p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 29 Agosto 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 29 agosto 2021.
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Religione delle labbra e del cuore

In Egitto non è mai esistito un codice di leggi e la stessa parola “legge” era sconosciuta perché il faraone, incarnazione del dio Ra, stabiliva, con la sua parola, ciò che era giusto e retto. Egli – ricordano i testi egiziani – “prende consiglio dal proprio cuore, detta allo scriba disposizioni eccellenti” e ordina ai giudici di far applicare “le sue parole”.

Nulla di simile avveniva in Israele dove la legge non era del re, ma di Dio. Il sovrano aveva solo potere esecutivo e giudiziario, suo compito era stabilire nel Paese pace e giustizia (Sl 72,1-2), facendo sì che tutti osservassero la legge del Signore alla quale egli stesso era sottomesso. Nel giorno della sua incoronazione, gli era offerta una copia della Toràh perché la meditasse ogni giorno della sua vita (Dt 17,18-20), resistendo alla tentazione di introdurvi modifiche o aggiunte dettate dagli opportunismi politici e dall’astuzia umana, così diversa dalla sapienza di Dio.

Chi, come il faraone, si illude di essere “saggio come Dio” (Gn 3,5) e decide di gestire la propria vita con la sapienza di questo mondo, si condanna al fallimento. A costui, anche se intelligente e colto, la Bibbia nega il titolo di “saggio” (Sl 14,1), perché la vera sapienza si manifesta solo là dove c’è il “timore del Signore” (Pr 1,7).

La religione delle labbra è un ritrovato della sapienza umana, è un espediente per mascherare l’infedeltà al Signore; solo quella del cuore è autentica, perché nasce dalla parola di Dio e si traduce in amore.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Religione pura e senza macchia è questa: soccorrere gli orfani e le vedove e mantenersi liberi dai beni di questo mondo”.

Prima Lettura (Dt 4,1-2.6-8)

Mosè parlò al popolo dicendo: 1 “Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. 2 Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore Dio vostro che io vi prescrivo. 6 Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. 7 Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? 8 E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?”.

Questo brano appartiene al primo dei discorsi che costituiscono il libro del Deuteronomio e che sarebbero stati pronunciati da Mosè nel paese di Moab, al termine dei quarant’anni di cammino nel deserto, nel giorno stesso della sua morte (Dt 1,1-5). Si presentano come le sue ultime parole, come il testamento spirituale in cui egli ricorda gli avvenimenti passati ed esorta gli israeliti a mantenersi fedeli alla legge del Signore, per costruire una vita felice nella terra in cui stanno per entrare.

L’attribuzione a Mosè è però un artificio letterario, impiegato dall’autore sacro per conferire autorevolezza alle sue parole; il libro, infatti, non ha ricevuto la sua stesura definitiva prima del V secolo a.C.

 Il brano della nostra lettura è stato composto a Babilonia, probabilmente da un sacerdote del tempio di Gerusalemme, ed è rivolto agli israeliti delusi e rassegnati al loro triste destino. L’autore li invita a rendersi conto che non tutto è perduto perché, anche se sono stati sconfitti e umiliati, anche se sono lontani dalla loro terra e non hanno più un tempio dove offrire primizie e olocausti al Signore, sono pur sempre in possesso del suo più grande dono, la Toràh per la quale sono rinomati fra tutti i popoli della terra.

Nella prima parte del brano (vv. 1-2), si insiste sul valore assoluto, sull’intangibilità di questa legge che non può essere modificata perché non è opera di uomini, ma di Dio. Due tentazioni vanno evitate: quella di ridurla, cancellando le disposizioni più impegnative e difficili, e quella opposta di aggiungervi nuove prescrizioni dettate dalla “sapienza” degli uomini.

Questa seconda tentazione è particolarmente subdola perché induce a ritenere “volontà di Dio” quelle che invece sono solo disposizioni di uomini. Da questo equivoco nasce l’idolatria della legge e il mancato rispetto per l’uomo e per la sua coscienza. Coloro che introducono queste norme, facilmente si autoconvincono di interpretare il pensiero di Dio, uguagliano la propria mente a quella di Dio (Ez 28,1) e impongono i propri precetti in nome del cielo, dimentichi che questi sono solo opera loro.

Di fronte alle aggiunte indebite alla legge del Signore, Gesù invita i suoi discepoli ad assumere un atteggiamento libero e sereno. Scrollatevi – raccomanda – questo giogo insopportabile, senza rimorsi, senza preoccuparvi delle critiche e, a volte, anche delle minacce di chi, abusivamente, lo ha caricato in nome del Signore (Mt 11,28-30).

Nella seconda parte del brano (vv. 6-8) compare il giustificato orgoglio del pio israelita per la Toràh che Dio gli ha donato, legge amata perché genuina, non alterata dalle interpretazioni rigide e severe formulate in seguito e dalle aggiunte arbitrarie.

Anche oggi in Israele il rispetto per questa legge si manifesta in atteggiamenti e riti commoventi. Un rotolo della Toràh danneggiato o divenuto inadatto all’uso non è mai distrutto, viene devotamente posto in un vaso d’argilla e inumato, come si fa con una persona cara. Prima della lettura del testo sacro nella sinagoga, l’officiante solleva il rotolo aperto e proclama: “Questa è la Toràh che Mosè ha posto davanti ai figli d’Israele per ordine del Signore. È un albero di vita per coloro che la fanno propria e coloro che la sostengono sono pieni di gioia”.

Seconda Lettura (Gc 1,17-18.21-22.27)

Fratelli miei carissimi, 17 ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. 18 Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.
21 Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. 22 Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi.
27 Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.

Comincia oggi e ci accompagnerà per cinque domeniche la lettera di Giacomo, che può essere considerata una meditazione sulla morale evangelica e che è stata composta negli anni 60 d.C. da un cristiano della comunità di Gerusalemme. In essa, il nome di Gesù compare una volta soltanto (Gc 2,1), eppure è alle sue parole, soprattutto a quelle contenute nel discorso della montagna (Mt 5-7), che si è ispirato l’autore, che si presenta sotto lo pseudonimo di Giacomo, “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1,1).

Nel brano di oggi, viene richiamato il tema della parola di Dio.

Nella prima parte (vv. 17-18), rispondendo a chi ritiene che da Dio provenga anche il male, Giacomo afferma che dal Signore ha origine solo il bene, perché egli è luce e in lui non c’è ombra alcuna. La “parola di verità”, cioè la salvezza che si è attuata in Cristo, è un dono che proviene da lui, Padre della luce.

Per ottenere la salvezza, non è però sufficiente l’ascolto di questa parola. Perché possa produrre frutti abbondanti, è necessario che venga accolta con docilità (v. 21), cioè, con animo ben disposto. Se il cuore non si apre alla verità, questa parola, come il seme che cade su una roccia, inaridisce e secca.

Anche l’ascolto docile e attento è insufficiente. È necessario compiere un ultimo passo, quello decisivo: mettere in pratica la Parola.

L’ascolto che non cambia la vita è inutile, è paragonabile al comportamento insensato di chi rimira il proprio volto riflesso in uno specchio, nota delle macchie, ma si allontana senza essersi ripulito (vv. 23-24). La parola di Dio è lo specchio che rivela i lineamenti che ci rendono simili al Padre che sta nei cieli, ma evidenzia anche le brutture che ci deturpano e che vanno corrette, per divenire sempre più affascinanti agli occhi di Dio e degli uomini.

Infine, a coloro che confondono la religione del cuore con i formalismi e l’esecuzione minuziosa di riti, Giacomo offre il criterio per stabilire se si sta praticando la vera religione. Quella autentica consiste nel “soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (v. 27).

Nella Bibbia, le vedove e gli orfani rappresentano chiunque si trovi nel bisogno. L’ascolto della parola di Dio porta ad assimilare i sentimenti e le premure del Signore per i più deboli. Per praticare questa religione è necessario – continua Giacomo – mantenersi puri, cioè, distaccati dai beni di questo mondo. L’egoista, chi accumula beni per sé e non pratica la condivisione con chi è nel bisogno non è ancora un vero discepolo. I sacrifici di cui il Signore si compiace, infatti, sono “la beneficenza e la condivisione dei beni” (Eb 13,16).

Vangelo (Mc 7,1-8.14-15.21-23)

Dopo aver meditato, per cinque domeniche consecutive, il discorso di Gesù sul pane di vita, riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno liturgico.

Nel brano di oggi viene sollevata una questione che tocca un elemento centrale della religione giudaica: le purificazioni.

Agli antichi il mondo appariva diviso in due sfere contrapposte, una pura nella quale operavano le forze della vita, e l’altra impura dove erano presenti i germi della morte.

Gli israeliti consideravano impuro tutto ciò che, in qualunque modo, fosse venuto in contatto con gli idoli inanimati, incapaci di favorire la vita che è monopolio del “Dio vivo e vero” (1 Ts 1,9). La loro istintiva ripulsa per il mondo idolatrico si manifestava in forme esasperate di separazione. Quando, ad esempio, entravano in possesso di una terra straniera, per cinque anni non mangiavano i frutti dei campi, attendevano fino a quando ogni traccia di impurità fosse sicuramente scomparsa (Lv 19,23).

Immondi erano i pagani chiamati “cani” e tale epiteto compare addirittura sulla bocca di Gesù (Mc 7,27). Popolo di santi era Israele (Dt 7,6) e santo era soprattutto il tempio in cui il Signore aveva preso dimora.

Ogni contatto con i pagani o con gli oggetti da loro toccati era fonte di impurità e richiedeva rigorose purificazioni. Al riguardo, le disposizioni dei rabbini erano molto minuziose, non trascuravano alcun dettaglio, specificavano qual era il grado di impurità e quale specifica abluzione andava fatta, distinguevano i diversi tipi di acqua da impiegare, spiegavano come dovevano essere spruzzati gli oggetti acquistati al mercato prima di usarli. L’ignoranza di queste norme era imperdonabile ed era fonte di maledizione (Gv 7,49). Ogni trasgressione era ritenuta un’infedeltà a Dio e alle sacre tradizioni.

Nella prima parte del brano (vv. 1-8) è riferita un’accesa disputa fra Gesù e alcuni farisei e scribi venuti da Gerusalemme. La colpa che gli rinfacciano è che i suoi discepoli non rispettano la distinzione fra sacro e profano: “Prendono cibo con mani immonde” (v. 2) e questo comportamento disinvolto e provocatorio non possono che averlo appreso dal loro maestro.

L’accusa non riguarda la trascuratezza delle norme igieniche, ma il mancato adempimento del gesto rituale che deve essere compiuto, dopo che si è fatto il bagno, da chiunque voglia mantenere le distanze dai pagani che sono rifiutati da Dio.

Da dove derivavano queste rigide disposizioni e questa osservanza ossessiva? Dalla “tradizione degli antichi”, da quegli insegnamenti dei rabbini ai quali si attribuiva lo stesso valore della parola di Dio contenuta nelle sacre Scritture.

La Bibbia prescrive che, prima di mangiare le carni dei sacrifici del tempio, il sacerdote si lavi le mani e i piedi (Es 30,17-21), ma alcuni gruppi di laici, particolarmente devoti, avevano adottato anche nelle proprie case le consuetudini dei banchetti sacri dei sacerdoti e, pian piano, questa pratica si era diffusa tra il popolo, dando origine alla convinzione che il precetto fosse stato dettato dal Signore. La formula che si era soliti recitare era la seguente: “Benedetto sei tu, Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio delle mani”.

Le guide spirituali avevano benedetto questa tradizione, assimilandola alla legge di Dio, a quella legge che – come abbiamo rilevato nella prima lettura (Dt 4,2) – non doveva in alcun modo essere alterata, non doveva subire né tagli né aggiunte.

Se queste norme fossero state inquadrate nella prospettiva giusta, non avrebbero costituito un fattore particolarmente negativo: erano semplicemente l’espressione di un bisogno, studiato a fondo dalla moderna scienza psicologica, di ricorrere a certe pratiche per esorcizzare le fobie suscitate dal diverso, da ciò che è ritenuto una minaccia per la propria identità. Divennero pericolose perché furono equiparate alla parola di Dio, provocando un travisamento del volto del Signore e del rapporto con lui. Le conseguenze furono le stesse che possiamo verificare anche oggi, quando questa equiparazione, spesso inconsciamente, viene reintrodotta. Vediamole.

La prima, molto grave, è quella di attribuire a Dio la distinzione fra uomini puri e impuri, fra giusti e peccatori. Questa discriminazione e le relative norme di evitazione portano all’isolazionismo, scatenano intolleranze e mettono in atto dinamismi perversi di aggressione. Non sono volute da Dio, per il quale tutti gli uomini sono puri (At 10) e non esistono differenze di razza, sesso e condizione sociale (Gal 3,28). Anche la separazione fra creature monde e immonde, fra luoghi sacri e profani non è voluta dal Signore, ma dagli uomini. Egli “ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato” (Sap 11,24).

“Nel giudizio di Dio – insegnavano i rabbini – l’uomo dovrà rendere conto di tutto ciò in cui il suo occhio ha trovato piacere e di cui tuttavia egli non ha goduto”. In queste loro parole è riflessa la mentalità serena dell’uomo biblico che gioisce delle bellezze del creato e ringrazia Dio per il cibo, il vino, la salute, la bellezza, la sessualità e per tutti i doni che ha ricevuto dal Signore (Dt 8,10).

L’equiparazione della “tradizione degli antichi” alla volontà di Dio comporta un secondo, grave inconveniente: l’assolutizzazione delle pratiche rituali. Chi le ritiene stabilite dal Signore, le adempie scrupolosamente e finisce per autoconvincersi di essere a posto con Dio e con i fratelli.

I più saggi fra i rabbini avevano intuito questo pericolo, avevano denunciato l’insufficienza di queste pratiche e avevano richiamato alla conversione del cuore. I monaci di Qumran, che pure facevano abbondante uso delle purificazioni rituali, insegnavano: “Non ci si può santificare in laghi e fiumi né purificarsi con un qualsiasi lavaggio d’acqua. Impuri si rimane finché vengono disprezzati i comandamenti di Dio”.

Gesù si inserisce nella linea spirituale dei profeti e dei maestri pii del suo tempo; punta sul rinnovamento della vita e prende una posizione severa contro la religione ridotta all’osservanza di un codice giuridico. Afferma che a Dio non interessano la purezza esteriore, i formalismi, le solenni liturgie del tempio, le apparenze. Come i profeti (Am 5,21-27; Is 1,11-20; 58,1-14) condanna senza riserve questa “farsa religiosa” e, citando Isaia, dichiara: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (vv. 6-7).

L’evangelista Matteo riferisce un’altra parola profetica, alla quale pare che Gesù fosse solito ricorrere per risolvere le diatribe con i fautori del culto delle tradizioni: “Andate e imparate che cosa significhi: Opere d’amore io voglio, non sacrifici!” (Mt 9,13; 12,7).

Nel brano di oggi, coloro che divinizzano queste tradizioni sono qualificati come ipocriti, cioè, attori, commedianti che si coprono il volto con la maschera della religiosità, della devozione, della docilità, che si atteggiano a persone pie, ma, trascurando l’unico culto gradito a Dio, l’amore verso il fratello, onorano il Signore solo a parole e con le labbra, non col cuore (Dt 6,5).

Gli evangelisti non ci avrebbero conservato queste parole dure del Maestro se non avessero intuito la perenne attualità del rischio di introdurre nella chiesa questo culto ipocrita e del pericolo di porre sullo stesso piano la legge di Dio e le tradizioni degli uomini.

L’osservanza rigorosa di norme chiare e ben definite dà la sensazione di aver fatto il proprio dovere, fa sentire sicuri di fronte al Signore, induce addirittura a ritenere di essere in credito con lui.

Costruire la propria vita nella libertà dei figli di Dio, essere continuamente disponibili al fratello è più difficile. Le esigenze dell’uomo cambiano e chi ama deve chiedersi, in ogni momento, cosa è chiamato a fare, cosa gli è richiesto, cosa il fratello si attende da lui. L’amore non è dettato da norme, ma è inventato momento per momento, richiede fantasia, attenzione, disponibilità totale e incondizionata.

La religione del cuore può essere praticata solo da chi ha raggiunto una fede adulta e matura, da chi è libero, sincero, aperto alla luce di Dio ed agli impulsi dello Spirito. I “neonati in Cristo” (1 Cor 3,1) temono il rischio, preferiscono ricevere disposizioni precise e minuziose, anche se, nel loro intimo, si rendono conto che questa religione non è liberante, non comunica gioia e serenità interiore, ma solo tensioni e ansie.

Nella seconda parte del brano (vv. 14-23) Gesù stabilisce il criterio che permette di discernere fra le azioni pure e impure. Quelle che contaminano l’uomo non vengono dall’esterno, ma dall’interno, dal cuore.

L’elenco di dodici vizi (sei al plurale e sei al singolare) che rendono impuri indica quali sono i punti su cui, chi si ritiene religioso si deve esaminare. Ciò che discrimina fra azioni buone e azioni malvagie non è la conformità o difformità da una norma, ma il fatto di essere in favore o contro l’uomo. E ciò che è affermato per i cibi vale per tutti gli altri precetti derivati dalle “tradizioni degli antichi”.

Al centro della gradinata che, dal lato meridionale, introduceva nel tempio di Gerusalemme, erano collocate numerose vasche adibite alle purificazioni dei sacerdoti e dei pellegrini che salivano per offrire sacrifici. A chi è divenuto cristiano, queste vasche non servono più perché, ai suoi discepoli, Gesù chiede solo la purità di cuore. Alla domanda: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?”, egli, con il salmista, risponderebbe: Chi ha mani innocenti e cuore puro (Sl 24,1-2) e aggiungerebbe: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello. Poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Solo chi è in pace con il fratello è puro e può accostarsi a Dio.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News