Esegesi e meditazione alle letture di domenica 8 Aprile 2021 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: 1 Re 19,4-8

In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò.

Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
 

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Elia sta fuggendo l’odio di Gezabele e si inoltra nel deserto. Lì si abbandona alla disperazione e vorrebbe morire. Il paragone è con Mosè che prostrato dal peso della missione di guidare il popolo nel deserto si lamenta con Dio e lo invoca: «Se mi devi trattare così, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, io non veda più la mia sventura» (Num 11,15; cf. Gb 7,15; Tb 3,6).

Proprio nel momento del massimo sconforto interviene il Signore con una chiamata e l’offerta del cibo (1 Re 19,5).

Elia trova una focaccia «cotta su pietre roventi» (19,6). Rashi il massimo commentatore medievale ebraico nota che il vocabolo ebraico rafim tradotto con «pietre roventi» è lo stesso che si trova in Isaia 66 ma al singolare rafa, indica la pietra ardente (di solito tradotta con carbone) che ha in mano il serafino (il vocabolo ebraico ha la stessa radice «ardere») con il quale purifica la bocca del profeta. Si tratta di una focaccia cotta per così  dire, sul braciere che arde davanti a Dio stesso.

La prima chiamata non basta a rinfrancare Elia. Il profeta si riaddormenta, non ha ancora la forza di riprendere a seguire la volontà del Signore.

Questo riaddormentarsi di Elia è il segno della riluttanza del profeta a seguire la vocazione del Signore, che intuisce difficile e piena di ostacoli.

Lo stesso Mosè cerca di opporre delle scuse che lo esonerino dal gravoso compito che Dio vuole affidargli (cf. Es 4.10.13). Geremia obietta di essere troppo giovane (Ger 1, 6) e Giona tenta addirittura la fuga.

L’Angelo del Signore, che rappresenta Dio stesso, chiama Elia e lo invita a mangiare una seconda volta: solo dopo aver mangiato la seconda volta il profeta è pronto per il cammino fino all’Oreb, vale a dire il Sinai per ricevere e abbracciare con energia rinnovata l’insegnamento (Tôràh) del Signore e a predicarlo in Israele.

Seconda lettura: Efesini 4,30-5,2

Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. 

I versetti della lettera agli Efesini che leggiamo oggi fanno parte di una lunga esortazione a comportarsi secondo le esigenze della vita nuova ricevuta nel battesimo.

Il v. 30 propone la motivazione teologica del dovere di comportarsi secondo i dettami descritti nella parentesi precedente e successiva: «non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio». Questa immagine fa percepire lo Spirito divino quasi fosse un educatore che partecipa alla vita dell’educando.

Lo Spirito non è presentato come un principio astratto, ma, per così dire, persona capace di sentimenti; il verbo greco lupein indica una relazione interpersonale (cf. 2Cor 2,2-5; 7,8-9).

È nello Spirito che i cristiani «sono stati segnati» nel «giorno della redenzione» (Ef 30b). Il riferimento è al battesimo che è il sigillo dello Spirito e inizio della redenzione, che avrà una sua manifestazione nel «giorno del Signore» espressione paolina simile a quella usata qui e che indica la parusia o manifestazione ultima del Cristo (cf. 1 Ts 5,2; 1Cor 1,8; 2Cor 1,14).

I v. 31 e 32 indicano gli atteggiamenti e i comportamenti da evitare e quelli invece da praticare. L’autore specifica in cinque sinonimi «tutte le malignità (kakia)» da evitare, o meglio si può dire che vengono indicati quattro comportamenti frutto dell’ira, che i cristiani devono bandire nei rapporti fra loro (cf. v. 26): asprezza, sdegno, clamore, maldicenza. I battezzati, invece, devono imitare il comportamento di Dio rivelato in Cristo ed essere fra loro benevoli, misericordiosi e pronti al perdono.

Il principio dell’imitazione di Dio è espresso esplicitamente in 5,1: «Fatevi dunque imitatori di Dio», che rammenta il comandamento biblico «Siate santi come Io [il Signore] sono santo» (Lev 19,2) ripreso da Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 48) e in Luca «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

In 5,2 l’autore della lettera, per inculcare nei cristiani che il «culto» veramente gradito a Dio è il darsi per amore ad imitazione di Gesù Cristo, usa una combinazione di due elementi che si trovano nella Bibbia in contesti diversi. Usa i termini «oblazione e vittima» (prosfora kai thusia nel v. 5,1 tradotto «offrendosi a Dio in sacrificio») che sono citati anche in Eb 10,5 ripresi dal salmo 40,7 «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta». 

Vangelo: Giovanni 6,41-51

In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Esegesi

Nel brano del Vangelo di Giovanni tratto dal capitolo 6 continua il discorso sul «pane di vita» iniziato al v. 26 e che si prolunga fino alla fine del capitolo. Si tratta di un discorso il cui ambiente vitale è la liturgia.

Gli studiosi vedono in 6,26-50 la liturgia della parola e in 6,51-58 quella eucaristica.

I vv 41-42 servono da commento alle parole precedenti di Gesù e sono occasione per la continuazione del discorso. I protagonisti sono detti «giudei», termine che in Giovanni ricorre 77 volte, (5 in Matteo e Luca e 6 in Marco). Tale uso indiscriminato del termine è indice che quando l’evangelista compone il suo Vangelo, siamo ormai nel periodo in cui i «giudei» (ebrei) in diaspora si stanno riorganizzando e cercano di ricomporre la loro identità intensificando lo studio della Tôràh, dal quale nascerà il Talmud e la tradizione del giudaismo rabinico, che è il filone fondamentale dell’ebraismo giunto fino a noi.

Il cristianesimo sta anch’esso mettendo a punto la propria dottrina; si stacca sempre di più dal giudaismo e afferma la sua identità spesso in polemica con il giudaismo, che ne costituisce la sua radice.

La società ebraica, invece, in terra di Israele e nei tempi in cui Gesù predicava è scomparsa. Essa era molto composita, come intravediamo dai sinottici, che parlano di sadducei, farisei, erodiani, zeloti, seguaci del battista, oltre che di giudei e galilei per indicare gli abitanti delle rispettive regioni. Dobbiamo tener presente questa distanza e differenza per non cadere nell’errore di identificare in tutti i «giudei» (ebrei) gli avversari di Gesù, mentre in realtà la quasi totalità degli interlocutori di Gesù ai tempi della sua predicazione erano giudei, sinonimo di ebrei e non semplicemente abitanti della regione della Giudea, come Gesù stesso, i suoi Apostoli e i suoi discepoli.

Prendere il termine «giudei», come purtroppo si è verificato, non prestando bene attenzione alla distanza e differenza fra la situazione di Gesù e quella posteriore della chiesa nascente, per indicare gli avversari di Gesù, è un errore, che ora siamo in grado di evitare grazie agli studi più approfonditi riguardanti l’ambiente del tempo di Gesù e quello della redazione dei Vangeli.

Nei versetti letti oggi «giudei», probabilmente galilei di provenienza, sono alcuni della folla che esprimono delle perplessità su un discorso veramente difficile e che si farà addirittura paradossale, se preso alla lettera e non in senso sacramentale, quando Gesù dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue» (Gv 6,54.56). Essi non contestano che Dio possa dare «un pane di vita», ma sono stupiti che Gesù possa dire di sé di «essere il pane di vita». Essi infatti conoscono bene la sua famiglia, vale a dire lo conoscono per un uomo normale. Anche nei sinottici la conoscenza della famiglia terrena è un ostacolo alla comprensione di Gesù (cf. Mc 6,3; Mt 13,55-57; Lc 4,22).

Al versetto 43 Gesù riprende a parlare; e invita a «non mormorare».

Non è infatti uno sforzo personale di interpretazione delle sue parole che le farà comprendere, ma una chiamata del Padre: «nessuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira» (cf. Mt 16,17). Si tratta di una vocazione, dono gratuito di Dio. In linguaggio tradizionale si dice che è la grazia preveniente di Dio che suscita la fede.

Frutto dell’attrazione del Padre e della conseguente fede in Gesù sarà la risurrezione: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,44; cf. 6,39.40.54; 11,24).

Come spiegazione dell’opera di Dio, l’evangelista cita un versetto di Isaia (54,11), seguendo con una certa libertà la versione della Bibbia ebraica dei LXX.: «E saranno tutti istruiti da Dio», «Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me» (Gv 6,45). L’insegnamento del Padre deve essere ascoltato ed accolto.

Siamo qui alla presenza del mistero di Dio che chiama, e a quello della libertà della persona, che deve rispondere. Una persona non può venire alla fede senza «attrazione e insegnamento» divino, ma al tempo stesso conserva la libertà di rispondere positivamente o negativamente a questa chiamata. Si tratta di una accoglienza nell’ascolto, secondo la via normale indicata da Dio ad Israele: «Ascolta Israele» Shemà Israel (Dt 6,4), non secondo la visione: «Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (Gv 6,46).

«Chi crede ha la vita eterna» (6,47), già fin da ora il credente, che sarà risuscitato «nell’ultimo giorno» partecipa della vita di Dio attraverso Gesù, che si fa «pane di vita». Perché chi lo mangia non muoia. Viene qui introdotto il discorso del «mangiare» che continua nel seguito del capitolo e che va inteso in senso sacramentale.

Gesù stesso è il pane che discende dal cielo, non il pane materiale, fosse pure la manna donata come cibo ad Israele nel deserto. Si tratta della «carne» stessa di Gesù, donata per la vita del mondo. (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19).

Il paragone con la manna, il cui nome ebraico è man hu, «che cosa è» ed e l’espressione degli ebrei quando la videro per la prima volta, sottolinea il dono gratuito di Dio che deve sorprendere coloro a cui è rivolto come ha sorpreso gli ebrei nel deserto. Si tratta di entrare nel mistero di Dio in Gesù che si dona per la vita del mondo e che si può accogliere solo nella fede, dono di Dio.

Meditazione

La prima lettura di questa domenica ci mostra il profeta Elia smarrito e disorientato, al punto di inoltrarsi nel deserto per cercarvi la morte. In questo momento egli ha perso il senso di Dio, che sembra essere entrato nel silenzio e aver abbandonato il suo profeta. Di fronte all’idolatria dilagante in Israele, Dio sembra tacere e disinteressarsi di quanto accade. Tutta l’identità di Elia è nella sua relazione con Dio, «alla cui presenza io sto» (cfr. 1Re 17,1). Se Dio tace, Elia smarrisce se stesso e il significato della propria esistenza. «A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,l). Più che cercare la morte, Elia cerca Dio e la sua parola. Il suo inoltrarsi nel deserto è come un grido innalzato verso Dio perché torni a parlare e a manifestarsi. E Dio ascolta il grido del suo profeta, parla, si rivela. A un Elia disorientato dona di nuovo un orientamento, apre una strada davanti ai suoi passi, offrendo anche un pane che sostenga il suo cammino. L’itinerario che Elia dovrà percorrere è lo stesso vissuto dai suoi padri, di cui sa di non essere migliore: quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb, altro nome con cui si identifica il Sinai, il monte dove Dio aveva parlato a Mosè e aveva stipulato l’alleanza con il suo popolo. E come la manna aveva nutrito Israele durante il cammino nel deserto, così ora c’è un pane che nutre il cammino di Elia. Il primo libro dei Re, nei versetti successivi, racconterà come l’esperienza di Dio che Elia vivrà sull’Oreb sarà molto diversa da quella vissuta da Mosè sullo stesso monte. A Elia Dio parlerà non in un vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco (elementi presenti nella grande teofania alla quale assiste Mosè in Esodo 19), ma nella voce di un silenzio sottile. Per ascoltare questa voce, e riconoscere in questo silenzio la presenza di Dio, Elia stesso dovrà entrare nel silenzio, mettendo a tacere le attese e i preconcetti con cui immaginava che Dio gli si rivelasse. Se fosse rimasto bloccato nei suoi pregiudizi, non avrebbe saputo ascoltare e riconoscere questo diverso modo di manifestarsi da parte di Dio. Potrà così comprendere che talora, quando Dio entra nel silenzio, è perché cambia il suo modo di parlare e vuole purificare la nostra attesa.

Il Vangelo di Giovanni, di cui ascoltiamo un’altra sezione del capitolo sesto, mostra come i Giudei rimangano prigionieri della loro incredulità proprio perché incapaci di riconoscere la rivelazione di Dio nella carne di Gesù. Dio entra persino in questo silenzio per manifestare la sua gloria: il silenzio di una carne in tutto simile alla nostra, ma che già prelude a un abbassamento ben più profondo, quello che giunge fino al silenzio della Croce. Il Prologo del Vangelo lo aveva già annunciato: «il Verbo, la Parola, si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (1,14). Tutta la gloria di Dio si rivela nel farsi carne della Parola e nel suo dimorare in mezzo a noi. Questo occorre ascoltare, vedere, contemplare per fare esperienza di Dio. Ma è proprio questo che suscita la mormorazione e l’incredulità dei Giudei: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire “Sono disceso dal cielo?”» (6,42). È lo scandalo dell’incarnazione a impedire la fede. Due schemi o due logiche di pensiero si contrappongono. Per i Giudei la carne di Gesù, il suo essere uno di noi, smentisce la sua pretesa di venire dal cielo e di essere il rivelatore di Dio. Al contrario, per Gesù è proprio la sua carne, il suo venire dal cielo per dimorare tra di noi come uno di noi, a dire tutta la verità di Dio. Dio è infatti così: è colui che tanto ama il mondo da donare il proprio Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna», come annuncia Gesù a Nicodemo (3,16).

«Solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,26), afferma Gesù per vincere l’incredulità dei suoi interlocutori. Occorre intendere in senso forte questa espressione. Non sta a indicare solamente che Gesù conosce il Padre perché viene da lui, appartiene alla sua sfera, è da sempre rivolto verso il seno del Padre (come ricorda ancora il Prologo nel versetto conclusivo, il 18). Più radicalmente, Gesù conosce il Padre perché si lascia da lui donare al mondo fino allo scandalo dell’incarnazione e della Croce. Conoscere il Padre significa infatti ri-conoscere la gratuità del suo dono, o meglio il suo essere il Donatore. In secondo luogo, si può riconoscere il Padre come Donatore solo lasciandosi consegnare al mondo, come Gesù, che fa di tutta la sua vita un’offerta: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51).

Per giungere alla fede occorre perciò spezzare le catene dei propri preconcetti su Dio, lasciandosi attirare dal Padre e istruire da lui. «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato… Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (v. 45). La fede implica lasciarsi strappare alle proprie certezze, che ci scandalizzano e ci conducono a mormorare, per divenire docili all’attrazione con cui il Padre ci fa venire a Gesù. Lasciarci consegnare a Gesù ci fa entrare in quella dinamica del dono che qualifica tutta la sua vita. Le sue mani ci accolgono, ci custodiscono, così che nessuno vada perduto, ma venga da lui risuscitato nell’ultimo giorno. Gesù lo aveva poco sopra affermato dialogando con i suoi interlocutori, in alcuni versetti che la lectio liturgica omette e che può essere utile qui richiamare: «Tutto ciò che il Padre mi , verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.

E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno (6,37-39).

A Elia Dio aveva offerto un pane che gli consentisse di camminare fino all’Oreb. A ciascuno di noi Dio dona il proprio Figlio unigenito come un pane che ci fa camminare verso il Padre. Ci rende figli come lui è Figlio, ci rende dono come lui è Dono. Solo così possiamo conoscere il vero volto del Padre, che non trattiene il Figlio per sé, ma lo offre affinché  nessuno vada perduto. La logica implicita nel segno operato da Gesù si chiarifica: dopo aver sfamato la folla, Gesù ordina: «raccogliete (meglio: radunate!) i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Gesù offre la propria carne per la vita del mondo, affinché  nessuno vada perduto. È pane di vita che ci comunica la vita eterna, una vita che non si perde, non deperisce, non viene meno proprio perché vive il passaggio dalla logica del possesso a quella del dono. Nei Sinottici Gesù esprime questa dinamica con le parole: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 6 15) In Giovanni afferma: «Ho il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Gesù, pane di vita, ci comunica la vita eterna, una vita che rimane perché riceve da lui la medesima possibilità che egli riceve dal Padre, nell’obbedienza alla sua parola e al suo comandamento: la possibilità di riprendere la vita perché la si offre per la vita del mondo.

Commento a cura di don Jesús Manuel García