Commento al Vangelo di domenica 19 Settembre 2021 – Comunità di Pulsano

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DOMENICA «della seconda predizione della passione e resurrezione»

Il figlio dell’uomo è in cammino sulla strada che lo porta alla passione. I suoi discepoli non lo comprendono, sono perplessi e smarriti. Nonostante tutto, Gesù si sforza di condurli con sé, iniziandoli a poco a poco al loro ruolo di messaggeri di un Messia sofferente. Ma come è difficile per loro accettare un simile insegnamento! Mentre avanzano verso Gerusalemme, quanto bisogno hanno di uscire dalla loro cecità! «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». Gesù si rende subito conto di come sono lontani dall’aver compreso: stanno discutendo su chi sarà il più grande nel regno temporale che essi attendono. Abituati alla loro umile condizione, sognano un avanzamento che dia loro prestigio e potere, che li innalzi ai posti di comando. Volete essere i primi? dice Gesù. Siate gli ultimi! Volete essere grandi? Fatevi piccoli! Volete dominare? Fatevi servi! È un paradosso che non si fonda su considerazioni teoriche, ma sull’esempio concreto che il servo sofferente continua ad offrire ai suoi.

E noi, di che cosa discutiamo lungo la strada della nostra vita? Forse ci troveremmo molto imbarazzati, se Gesù interrogasse anche noi in questo modo. Parlando di ciò che più gli sta a cuore, ciascuno rivela il proprio intimo. Qualcuno sogna di avere potere e autorità? Si chieda piuttosto in che modo potrà meglio servire gli altri, in che modo potrà andare incontro a chi ha bisogno d’aiuto. Come i genitori, che dovrebbero quasi istintivamente mettere tutta la loro autorità al servizio dei figli, subordinandola al loro bene, così dovrebbe fare ogni cristiano desideroso di conformarsi al modo di essere di Gesù, accogliendo come suoi inviati i piccoli e i deboli. Non c’è modo migliore per raggiungerlo e per unirsi a lui in quel viaggio attraverso la Galilea che egli compie in segreto con i suoi.

Iniziamo anche noi oggi il nostro viaggio con Gesù:

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso

«Io sono la salvezza del popolo»,

dice il Signore,

«in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò,

e sarò il loro Signore per sempre».

Nell’antifona d’ingresso, un centone di reminiscenze bibliche, il Signore si proclama solennemente come l’unica Salvezza per il popolo suo, il popolo della sua alleanza. E promette che non esiste tribolazione da cui non salvi, se invocato, esaudendo sempre, intervenendo con potenza, in modo da ristabilire l’alleanza fedele. Egli vuole essere «il Signore nostro», e vuole che noi siamo «il popolo di Lui», in eterno (Sal 4,2; 49,15).

Canto all’Evangelo Cfr 2Ts 2,14

Alleluia, alleluia.

Dio ci ha chiamati mediante l’Evangelo,

per entrare in possesso della gloria

del Signore nostro Gesù Cristo.

Alleluia.

La splendida affermazione dell’Apostolo orienta la proclamazione dell’Evangelo; il Padre ha donato la sua vocazione paterna a noi suoi figli in forza del primo strumento della sua Grazia divina, l’Evangelo, per farci acquisire la Gloria divina del Figlio, che è lo Spirito Santo.

Come sempre, il Signore si manifesta come battezzato dal Padre con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue. Lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, noi celebriamo Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega.

Le tre letture bibliche di questa domenica ci invitano a confrontare la nostra concezione dell’autorità con quella insegnata e praticata da Cristo, il modello di vita per noi cristiani. Gesù nella sua vita terrena non ha imposto con la forza o la magnificenza esteriore la sua autorità (e avrebbe potuto farlo benissimo) ma in obbedienza al Padre e secondo quanto era stato predetto dai profeti si è offerto come vittima per la nostra salvezza. A questa testimonianza straordinaria di amore oblativo siamo dunque chiamati a ispirarci per la nostra gioia e la nostra salvezza.

I lettura: Sap 2,12.17-20

Quanto raccontato nella prima lettura può capitare ad una persona qualunque, un buon cristiano che nella sua vita cerca di essere fedele al proprio mandato e coraggioso nel difendere la causa della giustizia e della verità. Il brano liturgico del libro della Sapienza ci presenta il contrasto, sempre presente, tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti. Da Caino in poi gli uomini, e spesso anche i credenti, hanno cercato di far tacere i giusti con tutti i mezzi. Così i farisei hanno messo a tacere Gesù, l’inquisizione ha bruciato molti innocenti. La presenza del giusto non cessa di denunciare le nostre viltà.

Accecati dalle loro buone ragioni, gli uomini anche oggi vogliono la rovina del giusto, ripetendo la passione del Cristo. Ma alla vista di colui che fu in tal modo deriso e messo a morte, il carnefice stesso un giorno dovette testimoniare: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Proprio come capita a qualche profeta maltrattato del nostro tempo, rivalutato solo dopo la morte.

Quanto tramano i malvagi è anzitutto contro il Giusto, il Servo giusto del Signore. Essi congiurano contro di lui, perché la sua esistenza ostacola i loro disegni di male e le loro concrete opere malvage (v. 12; Sal 10,8-10; Pr 1,11; Ger 11,19; Is 59,15). Essi così mettono alla prova se la parola del Giusto, il suo insegnamento secondo i Disegni divini, siano veri e quindi si avverino, e cercano di accelerare il suo destino, spingendolo verso una fine immatura (v. 17; Ger 37,20; Is 5,19; 66,5; sotto la Croce: Mt 27,49).

In più, essi sono irritati perché il Giusto si gloria di avere Dio come Padre (v. 16), e bestemmiano tentando Dio. Infatti argomentano, se quello è realmente il figlio di Dio, allora il Padre deve soccorrerlo in ogni evenienza davanti agli uomini e interverrà con la forza, con un miracolo, a liberarlo dalle mani dei suoi nemici aguzzini (v. 18; v. 13) Si veda qui il «Se sei Figlio di Dio…» nelle tentazioni (Mt 4,6), e il «Se sei Figlio di Dio…» alla Croce (Mt27,43, che rilegge anche Sal 21,9). Si propongono di interrogarlo su questo con insulti e torture fisiche (come è con il Servo sofferente, Is 53,7; e con Geremia, Ger 11,19). Solo così verranno ad accertare la sua devozione totale a Dio Padre, e a trarre la prova della sua pazienza, che è subire, sottostare a tutto, perseverare, sempre nella bontà (v. 19).

E finalmente escogitano di metterlo a morte in modo vergognoso, che è appenderlo al legno, alla vita, nell’ignominia, così facendolo diventare la maledizione di Dio secondo la Legge (Dt 21,22-23). Tanto, non ha annunciato che il Signore lo proteggerà? (v. 20).

Paolo spiega che non solo il Padre protegge il Figlio, ma trasforma la sua «maledizione per la sospensione al legno» della santa Croce nell’acquisizione della Benedizione e della Promessa d’Abramo, ossia dello Spirito Santo per tutti gli uomini (Gal 3,13-14).

Il Salmo responsoriale: 53,3-4.5.6.8, SI

Con il Versetto responsorio: «Il Signore sostiene la mia vita» (v. 6b), si canta il Signore, che ripara dai pericoli l’anima dei suoi fedeli. L’Orante innalza l’epiclesi estrema al Signore, affinché il Nome suo lo salvi e nella sua Potenza intervenga a ristabilire per lui la pienezza della vita; Nome e Potenza indicano sempre la stessa divina Persona (v. 3; Sal 5,2; 24,11; 51,11; 78,9). Ora, il Signore aiuta sempre tutti, li soccorre, li libera, li scampa dai pericoli, tuttavia non li “salva” se la salvezza non gli è esplicitamente richiesta, perché essere salvato significa chiedere la divina comunione con Lui. Perciò l’Orante replica la richiesta di essere esaudito nella sua preghiera, e chiede al Signore l’ascolto attento delle sue parole di supplica (v. 4).

E spiega la sua situazione. Forse che il Signore non la conosce? Certo, ma il Salmista stesso vuole prendere ancora più coscienza della sua miseria e della necessità di essere aiutato solo da Colui che lo può.

Ora, contro di lui si sono levati alla guerra i potenti e superbi “stranieri”, che qui sono i suoi confratelli fattisi estranei al Signore e alla sua Misericordia verso i suoi poveri e innocenti. Essi sono i “forti”, i prepotenti che sulla terra non conoscono ostacolo e che attentano alla vita dell’Orante, il giusto di Dio, trascurando Dio e i suoi diritti (v. 5).

Ma ecco che l’Orante sperimenta dentro e fuori di sé “1’oracolo”, ossia sente che finalmente il Signore è intervenuto con la sua forza irresistibile ad aiutarlo, e che in via definitiva ha estratto la sua vita dal pericolo di morte (v. 6 a). E in conseguenza lui adesso si prepara a offrire al Signore i sacrifici volontari e pacifici, di lode e d’azione di grazie e a celebrare e a far conoscere il suo Nome adorabile, poiché il Signore è Buono (v. 8).

La lettura continua della lettera di Giacomo oggi ci suggerisce di sforzarci ad essere primi in quella sapienza che viene dall’alto e che è costruttrice di giustizia e di pace. Un invito rivolto soprattutto a coloro che sono costituiti in autorità o che comunque hanno particolari responsabilità nei riguardi del prossimo.

L’esercizio dell’autorità, nella concezione cristiana, richiede, alti livelli di virtù, e per questo è facile che esistano difetti in coloro che ci guidano; non invidiamo il posto di chi comanda essi portano un carico pesante. Chi ha dichiarato la guerra? Noi tutti, risponde san Giacomo.

La nostra diffidenza, la nostra cupidigia, la nostra avarizia, ecco le cause di ogni guerra. Occorre essere amici di Dio, per scongiurare le contese e le divisioni; poiché, quando la pace di Dio invade un cuore, esso non prova più né invidie né brame. Se si vuole un raccolto di giustizia, bisogna seminare in uno spirito di pace.

Qualche parola ora per la pericope evangelica:

  1. contiene la seconda predizione che il Signore enuncia, della sua Passione e Resurrezione e la prima parte di alcune istruzioni ai suoi discepoli per la perfetta sequela di Lui;
  2. è difficile seguire Gesù anche con una cartina geografica in mano; sappiamo soltanto che si trova di nuovo in Galilea, che aveva abbandonato, sempre secondo Marco, quando si era diretto verso Tiro e Sidone (cf. 6,53; 7,24). Da allora ha toccato brevemente la Galilea solo a Dalmanuta (cf. 8,10), adesso la sta attraversando. Lo stesso verbo ci dice che il suo cammino porta altrove, cioè verso il compimento del suo destino.

Il cammino di Gesù con i suoi continua, non solo in senso geografico (verso Gerusalemme), ma, dì più, in senso teologico, verso il mistero centrale dell’Evangelo: la sua morte e resurrezione (cf anche annunci di passione 8,31ss; 9,30ss; 10,32ss.).

L’esame del contesto ci rivela che siamo nella seconda parte dell’Evangelo di Marco (cc. 9-16), quella che contiene le esigenze radicali richieste da Gesù a chi, discepolo e cristiano di ogni tempo, lo voglia seguire.

Secondo lo schema di questo Evangelo la prima parte (cc. 1-8) contiene infatti il racconto dei miracoli di Gesù che mirano ad orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio . Con il nostro brano ha dunque inizio il lungo dialogo con i discepoli sulle esigenze della sequela; Gesù fa una scuola di comunità (cf. Mt 18).

Le regole per la sua comunità sono:

  1. servizio (vv. 33-36),
  2. apertura (vv. 38-40);
  3. aiuto (vv. 41-42);
  4. primato del regno (vv. 45-49);
  5. pace (vv. 49-50).

Il brano evangelico è strutturato secondo un procedimento letterario ad incastro, molto utile per la memorizzazione catechetica, in cui una parola chiave fa da aggancio con l’unità seguente: ad es., l’espressione del nome di Gesù (cf. 9,37.38.39.41) lega il tema su chi è il primo (vv. 33-37) al tema dell’accoglienza (vv. 38-40); la parola scandalo (vv. 42.43.45,47) collega il detto contro lo scandalo ai piccoli (v. 42) ai detti sullo scandalo che il discepolo trova in se stesso (vv. 45-48); la parola fuoco unisce i detti 48.49; la parola sale i detti 49. 50.

Se vogliamo parlare di unità letteraria, questa qualifica le può venire solo da due verbi antitetici: si sedette (9,35), si alzò (10,1), che racchiudono un discorso continuato di Gesù. Egli, il Maestro, è davanti a noi, e noi siamo invitati ad ascoltare e a vivere quanto ci insegna.

Esaminiamo il brano

30 – «Partiti di là»: se la trasfigurazione è avvenuta sul monte Tabor (cf. 9,2) il luogo di partenza per questo breve viaggio verso Cafarnao può essere fissato alle pendici del medesimo monte, nello stesso luogo in cui Gesù si era ricongiunto al gruppo dei discepoli (v. 14) e aveva operato la guarigione del ragazzo indemoniato (vv. 14-29). Questo segna la fine del ministero di Gesù in Galilea, poiché gli insegnamenti impartiti tra la seconda predizione della passione in 9,31 e 10,1 (che porta Gesù e i discepoli nella Giudea e oltre il Giordano) sono riservati ai discepoli.

«non voleva…»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»; Gesù vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuto in Galilea), ma nell’obbedienza a Dio che lo consegna alla croce (cf Dom. scorsa).

31 – «Istruiva… diceva loro»: Il tempo stringe; Gesù considera la sua missione pubblica ormai esaurita e vuole dedicarsi alla formazione dei discepoli, prepararli progressivamente alla realtà dolorosa della sua morte. L’uso dell’imperfetto in entrambi i casi indica un’azione ripetitiva da parte di Gesù.

«Il Figlio dell’uomo…»: Titolo messianico che si ispira a Dn 7,14; usato anche da Ezechiele ma con il significato comune di “uomo”. Come nelle altre predizioni della passione (8,31 e 10,33-34), Gesù chiama se stesso Figlio dell’uomo, legando in tal modo questi detti con gli altri casi in cui il titolo è stato usato in relazione alla sua umanità (vedi 2,27-28) e alla venuta del glorioso Figlio dell’uomo nel giorno del Signore (vedi 13,26). Questo secondo esplicito annunzio di passione (cf. 8,3188. e 10,32ss.) è secondo i critici, per la sua semplicità, il più antico, e probabilmente siamo di fronte ad un autentico detto di Gesù, privo di ritocchi cristiani post-pasquali. Si noti la progressione rispetto al 1° annunzio: si insiste infatti non più sulla necessità della passione, ma sulla imminenza e tragicità di essa.

«esser consegnato»: (dal greco paradídōmi) è interessante l’uso del passivo, senza specificazioni dell’agente. Da 9,31 in avanti il verbo acquista un’importanza sempre maggiore (vedi 10,33; 13,9.11.12; 14,10.11.18.21.41.42.44; 15,1.10.15) in riferimento alle sofferenze di Gesù e dei suoi discepoli. L’uso ricorrente alimenta l’idea che è Dio il vero agente dietro la passione e che ogni cosa si svolge secondo il piano di Dio. Il verbo dunque indica l’agire di Dio, anche perché pur essendo un annuncio di morte è soffuso di speranza (cf. resurrezione). L’agire di Dio non finisce mai nella morte, ma sempre nelle vita.

Essere consegnato o cadere nelle mani degli uomini” è un’espressione biblica che indica una prova tremenda, in cui il malcapitato può aspettarsi qualunque crudeltà e non può neppure far appello alla pietà o alla misericordia come farebbe con Dio (cf. 14,41; Sir 2,18; 2 Sam 24,10-16).

32 – «non comprendevano»: i discepoli nonostante il precedente rimprovero a Pietro (cf. 8,33), si mostrano ancora una volta incapaci di accettare le superiori esigenze del piano divino di salvezza. Dopo la prima predizione della passione e le istruzioni che l’accompagnavano (8,27-9,29) è difficile per noi comprendere come mai i discepoli continuino ad essere così ottusi (e non cercano neppure di capire: «avevano timore di interrogarlo»). Mentre nel primo caso almeno Pietro ha avuto il coraggio di contestare a Gesù la sua predizione della passione (8,32), qui i discepoli non fanno neanche una domanda. Marco sta suggerendoci che invece di trarre profitto dagli insegnamenti di Gesù i discepoli stanno regredendo e così essi diventano sempre più esempi negativi in contrasto con l’esempio positivo offerto da Gesù.

33-37 Inizia qui e si protrae fino a tutto il v. 50 un lungo dialogo con i discepoli fatto di insegnamenti ed esortazioni. Chi non capisce il mistero della croce, non capisce Gesù (cf. 8,32 atteggiamento di Pietro). I discepoli non riescono a correggere le loro idee sul Messia e litigano sul primo posto. Il successivo imbarazzo e silenzio dei discepoli rivela che essi stessi si riconoscevano in contrasto con l’insegnamento di Gesù (cf. 10,43-44; Lc 14,7-11; 22,26s.).

«Di che cosa stavate discutendo per la strada?»: Il verbo dialogízomai generalmente è usato in senso privato e neutro di «conversare, discorrere, ragionare», ma Marco lo usa sovente nel senso pubblico e negativo di «dibattere» o «discutere animosamente» (vedi 2,6.8; 8,16.17; 11,31). Il senso in cui è usato qui e nel versetto seguente probabilmente è sufficiente a spiegare l’imbarazzo che i discepoli mostrano con il loro silenzio in 9,34.

«Ed essi tacevano»: Marco usa il verbo siōpáō in parecchi contesti diversi (vedi 3,4; 4,39; 10,48; 14,61). Il parallelo più vicino a questo si trova in 3,4, dove il pubblico presente nella sinagoga di Cafarnao è ridotto ad un imbarazzato silenzio dall’insegnamento di Gesù riguardo al fare del bene di sabato. Qui sembra che i discepoli si rendano conto della contraddizione tra l’insegnamento di Gesù e l’oggetto della loro discussione.

«chi fosse più grande»: La forma comparativa dell’aggettivo mégas («maggiore») in questo contesto ha un senso superlativo. È probabilmente saggio resistere alla tentazione di leggere questo testo alla luce del suo parallelo in Mt 18,1: «Chi è più grande nel regno dei cieli?». Né in Mc 9,34 né in Lc 9,46 si parla in modo specifico del regno di Dio. Perciò qui dobbiamo supporre che i discepoli stessero discutendo sull’ordine di preminenza all’interno del loro gruppo al momento presente. In una società gerarchica in cui la posizione e l’onore erano valori molto importanti, l’argomento rappresentava una cosa del tutto naturale e degna di essere discussa. Nelle società umane esistono anche senza volerlo, e quasi sempre senza saperlo, le «strutture di peccato», le quali sono disposte dagli uomini che determinano gli eventi degli altri, e talvolta dagli eventi che conducono gli uomini, così da creare una scala di valori esteriori, le “cariche”, e di emanare le disposizioni per cui quella scala si scala per conseguire valori sempre più alti. Si chiama cursus honorum nella Roma antica, si chiama carriera nell’età della burocrazia. Sale in teoria chi, secondo le graduatorie predefinite, ha più “titoli” e “meriti”, sale in pratica, spesso, chi sta aggregato e abbarbicato con ogni mezzo ai «gruppi di potere». Questo nella Chiesa lungo i secoli fu ed è ancora oggi una piaga grande, perché spesso, anche se non sempre, i buoni e i meritevoli sono lasciati nell’anonimato, e “salgono” spesso, anche se con rarissime eccezioni, non i migliori, come è dato da vedere.

«sedutosi»: in gr kathízō è la posizione normale di chi insegna (cf. Mt 5,1; 13,1; Mc 4,1; Lc 5,2; Gv 8,2). Il racconto di Marco si mantiene estremamente vivace, la ripetizione di «per la strada» nei vv 33 e 34 aveva tenuto vivo il motivo del viaggio e inquadrava l’insegnamento di Gesù nel contesto del «cammino» per poter diventare discepoli; ora è necessario fermarsi, sedersi per trovare la sapienza. Gesù non ha istituito il regime vissuto nel mondo per i suoi discepoli. Il testo di Marco narra che si pone seduto, un verbo che indica la Sapienza divina sul trono, e pazientemente cerca di raddrizzare le menti confuse.

E comincia la sua catechesi sull’umiltà, la vera forma mentale dei suoi. Se uno vuole essere “primo”, lo può volere, a patto però che spontaneamente si ponga come «ultimo di tutti», e non solo esternamente, ma anche interiormente, cercando sempre l’ultimo posto e pregando il Signore di riuscirvi e di non avere premi e riconoscimenti. E da questa posizione, si deve anche fare «diacono di tutti», ossia voglia solo servire e lavorare in modo volenteroso, fattivo ed efficace per aiutare “tutti” gli altri (v. 35).

«chiamò i dodici»: questo particolare è omesso sia da Matteo che da Luca; Gesù era già in casa con i discepoli e non aveva nessun bisogno di chiamarli; probabilmente si vuole sottolineare in una cornice di solennità ed ufficialità quanto Gesù sta per dire. Come appartenenti al circolo degli intimi di Gesù essi hanno particolarmente bisogno della lezione che sta per dare.

«primo = ultimo»: è il capovolgimento dei valori. Questo detto sgorga naturalmente dalla scena che è stata approntata. Con questo insegnamento Gesù contesta e sovverte tutti i presupposti della propria cultura in materia di posizione e di stato sociale. Il contenuto dell’insegnamento è ripetuto in forma un po’ più estesa in 10,43-44 (vedi anche Mt 23,11 e Lc 9,48; 22,26-27).

«servo di tutti»: la vera grandezza dell’uomo non è nell’autorità o nel comando sugli altri, ma nello spirito di disponibilità e di servizio. Attraverso il dono di sé.

«un bambino»: nell’ambiente palestinese il bambino era considerato privo di diritti e l’elemento più fragile della comunità; inoltre in aramaico, la lingua usata da Gesù, il termine talya significa sia servo che bambino. Si comprende così il legame tra la parola di Gesù sul farsi servi e il gesto di porre il bambino al centro. Nella società palestinese del primo secolo il bambino non era tanto un simbolo di innocenza o di assenza da vizi quanto piuttosto di mancanza di stato sociale e di diritti legali. Il bambino era una «non-persona» totalmente dipendente dagli altri per il sostentamento e la protezione, e va da sé che uno non poteva aspettarsi nessun vantaggio né sociale né materiale dal mostrarsi gentile verso un bambino. Mettendo un bambino in mezzo al circolo dei suoi discepoli Gesù intende chiaramente usare questa azione simbolica per dare una lezione ai suoi discepoli. Abbracciando poi il bambino Gesù mostra la sua accettazione del bambino (che socialmente è una nullità) come essere degno di rispetto e di cure.

«Chi accoglie...»: Il bambino qui non è preso come simbolo di chi rimane indifferente agli onori e alla posizione sociale (cf. 10,13-16); qui il bambino è oggetto e non soggetto dell’azione dell’accogliere.

In questo caso accogliere significa prendersi cura dei più deboli e dei più bisognosi per proteggerli e aiutarli, come se si trattasse di Cristo stesso.

L’espressione chiave è «nel mio [Gesù] nome», che verrà ripresa come termine di collegamento nell’episodio seguente (vedi 9,38: «nel tuo [Gesù] nome»). Nel pensiero di Gesù anche la gente apparentemente meno significativa è importante perché anche (e specialmente) loro portano il nome di Gesù e appartengono a lui. Per lo sviluppo drammatico di questo insegnamento ricordiamo la grande scena del giudizio finale in Mt 25,31-46.

«chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato»: Il presupposto di questo detto è la prassi dei governanti o comunità (comprese le sinagoghe e le chiese) di mandare dei propri rappresentanti o emissari (o «apostoli», che significa appunto «quelli che sono mandati») ai quali ci si aspettava che venisse riservato il trattamento di rispetto e di dignità dovuti a colui che li inviava. Questo costume è alla base dell’istituzione cristiana primitiva dell’apostolato. In questo caso c’è una specie di catena del mandare o delegare (come si ha spesso nell’Evangelo di Giovanni) da Dio («colui che mi ha mandato») a Gesù e ai rappresentanti di Gesù (tra i quali ci possono essere anche delle nullità sociali come i bambini). Gesù non solo abbraccia eroicamente il mistero della croce (9,31) ma ci offre anche un esempio del proprio ideale di grandezza che consiste nel servizio agli altri (9,35). Stabilisce l’identificazione di se stesso e del Padre («colui che mi ha mandato») con quelli che contano meno nella sua società (9,37; vedi Mt 25,31-46). Continueremo il discorso la Dom. XXVI chiudiamo ora con la preghiera della II colletta che recita:

 

O Dio, Padre di tutti gli uomini,

tu vuoi che gli ultimi siano i primi

e fai di un fanciullo la misura del tuo regno;

donaci la sapienza che viene dall’alto,

perché accogliamo la parola del tuo Figlio

e comprendiamo che davanti a te

il più grande è colui che serve.

Per il nostro Signore,…