Pregai e mi fu elargita la prudenza;
implorai e venne in me lo spirito della sapienza.
8 La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto;
9 non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento.
10 L’amai più della salute e della bellezza,
preferii il suo possesso alla stessa luce,
perché non tramonta lo splendore che ne promana.
11 Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.

L’intelligenza, la capacità di scoprire i misteri della scienza e della tecnica, la ricchezza, la salute, la bellezza, il potere, possono essere ereditati dai propri genitori. La sapienza no. La saggezza che induce a fare scelte sensate e permette di ottenere la pienezza di vita, non viene dagli uomini, ma dal cielo, è dono di Dio.

Salomone racconta così la sua origine: “Sono un uomo mortale, come tutti, formato di carne nel seno di una madre, frutto del seme di un uomo e del piacere coniugale. Appena nato ho respirato l’aria comune, levando nel pianto, uguale a tutti, il mio primo grido” (Sap 7,1-3).

Era un bambino straordinario, fin da piccolo rivelò doti eccezionali, ma gli mancava la qualità più importante, quella che nessun uomo si può dare, la sapienza. La lettura di oggi spiega come la ottenne: “Pregai e mi fu elargita” (v. 7).

Il riferimento è al celebre sogno sul monte di Gàbaon dove il Signore apparve a Salomone in sogno, durante la notte, e gli disse: “Chiedimi ciò che io devo concederti”. Salomone rispose: “Io sono un ragazzo; non so come regolarmi. Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1 Re 3,4-15).

L’istruzione, la cultura, l’erudizione sono fornite dagli insegnanti e dai precettori, la capacità di discernere ciò che è bene e ciò che è male può essere ottenuta solo mediante la preghiera, attraverso l’incontro con Dio sul monte dove egli si rivela. Se si rimane in basso, se non si eleva il cuore a Dio nell’ascolto della sua parola, si è condizionati dai pensieri degli uomini, privi della prudenza (v. 7).

Nella seconda parte del brano (vv. 8-10) Salomone tesse l’elogio della sapienza divina concessagli dal cielo e, paragonandola alle creature più affascinanti, conclude: tutto ciò che gli uomini apprezzano, gemme, oro, argento, al confronto sono un nulla (v. 8), sono un pugno di sabbia, fango (v. 9); la salute, la bellezza fisica (cantata da un intero libro della Bibbia, il Cantico dei Cantici) il possesso di regni, scettri e troni non meritano di esserle paragonati (vv. 9-10). Neppure la luce, la più splendida delle creature, regge il confronto, perché la sapienza “è più bella del sole, supera ogni costellazione di astri, vince la luce del giorno” (Sap 7,29).

Ma davvero per scegliere la saggezza bisogna rinunciare a tutto ciò che è bello nel creato?

L’autore del libro della Sapienza non mostra alcun disprezzo per i beni temporali, egli è convinto che siano molto buoni e proprio per questo li paragona alla sapienza. Tutto ciò che Dio ha fatto è bello e buono, ma è per ottenere questi beni che è necessaria la sapienza.

Nell’ultima parte del brano (v. 11) Salomone riconosce che, proprio per aver scelto la sapienza, il Signore gli ha concesso tutti gli altri doni.

La sapienza è una sposa deliziosa. Chi si lega a lei per amore, chi non volge gli occhi ad altre sapienze, anche se seducenti, chi la introduce nella propria casa, farà una scoperta sorprendente: in dote lei porterà con sé ogni bene.

Chi diviene saggio, chi impara a dare alle creature il loro giusto valore e fa scelte conformi al progetto di Dio non perde nulla, guadagna tutto: ottiene la vera gioia.

Seconda Lettura (Eb 4,12-13)

12 La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.
13 Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.

Le chiacchiere vuote non producono nulla, non trasformano il cuore dell’uomo. La parola di Dio è completamente diversa e l’autore del brano di oggi ne elenca le caratteristiche.

Essa è viva ed efficace. Una volta uscita dalla bocca del Signore produce sempre qualche effetto perché possiede in sé la vita e la forza di Dio. Il profeta Isaia la paragona alla pioggia che non cade mai inutilmente, non torna in cielo senza aver fecondato la terra (Is 55,10-11).

 Se le nostre comunità rimangono sempre le stesse, se la vita delle nostre famiglie non migliora, questo dipende dal fatto che la parola che predicatori, catechisti e genitori annunciano non è né viva né efficace, non è parola di Dio, ma solo sapienza di uomini.

 Poi è tagliente e penetrante più di una spada affilata; è dura e inflessibile, non si lascia piegare dai venti delle nuove dottrine e penetra inesorabile fin nell’intimo di chi l’ascolta. Non è una piuma che accarezza né una stampella cui ci si può appoggiare per tirare avanti anche in condizioni di paralisi spirituale.

Infine è giudice di ogni azione. La parola che lascia quieti e tranquilli, che non disturba, che permette di convivere con cattive abitudini, capricci, animosità, risentimenti, non è parola di Dio.

Vangelo (Mc 10,17-30)

17 Mentre Gesù usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. 18 Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”.
20 Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. 21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
23 Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”. 24 I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: “Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! 25 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. 26 Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: “E chi mai si può salvare?”. 27 Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”.
28 Pietro allora gli disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. 29 Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna.

Marco ha inserito le richieste più impegnative della morale cristiana nella sezione centrale del suo vangelo, non prima, perché possono essere capite solo da chi ha fatto la scelta di seguire Cristo nel dono della vita. Domenica scorsa Gesù ha parlato dell’indissolubilità del matrimonio, oggi pone i discepoli di fronte alla necessità di rinunciare a tutti i beni per seguire lui.

Nella prima parte del brano (vv. 17-22) entra in scena, correndo, un giovane ricco che si getta in ginocchio di fronte a Gesù e gli chiede: “Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (v. 17).

Il comportamento di quest’uomo è davvero singolare, pare un malato che si avvicina a Gesù per implorare la grazia della guarigione.

Dal seguito del racconto apprendiamo che è una persona retta e che è cosciente di aver condotto una vita irreprensibile. Eppure si percepisce che in lui è presente una profonda inquietudine, una pena intima e indefinita che lo fa soffrire quasi fosse un’infermità spirituale. Cerca Gesù perché ha intuito che solo da un maestro insigne come lui può venire la parola che comunica serenità e speranza.

È preparato anche dal punto di vista teologico: non parla di “conquistare, meritare, avere diritto”, ma di ereditare la vita eterna. L’eredità non è guadagnata, non la si riceve come premio, come salario di un lavoro, ma è data gratuitamente. Come ogni pio israelita, è cosciente che da Dio tutto si riceve in “eredità”: la terra (Sl 135,12), la legge (Sl 119,111), la benedizione, le promesse (Ebr 6,12), il regno di Dio (Mt 25,34), il Signore stesso, eredità d’Israele (Sl 16,5). Nulla è concesso come ricompensa per le buone azioni. Tutto è dono.

Malgrado abbia capito che la vita eterna è un’eredità, chiede a Gesù cosa deve ancora fare. Si rende conto che non deve solo attendere, ma che è necessario disporsi perché il Signore non forza nessuno ad accogliere il suo dono.

Com’erano soliti fare i rabbini, Gesù gli risponde con una controdomanda che può essere parafrasata così: Tu hai già un maestro insigne, Dio che ti istruisce attraverso le Scritture. Cosa pretendi di più? Non è forse scritto: “Tutti saranno ammaestrati da Dio” (Gv 6,45)? Poi, per aiutarlo nella sua ricerca, gli richiama i precetti che il Signore ha rivelato al suo popolo e che costituiscono la condizione minima per accedere alla vita. Cita il decalogo, ma in modo incompleto, tralascia i primi tre comandamenti, quelli che riguardano Dio. Per lui è sufficiente l’osservanza dei doveri nei confronti dell’uomo, infatti, l’unico modo per manifestare amore a Dio è condividere il suo progetto in favore dell’uomo, come ha ben compreso l’apostolo Giovanni: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).

L’osservanza dei comandamenti non costituisce però un merito, è motivo di riconoscenza al Signore, l’unico maestro buono che ha consegnato al suo popolo la legge della vita. Rifletteva il salmista : “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti” (Sl 112,1) e, con acutezza, i rabbini chiosavano: la gioia si trova “nei suoi comandamenti”, non nella ricompensa che riceverà chi li osserva. Il bene compiuto è premio a se stesso, come il male castiga chi lo commette.

La risposta del ricco è sorprendente. Dichiara, convinto, di aver osservato tutti i comandamenti fin dall’uso della ragione (v. 20).

Giovanni assicura che “chi sostiene di essere senza peccato è bugiardo” (1 Gv 1,8). Qualche dubbio sull’affermazione del giovane ricco pare dunque ragionevole.

Probabilmente non era proprio senza macchia, anch’egli doveva aver ceduto a qualche debolezza, eppure il suo giudizio sereno e pacato contiene un prezioso messaggio: è un invito a valutare con un certo ottimismo la propria vita. Davanti a Dio – esorta Giovanni – dobbiamo rassicurare il nostro cuore “qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 3,19-20). La presenza di qualche manchevolezza non impedisce di considerare buona, nel suo complesso, una vita spesa per amore. Angosciarsi, sentirsi rifiutati da Dio, autopunirsi perché non si è perfetti non è segno di santità, ma di orgoglio. Non è lecito chiamare bene ciò che è male, ma non si può nemmeno essere crudeli con se stessi, altrimenti si finisce per diventarlo anche con gli altri.

I rabbini insegnavano che, per essere giusti, era sufficiente osservare i comandamenti. Gesù, udita l’affermazione del ricco, “lo fissò e lo amò” (v. 21).

Marco si compiace di ricordare gli sguardi di Gesù: quello indignato contro i farisei (Mc 3,5), quelli rivolti ai suoi ascoltatori (Mc 3,34), alla folla che lo circonda (Mc 5,32), ai discepoli (Mc 10,23), al disordine che regna nel tempio (Mc 11,11). Egli guarda l’uomo ricco con affetto, con compiacimento, perché lo vede preparato per fare il salto di qualità e allora butta lì la richiesta decisiva: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi” (v. 21).

I rabbini parlavano spesso dei forzieri del cielo in cui sono conservati i tesori accumulati dai giusti sulla terra. Insegnavano: “I giusti attendono con piacere la fine e lasciano questa vita senza paura. Infatti hanno presso Dio un tesoro di opere”. Gesù riprende questa immagine per mettere in risalto l’inconsistenza dei beni di questo mondo e per indicare il modo di impiegarli secondo Dio. Potremmo parafrasare così la sua proposta: “Spogliati di tutti i beni che hai, non buttarli via, ma regalali a chi è nel bisogno; rimarrai povero e Dio sarà il tuo tesoro”.

Non si tratta di un nuovo precetto, aggiunto a quelli del decalogo, ma dell’invito ad aderire a una logica completamente nuova. Chiede la rinuncia a qualunque impiego egoistico non solo del denaro, ma di tutti i beni, dell’intelligenza, della salute, della bellezza, del proprio tempo, di tutte la capacità ricevute da Dio. Non si può essere suoi discepoli se non si stacca il cuore da ciò che si possiede. Insensato è chi trattiene gelosamente per sé i beni fino a quando giungerà, ineluttabile, il momento dell’esproprio.

Anche i filosofi cinici avevano predicato il radicale distacco dalla proprietà. Cratete, discepolo di Diogene, si era sbarazzato delle sue considerevoli sostanze gettandole in mare. Di fronte ai beni di questo mondo, Gesù assume un atteggiamento completamente diverso. Non li disprezza, non invita a distruggerli, ma indica come valorizzarli: vanno donati ai poveri. Non chiede di dare qualcosa in elemosina, ma di rinunciare a tutto.

Come rendere praticabile questa esigenza?

È stata escogitata una soluzione ingegnosa. Si è spiegato che questa non è una condizione indispensabile per essere discepoli, si tratta di un consiglio riservato ad alcuni eroi. I cristiani sono stati così divisi in due classi: da una parte i “perfetti”, coloro che, facendo voto di povertà, si impegnano a praticare integralmente ciò che Gesù ha ordinato; dall’altra i “cristiani semplici”, che possono continuare a possedere i loro beni, rassegnandosi però a rimanere “imperfetti”.

Questa soluzione è un trucco maldestro per sfuggire alla richiesta che Gesù rivolge, non ad un gruppo ristretto di “perfetti”, ma a chiunque voglia essere suo discepolo.

L’ideale del cristiano non è la miseria, la fame, la nudità, ma la condivisione fraterna dei beni che Dio ha messo a disposizione di tutti. Peccato non è diventare ricchi, ma arricchire da soli. Nel Vangelo dei Nazareni, un libro apocrifo del II secolo d.C., l’episodio è riferito con l’aggiunta di alcuni particolari curiosi. Dopo la richiesta del Maestro, “il ricco incominciò a grattarsi il capo; non era contento. Allora il Signore gli fece osservare: molti dei tuoi fratelli, figli di Abramo, affondano nella sporcizia e muoiono di fame, mentre la tua casa è ricolma di ogni bene e nulla ne esce per loro”.

In Marco la vicenda si conclude in modo amaro: il ricco sceglie di rimanere con i suoi beni; non ha il coraggio di fidarsi della proposta di Gesù, non se la sente di rischiare, ha paura di perdere tutto e, triste, si allontana. È afflitto perché non è riuscito a staccarsi dai beni. Non si è reso conto che il cuore dell’uomo è fatto per l’amore infinito e fintanto che è schiavo delle cose non può che rimanere deluso e infelice.

Il chicco di grano, una volta seminato, germoglia, cresce e produce lo stelo e la spiga; questo processo non può essere diverso, perché asseconda la natura del seme. L’uomo è fatto ad immagine di Dio e nel suo cuore sente, incontenibile, il bisogno di infinito. Anche se represso, tacitato, dimenticato, questo desiderio riemerge e nessuna creatura è mai in grado di saziarlo.

Il racconto non è concluso, ma non è difficile ricostruire il seguito.

Il giovane ricco non era un inesperto, mosso dall’entusiasmo di un momento; era cresciuto alimentando profonde convinzioni religiose, perciò non è pensabile che, dopo l’incontro con Gesù, si sia abbandonato alle dissolutezze, abbia cominciato a trasgredire i comandamenti. Ha certamente continuato a essere giusto, pio e a condurre una vita impeccabile… ma non è diventato cristiano, non è riuscito a fare il salto di qualità.

La seconda parte del brano (vv. 23-27) riferisce la considerazione di Gesù sul pericolo della ricchezza. È lei l’impedimento più grave per chi vuole diventare discepolo. Possiede la forza seduttrice di un dio perché, ogni volta che si ricorre a lei, risponde concedendo ciò che le si chiede. Costituisce un ostacolo quasi insormontabile per chi vuole entrare nel regno dei cieli. “È più facile – assicura Gesù – che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Qualcuno ha cercato di interpretare questa strana immagine spiegando che non si tratta di un cammello, ma di una gomena (le due parole in greco sono molto simili), oppure che la cruna d’ago fosse una piccola porta della città di Gerusalemme. Meglio mantenere l’immagine paradossale impiegata da Gesù che parla di una decisione impossibile (v. 27). Il distacco da tutto ciò che si possiede esige un atto di generosità tale che solo un miracolo di Dio può aiutare a compierlo.

I discepoli ai quali il Maestro si rivolge non sono ricchi, eppure rimangono sbigottiti di fronte alle sue parole. Hanno capito che anche chi è povero deve spogliarsi di tutto. Non si tratta di dare molto o poco, ma di offrire tutto ciò che si è e ciò che si ha, molto o poco che sia.

Nell’ultima parte (vv. 28-31) sono elencate le persone e le cose da cui il discepolo è chiamato a staccarsi. Riguardo a questa duplice lista, posta prima sulla bocca di Pietro poi su quella di Gesù, notiamo anzitutto l’inattesa presenza dei familiari fra i beni ai quali bisogna rinunciare.

È facile confondere l’amore con l’attaccamento morboso. C’è un egoismo personale, ma c’è anche un egoismo più subdolo, che può ammantarsi di virtù, ed è l’egoismo familiare. Chi pensa solo a sé, alla propria moglie e ai propri figli rimane un egoista, è incapace di guardare oltre la soglia della propria casa. Non può essere felice perché ha atrofizzato il proprio cuore, reprimendo l’amore universale per il quale è fatto.

Fra le persone cui si deve rinunciare non è compresa la moglie. La ragione è che Pietro e gli altri apostoli non hanno rinunciato alla propria sposa. Essi non hanno disgregato le loro famiglie; questo non sarebbe stato né giusto né umano. Quando, per ragioni apostoliche, hanno dovuto spostarsi e cambiare residenza, hanno sempre agito di comune accordo con le loro mogli che, generalmente, hanno accettato di accompagnarli (cf. 1 Cor 9,5). L’impegno per il vangelo non può essere posto in contrapposizione con i doveri nei confronti dei familiari.

È significativo infine che, fra le cose di cui il discepolo riceve il centuplo, non compaia il padre. Già in questo mondo l’amore generoso viene compensato con il centuplo in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi, ma non in “padri”. Nella comunità cristiana infatti non devono più esistere “padri” perché tutti sono fratelli; l’unico Padre è quello che sta nei cieli (Mt 23,9).


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News