p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 12 Settembre 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 12 settembre 2021.
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Seguire Gesù equivocando la meta

La domanda che subito rivolgiamo a chi ci chiede di seguirlo è: “Dove mi vuoi condurre?”.

I discepoli si dimenticarono di porla a Gesù quando, lungo la riva del mare di Galilea, udirono il suo invito: “Seguitemi!” (Mc 1,17). Come ammaliati dalla sua parola e dal suo sguardo, abbandonarono subito le reti, il padre, i garzoni e andarono con lui, senza sollevare obiezioni, senza porsi interrogativi e vennero coinvolti in un equivoco. Convinti di aver scelto come guida un uomo di successo, si ritrovarono di fronte a un giustiziato, incapace di scendere dalla croce.

La decisione di accettare la proposta di un viaggio dipende dalla meta che viene proposta, dalle forze che sentiamo di avere, dalle disponibilità economiche su cui possiamo contare, dagli interessi che coltiviamo. È una verifica che va fatta e anche Gesù la suggerisce a chi vuole andare con lui: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?” (Lc 14,28).

In cammino verso Roma, dove sarebbe stato gettato nell’arena e avrebbe versato il suo sangue per testimoniare la sua fede, Ignazio d’Antiochia, nel 110 d.C., scriveva ai cristiani della capitale dell’impero: “Ora incomincio a essere un discepolo”. Aveva dedicato tanti anni della sua vita animando, come vescovo, le chiese della Siria, eppure, solo in quel momento, lungo la via che lo conduceva al martirio, cominciò a sentirsi discepolo. Era sicuro di non ingannarsi: stava andando, con il Maestro, verso la Pasqua.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Solo quando seguo le orme di Cristo, cammino sicuro”.

Prima Lettura (Is 50,5-9a)

5 Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
6 Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
7 Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
8 È vicino chi mi rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa?Si avvicini a me.
9 Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Quando confrontiamo i nostri giudizi con quelli di Dio ci rendiamo subito conto dell’immensa distanza che li separa. Come correggere i nostri giudizi che rischiano di farci puntare la vita sull’effimero? Come renderli conformi a quelli del Signore?

Nell’AT Dio ha iniziato presto a educare il suo popolo a una logica nuova. Ha mostrato che le sue preferenze non sono per i grandi, ma per i piccoli. Ha scelto Israele fra tutti gli altri popoli, non perché si fosse affermato per la sua potenza, ma perché era il più insignificante (Dt 7,7); ha scelto Davide, il più giovane fra i figli di Jesse (1 Sam 16,7). In nessuna parte della Scrittura, però, Dio si è espresso in modo tanto chiaro su questo tema come nei celebri brani sul Servo del Signore che si trovano nel libro di Isaia.

Di questo Servo abbiamo già parlato nella festa del battesimo del Signore. Oggi questa figura misteriosa ci viene riproposta. È un uomo colpito, umiliato, insultato, sconfitto (vv. 5-6) che Dio però non ha abbandonato nelle mani dei nemici; lo ha glorificato, dando successo alla sua missione e mostrando a tutti che egli era un giusto (vv. 8-9).

Difficile dire se il profeta si riferiva a un uomo concreto oppure se stava parlando, in modo simbolico, del popolo d’Israele annientato dalla violenza dei nemici. Ciò che è certo è che i primi cristiani hanno visto in questo personaggio l’immagine del loro Maestro, Gesù di Nazaret, rigettato dai suoi contemporanei, avversato e sconfitto dai capi religiosi e politici del suo tempo, ma riconosciuto da Dio, mediante la risurrezione, come il vero vincitore.

Seconda Lettura (Gc 2,14-18)

14 Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?
15 Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16 e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?
17 Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18 Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.

Non sono i frutti che fanno vivere l’albero, tuttavia l’albero che non produce frutti è come se fosse morto. Anche la fede che non porta a compiere opere – dichiara Giacomo – è morta.

Le opere cui si riferisce, non sono le pratiche rituali, il culto, le solenni liturgie del tempio. Ha già affermato che la religione “pura e senza macchia” consiste nell’aiutare gli orfani, nell’assistere le vedove nelle loro tribolazioni (Gc 1,27), nel rispettare i poveri e nel compiere opere di misericordia (Gc 2,1-13). Oggi riprende il tema con un esempio quanto mai concreto. Se un fratello ha fame o non ha nulla per vestirsi, è inutile consolarlo con chiacchiere, bisogna offrirgli un aiuto, altrimenti la fede che si ritiene di avere è soltanto un’illusione.

Se l’atto di fede si riducesse all’adesione ad affermazioni teologiche o alla professione di determinate verità rivelate, certo molte persone che, senza conoscere Cristo, conducono una vita esemplare, sono attenti al povero, aiutano chi è nel bisogno non potrebbero dire di avere fede. Ma lo Spirito del Signore Gesù non si lascia racchiudere dentro i confini della struttura ecclesiale, agisce in modo libero, anima anche i pagani, muove nell’intimo ogni uomo incitandolo a donare la propria vita. Chi si lascia docilmente guidare dai suoi impulsi, anche se non se ne rende conto, ha intrapreso il cammino della fede, sta seguendo la via tracciata da Cristo.

Vangelo (Mc 8,27-35)

Nel vangelo di Marco Gesù è sempre in movimento e dietro a lui camminano i suoi discepoli che, fin dall’inizio, si sono resi conto di essere al seguito di un personaggio straordinario. Hanno sempre prestato molta attenzione a ciò che di lui diceva la gente, erano sensibili agli elogi, si compiacevano dei consensi che raccoglieva perché il suo successo coinvolgeva anche loro. Eppure, anche dopo mesi di comunione di vita con il Maestro, non erano riusciti a cogliere la sua vera identità.

Più volte, nei primi capitoli di questo vangelo, si legge che le folle e gli stessi discepoli si sono posti la domanda: Chi è costui? Ha il potere di scacciare i demoni (Mc 1,27), compie prodigi, comanda perfino alle onde del mare e queste gli obbediscono (Mc 4,41)… Chi sarà mai?

Con il brano di oggi inizia la parte centrale del vangelo di Marco, quella in cui Gesù svela il mistero, risponde alla domanda che tutti si pongono, mostra il suo vero volto.

L’episodio è ambientato nei pressi di Cesarea di Filippo (vv. 27-30) la città che Filippo, uno dei figli di Erode il grande, ha fondato all’estremo nord d’Israele e ha eretto a capitale del suo regno. È abitata in maggioranza da pagani ed è forse questa la ragione che spinge Gesù a lasciare le città e i villaggi lungo il lago di Galilea e a mettersi in cammino verso quella regione. Mostra di voler portare la salvezza a tutti i figli del suo popolo, anche ai più lontani.

Siamo a metà del vangelo e quindi possiamo anche pensare che Gesù sia giunto a metà della formazione che sta dando ai suoi discepoli.

Lungo la strada rivolge loro due domande; abbastanza semplice la prima: Chi sono io per la gente?, più impegnativa la seconda: Chi sono io per voi?

L’elenco delle opinioni che circolano fra il popolo è già stato riferito da Marco in modo più ampio: “Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui. Altri invece dicevano: è Elia; altri dicevano ancora: è un profeta, come uno dei profeti. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: quel Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!” (Mc 6,14-16).

Questi erano i giudizi della gente, ma a Gesù premeva sapere soprattutto cos’avevano capito i discepoli. Avevano intravisto qualcosa di più o coltivavano le convinzioni di tutti?

Qualche giorno prima aveva rivolto loro un severo rimprovero: “Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?” (Mc 8,17-18). Erano incapaci di cogliere la sua identità.

Oggi ecco la sorpresa: dopo aver riferito quanto si dice in giro, Pietro mostra di avere capito tutto e, a nome anche degli altri, proclama: “Tu sei il Cristo”, il messia, il salvatore di cui hanno parlato i profeti e che tutto il popolo attende.

Difficile trovare un risposta più adeguata.

Nel vangelo di Matteo viene ricordata anche la replica, compiaciuta, del Maestro: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17).

Alla risposta di Pietro segue la severa imposizione del silenzio. Gesù non vuole che si diffonda la notizia sulla sua identità messianica (vv. 27-30) e la ragione per cui va mantenuto il segreto è chiara: Pietro ha dato una definizione esatta solo nella forma, in realtà l’idea che ha in mente è totalmente distorta. Continua a essere convinto che il Maestro darà presto inizio al regno di Dio sulla terra e pensa che questo si attuerà mediante un’ostentazione di forza, attraverso prodigi e segni che lo imporranno all’attenzione di tutti. È certo che Gesù otterrà un successo strepitoso ed è questa anche l’opinione degli altri discepoli che, pur avendo capito qualcosa di più rispetto alle folle, rimangono prigionieri della mentalità corrente che valuta la riuscita di una vita in base ai successi ottenuti. Non si sono ancora resi conto che, fin dall’inizio, il Maestro ha considerato diabolica la proposta di prendere il potere e di presentarsi come un dominatore di questo mondo (Mt 4,8-10).

Il malinteso è totale e per Gesù è giunto il momento di correggere questo pericoloso equivoco. Deve chiarire bene qual è la meta del suo viaggio, spiegando come il Padre realizzerà in lui la sua opera di salvezza.

Marco scrive il suo vangelo per i cristiani di Roma, per invitarli a fare una verifica delle ragioni che li hanno indotti a credere in Cristo. L’equivoco in cui sono caduti Pietro e gli altri undici, infatti, incombe sempre su tutte le comunità cristiane. Le professioni di fede possono essere impeccabili, ma rimane l’interrogativo: quale immagine di Dio e quale concezione di vita si celano dietro queste formule tanto esatte?

Nella seconda parte del brano (vv. 31-33), Gesù comincia a insegnare ai discepoli che il Figlio dell’uomo dovrà soffrire molto, che non è destinato al successo, ma al fallimento, che non trionferà su chi si oppone al suo progetto, ma che verrà sconfitto. Non va a Gerusalemme per mettere in fuga i suoi nemici, ma a donare loro la sua vita.

Comincia a insegnare. Questa affermazione dell’evangelista lascia trasparire un certo imbarazzo, una certa delusione dell’insegnante che, a metà dell’anno scolastico, dopo aver ripetutamente spiegato una lezione, si rende conto di dover ripartire da zero perché gli alunni non sono proprio riusciti ad assimilarla.

I discepoli non possono né capire né accettare la prospettiva del dono della vita. Non è per questo che hanno abbandonato la casa, la barca, la famiglia per seguire il Maestro. Dove li vuole condurre, alla rovina, alla sconfitta?

Gesù non ritira una parola, anzi, per altre due volte ripete loro: “Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9,31); “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo verrà condannato a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno” (Mc 10,33-34). Quest’ultimo annuncio è particolarmente drammatico perché elenca, in modo dettagliato, quasi pedante, le sei opere che costituiscono la risposta dell’uomo al Signore che gli viene incontro per offrirgli la salvezza. Ne seguirà una settima: “Dopo tre giorni risusciterà” (Mc 10,34), ma questa sarà opera di Dio.

La logica umana non può che rimanere sconvolta di fronte a una simile prospettiva e difatti Pietro, a nome di tutti, reagisce (vv. 32-33), non per paura dei sacrifici, sappiamo che egli sarebbe disposto anche a rischiare la vita se fosse necessario (Gv 18,10), ma per vincere, non per perdere. Non se la sente di impegnarsi in un progetto assurdo, non può accettare di incamminarsi per una strada che porta al fallimento, per questo tenta di far cambiare idea al Maestro.

La risposta di Gesù a Pietro che vuole distoglierlo dal suo cammino è dura: “Vai dietro a me, satana!”. Non intende allontanare da sé Pietro, ma riportarlo sul retto cammino. Le sue parole non significano: “Vattene via!”, ma : “Vienimi dietro”, “ “Stai con me mentre vado a donare la vita”.

Pietro ha commesso l’errore di passare avanti al Maestro. Mosso dalle sue convinzioni religiose, si è sentito in dovere di indicargli la strada. Gesù lo invita a tornare al suo posto, dietro, e a seguire i suoi passi. Lo chiama satana perché, avendo assimilato i pensieri degli uomini, che rendono ciechi e incapaci di comprendere i disegni di Dio (Sap 2,21-22), ha suggerito al Maestro, senza nemmeno rendersene conto, scelte opposte a quelle del Signore.

Dopo aver rimproverato Pietro, Gesù convoca la folla (vv. 34-35).

Sorprende che, lungo la via che conduce a Cesarea di Filippo, compaia, inattesa, una moltitudine cui, in precedenza, non s’è fatto alcun cenno. Marco la introduce in scena per una ragione teologica: in questa folla egli vede personificata la moltitudine dei cristiani delle sue comunità. Vuole porli di fronte alle severe condizioni poste da Gesù a chiunque intenda seguirlo. Si tratta di esigenze che non possono essere mitigate o rese più accettabili; possono solo essere accolte o rifiutate, ma non sono trattabili.

La radicalità di questa scelta che non ammette sconti, indugi e ripensamenti è richiamata con tre imperativi: “Rinnega te stesso, prendi la croce, seguimi”.

Rinnega te stesso vuol dire: smetti di pensare a te stesso!

È il capovolgimento della logica di questo mondo. L’uomo ha radicata nel profondo del proprio cuore la tendenza a “pensare a se stesso”, a porsi al centro degli interessi, a cercare in tutto ciò che fa il proprio vantaggio e a disinteressarsi degli altri. Colui che sceglie di seguire Cristo è chiamato, anzitutto, a rifiutare questo ripiegamento egoista, a rinunciare a fare scelte in vista del proprio tornaconto.

Il discepolo che ha “smesso di pensare a se stesso” non prende minimamente in considerazione le ricadute positive che possono avere sulla sua persona le buone azioni che compie. Non pensa neppure alla gloria che gli sarà riservata in paradiso. Ama gratuitamente, in pura perdita, come fa Dio.

Il secondo imperativo, prendi la tua croce, non si riferisce alla necessità di sopportare pazientemente le piccole o grandi tribolazioni della vita né, ancor meno, è un’esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non ricerca la sofferenza, ma l’amore.

La croce era il supplizio riservato agli schiavi, a coloro che non appartenevano a se stessi, ma ad un altro. Abbracciarla significa fare la scelta di divenire servi degli altri e Gesù lo è divenuto, come si canta nel celebre inno della Lettera ai filippesi: “Egli spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo; umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-8).

In Gesù, Dio ha mostrato di non appartenere a se stesso, ma di essere schiavo dell’uomo.

La croce è il segno dell’amore di Dio e del dono più totale di sé. Portarla dietro a Gesù vuol dire unirsi a lui nel rendersi disponibili agli altri, fino al martirio.

Il terzo imperativo, seguimi, non significa prendimi come modello, ma condividi la mia scelta, fa tuo il mio progetto, gioca la tua vita per amore all’uomo, insieme con me. Andrai incontro all’incomprensione e alla rinuncia, vedrai i tuoi sogni dissolversi e tutti i progetti umani rimessi in causa; ti sentirai morire, ma il tuo destino non sarà la rovina; non ti voglio condurre alla morte, ma alla vera vita; tuttavia, per raggiungerla, è necessario che tu passi attraverso la morte (v. 31).

Nell’ultima parte del brano (v. 35) Gesù sviluppa, ricorrendo a un ragionamento sapienziale, la sua proposta.

Che giova all’uomo ottenere il dominio di tutti i regni di questo mondo, affermarsi nei campi del sapere, del denaro, del potere, della gloria, dei piaceri, se poi arreca danno a se stesso, se sciupa la propria esistenza? Tutte le sue conquiste, tutti i suoi successi sono effimeri, non hanno consistenza perché su di loro incombe la morte: “Anche coloro che hanno dato il loro nome alla terra… lasceranno ad altri le loro ricchezze” (Sl 49,11-12).

Solo chi fa della propria vita un dono costruisce un’opera duratura.

Quando Dio, nel giudizio finale, valuterà la vita di ognuno, chi non si sarà associato a Cristo, abbracciandone la croce e il destino, sarà costretto a registrare il proprio fallimento, verificherà di avere sprecato l’opportunità unica che gli era stata offerta.

I dibattiti sull’identità di Gesù continuano anche oggi. Nessuno nega che, più di qualunque altro uomo, egli ha segnato la storia del mondo. Ma non basta coltivare questa convinzione per ritenersi suoi discepoli. Ammirare Cristo non equivale a essere suoi discepoli.

Gli apostoli hanno ricevuto da Gesù la severa ingiunzione di non divulgare la sua identità. Se non verifichiamo, alla luce delle parole contenute nel vangelo di oggi, le ragioni per cui ci proclamiamo cristiani, egli potrebbe imporre anche a molti di noi, severamente, il silenzio.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News