p. Gian Paolo Carminati – Commento al Vangelo del 12 Settembre 2021

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Dio si coinvolge nel dolore dell’uomo

La nostra personale ricerca del volto di Dio passa attraverso immagini parziali e limitate, che dobbiamo via via abbandonare per rimanere disponibili alla conoscenza che Gesù vuole donarci, condividendo con noi la sua esperienza del Padre. Per questo rimane attuale, ben oltre le semplificazioni del catechismo, il comandamento sinaitico: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Es 20,4-5).

Il Dio di Gesù

Come Adonai chiamò a lasciarsi dietro le spalle gli elementi costitutivi la propria identità, «ormai segnato dalla morte» (nenecromenou, Eb 11,12), per partire per un paese che Dio gli avrebbe mostrato (Gen 12,1-3), così Mosè è invitato a ricordare e annunciare il nome del Dio liberatore con verbi al futuro («Io ci sarò come colui che ci sarò»: Es 3,14-15; cf. 33,19: «A chi vorrò far grazia, farò grazia; e di chi vorrò aver misericordia, avrò misericordia»; 34,6-7: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato; che non scambia per innocente [il colpevole], ma visita (pqd, «chiedere conto di») la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»).

Il Dio del Vangelo non è Zeus Olimpio, dio della tempesta come il Baal dei cananei, seduto in trono con il fulmine in mano, né il “dio dei filosofi”, rinchiuso nella sua inaccessibilità da categorie metafisiche astratte. Egli è invece il Padre di Gesù, che ci coinvolge in una relazione personale, da figli, donandoci la «vita eterna, quella che è nel suo Figlio» (1Gv 5,11), ossia lo Spirito Santo, che dentro di noi grida: «Abbà, Padre» (Gal 4,6; cf. Rm 8,15).

Con Dio, la vittoria è dei poveri

Ogni esperienza di fede e di conoscenza del vero volto di Dio passa attraverso la comunione di vita con il Figlio, Gesù, nell’umile cammino dei discepoli, chiamati a sperimentare la sapienza della croce, che è stoltezza e scandalo per chi vuole rimanere attaccato ai criteri e alle misure conservative della prudenza umana (1Cor 1,17-25; cf. già Ger 17,5), e continuare a «pensare secondo gli uomini»…

Così, la domanda che Gesù rivolge ai suoi diventa una tappa importante nel percorso che il racconto marciano attribuisce ai discepoli e al loro rappresentante, Pietro; essa li obbliga a un confronto con il mistero personale di Gesù e della sua originale interpretazione della figura messianica. Per i discepoli, la domanda di Gesù comporta una profonda revisione dei loro più o meno consapevoli modelli dell’agire divino nella storia e dei loro progetti di realizzazione individuale.

Anche per noi, lettori odierni del testo evangelico, è decisiva, per la conoscenza del vero volto di Dio, la mediazione di Gesù: ossia la specificità della sua vita, del suo insegnamento e delle sue scelte.

Senza di lui, rimaniamo ciechi in un mondo confuso e spaventato, orfani di un Dio inconcludente e lontano, abbandonati alla logica del più forte e del più furbo. La nostra conoscenza del volto di Dio deve fare i conti con il grande enigma della sofferenza umana, soprattutto quella che colpisce il giusto innocente e il povero.

Proprio loro, secondo Gesù, sono invece i testimoni e i realizzatori del mistero del bene, paradossali trionfatori sulla logica della prevaricazione e della violenza, proprio nell’identificazione concreta, per così dire materiale (sebbene in una certa misura sempre inconsapevole [Mt 25,37]) con il Messia Gesù, il Figlio di Dio: «Ogni volta che avete fatto una di queste cose al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatta a me» (Mt 25,40).

Soprattutto i poveri e le vittime condividono con il Figlio di Dio l’esperienza di essere il luogo dove il Dio di Gesù, il Padre, realizza la propria vittoria sulle forze del male e della morte, e non a spese di altri, ma insieme con loro e grazie a loro.

Così, la domanda di Gesù ai discepoli funge da vero e proprio scrutinio battesimale, occasione di discernimento e di decisione, a partire dall’accettazione radicale, per quanto in progress, di un criterio di giudizio affatto “personale”, il suo. Nell’accoglienza di questa “lettura” della vita, si diventa sapienti, ossia si comprende e si vive la logica del bene e si sperimenta il suo effetto liberatore e risanante.

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. […] Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. […] Così, infatti, perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (Mt 5,3ss).

«Ma io vi dico di non opporvi al malvagio» (Mt 5,39). «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6,27-31).

Il Figlio dell’uomo, infatti, «non è venuto per essere servito, ma per servire e donare la sua vita» (Mc 10,45). In questo egli è la trasparenza più grande, definitiva, del volto di Dio. «Nessuno ha un amore più grande di questo…» (Gv 15,13).

Per Gesù, «non opporsi al malvagio» non significa banalmente sottrarsi a una resistenza doverosa, ma sgradevole. Si tratta, invece, di assumere fino in fondo una responsabilità decisiva, quella della coerenza dell’amore; ossia, si tratta di rendere possibile e fattuale che, nelle diverse circostanze, l’amore adoperi mezzi congrui e adatti a custodire la propria integrità, senza menzogne o cedimenti, anche in favore di chi ne facesse scempio per orgoglio, viltà o disperazione, quale offerta estrema di futuro, di speranza per tutti. Questa scuola della comunione nella responsabilità è sempre un passaggio esigente e trasformante, personale e anche solitario, almeno là dove dobbiamo riconoscere la presenza e l’azione del Dio invisibile: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

È quello che Gesù ci ha insegnato a chiedere nella preghiera: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10), specialmente nel momento della prova (Mt 26,42). […]