Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di domenica 5 Settembre 2021

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Gesù dice a ciascuno di noi: “apriti!”

Gesù lascia la regione di Tiro e, passando attraverso il territorio di Sidone, va oltre il lago di Tiberiade, nel territorio della Decapoli. Il suo viaggiare fuori della Galilea, della terra santa, in regioni abitate da pagani, ha un preciso significato: Gesù non fa il missionario in mezzo ai pagani, perché secondo la volontà del Padre la sua missione è rivolta al popolo di Israele, il popolo delle alleanze e delle benedizioni(cf. Mt 10,5-6; 15,24); ma con questo lambire o attraversare velocemente terre impure, vuole quasi profetizzare ciò che avverrà dopo la sua morte, quando i suoi discepoli si rivolgeranno alle genti, portando loro la buona notizia del Vangelo.

Attorniato da dodici uomini e da alcune donne, Gesù fa strada insegnando ai discepoli e vivendo una distanza dalle folle di ascoltatori della Galilea: questo permette a lui e al suo gruppo una certa vita raccolta, intima, più adatta alla formazione dei discepoli e a una più efficace trasmissione della parola viva ed eterna di Dio. In questa terra pagana Gesù aveva già guarito la figlia di una donna siro-fenicia, appartenente alle genti, dunque totalmente pagana. Aveva opposto un iniziale rifiuto alla supplica della donna, ma poi la sua insistenza e la sua intelligenza lo avevano spinto a compiere la guarigione e a salvare sua figlia dalla morte (cf. Mc 7,24-30).

Ora viene presentato a Gesù un sordo balbuziente, con la preghiera che egli compia il gesto che comunica la benedizione, le energie salutari di Dio: l’imposizione delle mani. Quest’uomo condotto a Gesù sperimenta una grave menomazione fisica che è anche simbolica, vera immagine della condizione dei pagani: è infatti impossibilitato ad ascoltare la parola di Dio e dunque a ripeterla ad altri. Egli cerca e tenta di lodare, di confessare Dio, ma non ci riesce pienamente, non avendo ricevuto la rivelazione. Ma è anche un uomo menomato nelle facoltà della comunicazione da un punto di vista umanissimo: non può parlare chiaramente ne può ascoltare, quindi è condannato a un doloroso isolamento.

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Gesù incontra dunque anche quest’uomo: volendo liberarlo dal male, lo porta in disparte, lontano dalla folla, e con le sue mani agisce su quel corpo altro dal suo, il corpo di un uomo malato. Gli pone le dita negli orecchi, quasi per aprirli, per circonciderli e renderli capaci di ascolto, sicché quest’uomo è reso come il servo del Signore descritto da Isaia: un uomo al quale Dio apre gli orecchi ogni mattina, in modo che possa ascoltare senza ostacoli la sua parola (cf. Is 50,4-5). Poi Gesù prende con le dita un po’ della propria saliva e gli tocca la lingua: è un gesto audace, equivalente a un bacio, dove la saliva dell’uno si mescola con quella dell’altro. C’è qualcosa di straordinario in questo “fare di Gesù”: con le sue mani Gesù tocca gli orecchi, apre la bocca dell’altro per mettervi la sua saliva, compie gesti di grande confidenza, quasi per risvegliare i sensi corporali e così far ritornare in loro il senso della vita… Questa gestualità manuale di Gesù, che crea un contatto con il malato, è di una penetrazione straordinaria, svela la sua compassione che si fa carezza, cura, confidenza, contatto con chi è nella sofferenza. Nessuna riserva di im-munità da parte di Gesù, ma comunità, comunione concretamente sperimentata e vissuta!

L’azione di Gesù è accompagnata da un’invocazione rivolta a Dio: egli guarda verso il cielo ed emette un gemito, che indica contemporaneamente la sua partecipazione alla sofferenza e l’invocazione della salvezza. Gesù geme a nome di tutta la creazione, di tutte le creature imbrigliate nella sofferenza, nella malattia, nella morte, e il suo gemito è quello dello Spirito che sale dalle creature come intercessione a Dio (cf. Rm 8,22-23). Qui viene mostrata la capacità di solidarietà di Gesù, che con-soffre con il sofferente, entra in empatia con chi è malato e si pone dalla sua parte per invocare la liberazione. Tutto ciò è accompagnato da una parola emessa da Gesù con forza: “Effatà, apriti!”, che è molto di più di un comando agli orecchi e alla lingua, ma è rivolto a tutta la persona. “Effatà, apriti!”: parole straordinarie ed efficaci sulla bocca di Gesù, parole che non a caso risuonavano nell’antico rito battesimale a Roma, quando, con un dito imbevuto di saliva, si toccavano gli orecchi, le narici e la bocca del neofita, abilitandolo alla vita nuova in Cristo e all’esercizio dei sensi spirituali.

Aprirsi all’altro, agli altri, a Dio, non è un’operazione che va da sé: occorre impararla, occorre esercitarsi in essa, e solo così si percorrono vie umane terapeutiche, che sono sempre anche vie di salvezza spirituale. Così Gesù ci insegna che tutta la nostra persona, il nostro stesso corpo deve essere impegnato nell’incontro e nella cura dell’altro: non bastano pensieri e sentimenti, non bastano parole, fossero pure le più adeguate e sante: occorre l’incontro delle carni, dei corpi, per poter intravedere una guarigione esistenziale che va sempre oltre quella meramente fisica, una guarigione che apre alla comunione.

Ed ecco che quel sordo balbuziente è guarito, ascolta correttamente e parla senza ostacoli! Gesù però lo rimanda a casa e gli chiede di tacere, così come comanda a quanti avevano visto di non divulgare l’accaduto. Tuttavia quei pagani, che non attendevano né il Messia né il Profeta escatologico, pur non potendo giungere a una confessione di fede, sono comunque costretti a proclamare, in base all’evidenza dei fatti: “Gesù ha fatto bene ogni azione: fa ascoltare i sordi e fa parlare i muti!”. Potremmo tradurre questa esclamazione di quella gente non ebrea in questo modo: “Gesù è veramente un uomo buono!”. Non è ancora fede ma è già un riconoscimento dell’amore, un credere all’amore di Gesù. Quanto ai credenti ebrei, questa azione di Gesù doveva essere da loro letta come il compimento della profezia escatologica di Isaia: “Allora la lingua dei balbuzienti (moghiláloi, lo stesso termine greco presente in Mc 7,32) griderà di gioia!” (Is 35,6 LXX).

Certamente questo racconto desta la nostra responsabilità di discepoli e discepoli di Gesù, chiamati a rinnovare e riattualizzare la sua azione liberatrice. Dovremmo infatti svolgere la diakonía del lógos, della parola, che non significa solo annunciarla, ma destarla, risvegliarla in quanti sono a essa impediti. Perché nelle nostre chiese non diamo la parola a quanti faticano a parlare? Perché non li autorizziamo a un’autentica presa della parola? Perché non abbiamo la pazienza di ascoltare chi parla con difficoltà? Perché le nostre chiese non sono luoghi di “logoterapia”, della quale vi sarebbe tanto bisogno nelle nostre assemblee così spesso mute? Perché non aiutiamo, fino a guarirli, quanti sono balbuzienti nella fede e nella vita cristiana?

Effatà, apriti!”, è un invito che dovremmo sentire come parola del Signore rivolta qui e ora a ciascuno di noi. Nello stesso tempo è un invito che noi stessi possiamo e dobbiamo indirizzare agli altri, in modo che fiorisca la comunicazione; dalla comunicazione la condivisione; dalla condivisione la comunità; dalla comunità la comunione. Questi sono itinerari ecclesiali quanto mai urgenti!

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi