Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 1 agosto 2021.
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Un pane che dona la vita eterna
Il sogno dell’uomo è, da sempre, avere la vita, la vita immortale. Per ottenerla, Gilgamesh, l’eroe della letteratura mesopotamica, aveva sfidato il mostro Humbaba nel giardino dei cedri; poi era sceso nell’abisso dei mari per impossessarsi dell’erba che si chiama “Il vecchio diventa giovane”, l’aveva raggiunta, ma un serpente gliela sottrasse. Triste il destino dell’uomo, nato per morire! Sconsolato, anche il salmista concludeva: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (Sl 49,9-10).
Pur essendo breve come un soffio (Sl 144,4), questa vita è sacra e intangibile.
Nella lingua ebraica il verbo vivere non è mai applicato agli animali o alle piante, ma solo all’uomo ed è usato come sinonimo di guarire, recuperare la salute, essere felice. Solo chi conduce un’esistenza serena, senza malattie, colma di gioia, vive realmente; il pianto e il dolore sono segni di morte.
Il pane mantiene, ma non assicura per sempre la vita biologica, destinata a spegnersi, e la mitica pianta dell’immortalità è una chimera. Dio ha però un pane che comunica la vita eterna e lo ha donato al mondo, perché vuole che tutti gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10). “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso” (Sap18,14), egli inviò la sua parola, “in lei era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Ogni giorno mi devo alimentare della parola che esce dalla bocca di Dio”.
Prima Lettura (Es 16,2-4.12-15)
2 Nel deserto tutta la comunità degli israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. 3 Gli israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine”.
4 Allora il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no. 12Ho inteso la mormorazione degli israeliti. Parla loro così: Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore vostro Dio”.
13 Ora alla sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino vi era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. 14 Poi lo strato di rugiada svanì ed ecco sulla superficie del deserto vi era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. 15 Gli israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: “Man hu: che cos’è?”, perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: “È il pane che il Signore vi ha dato in cibo”.
Secondo gli attuali criteri scientifici, alcune guarigioni sono inspiegabili, per questo, se è stato invocato qualche santo, le si attribuisce al suo intervento. Altre, quelle ottenute con la somministrazione di farmaci, sono ritenute un fatto naturale e non viene chiamato in causa il soprannaturale. Eppure viene da chiedersi se chi è curato dal medico debba essere meno riconoscente al Signore; la seconda grazia è forse inferiore alla prima?
Per chi crede, tutti gli eventi, anche i più ordinari, parlano di Dio. Un’incantevole aurora, il profumo dei narcisi, il sorriso di un povero, il pianto di una madre o il dolore di un bimbo, sono un invito a sollevare lo sguardo al cielo, sono segni dell’amore del Signore e spesso anche motivo di legittimi interrogativi sul suo modo di gestire il creato e di intervenire nella storia dell’uomo.
Israele è un popolo che crede nel Signore e non ha bisogno di verificare interventi straordinari per accorgersi della sua presenza. Io sono colui che ti sto sempre accanto è il significato del nome con cui si è rivelato a Mosè (Es 3,14) e, durante l’esodo, la sua assistenza è apparsa evidente in ogni istante.
Nella lettura di oggi sono riferiti due fatti che Israele ha letto con gli occhi della fede: le quaglie e la manna. Si tratta di fenomeni molto naturali, ben noti, che si verificano anche oggi. In primavera e in autunno le quaglie emigrano a stormi fra l’Africa, l’Arabia e i paesi del Mediterraneo. Quando, stremate, sostano nella penisola del Sinai, divengono facile preda dei beduini. La manna, a sua volta, non è che la secrezione biancastra che fuoriesce da un arbusto che cresce nel deserto del Sinai e che è detto dai botanici Tamarix mannifera. Dio ha nutrito il suo popolo facendogli trovare questi alimenti lungo il cammino; divennero il segno della sua protezione e del suo amore. Le quaglie e la manna apparvero, ai credenti, doni del cielo.
Il nostro brano inizia con le mormorazioni del popolo che, dopo i primi giorni di entusiasmo per l’avvenuta liberazione, comincia a sentire nostalgia dell’Egitto (vv. 2-3). È significativo il fatto che la terra di schiavitù, dei lavori forzati e delle percosse ora venga ricordata, in un momento di allucinazione collettiva, come un Eden dove si banchettava a base di carne e di pane a sazietà.
È l’immagine di quanto accade a chi, abbandonata la condizione di peccato, di schiavitù dei vizi e delle passioni sregolate, ha intrapreso il cammino verso la libertà. Trascorsi i primi momenti di serenità e di pace, che accompagnano sempre le conversioni al Signore e le scelte evangeliche, è normale che compaia il rimpianto per la vita antica, per le abitudini, per comportamenti che non costituivano un motivo di vanto, ma offrivano pur sempre vantaggi e qualche gratificazione.
Di fronte alle mormorazioni del popolo ci aspetteremmo una reazione dura da parte di Dio, invece no, egli non castiga, risponde inviando la manna (v. 4).
Nei momenti di scoraggiamento, quando si è tentati di ritornare sui propri passi, non va dimenticato che Dio non si arrabbia per le fragilità dell’uomo, non si sdegna per le debolezze e le ricadute. Non solo non punisce chi è esitante, ma lo accompagna più da vicino e, come ha fatto con Israele, gli offre nuovi segni del suo amore, nuove prove della sua presenza.
Il dono della manna, da un lato fu un aiuto, dall’altro costituì una prova per Israele, uno stimolo per la crescita della sua fede. Il cammino nel deserto doveva servirgli da apprendistato, doveva essere una scuola per abituarlo al controllo dell’avidità. Doveva imparare a non accaparrarsi una quantità di beni superiori al bisogno giornaliero, ad accontentarsi del “pane quotidiano”, mostrando che nutriva piena fiducia nell’amore provvidente del suo Dio.
La lezione di vita appresa da Israele rimane valida per l’uomo d’oggi, sempre tentato di dominare non solo il presente, ma anche il futuro, che invece appartiene solo a Dio. Nel Padre nostro Gesù invita a chiedere al Signore non la sicurezza per l’avvenire, ma il pane “per questa giornata”. Chi prega così si rifiuta di accumulare cibo “per il giorno seguente”, mentre i fratelli soffrono la fame “oggi”, libera il proprio cuore dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani (Lc 12,22-34).
Anche i rabbini del tempo di Gesù raccomandavano di non lasciarsi dominare dalla inquietudine e dall’affanno per il cibo. Rabbi Eliezer insegnava ai suoi discepoli: “Chi ha da mangiare per oggi e si chiede: che cosa mangerò domani?, è un uomo di poca fede”.
L’ultima parte del brano (vv. 13-15) chiarisce che la manna non è stata un dono di Mosè al popolo; egli se ne è cibato, assieme agli altri. È stato il Signore a dare questo alimento. Mosè ha solo saputo riconoscere l’origine del dono e ha invitato il popolo a guardare verso l’alto, verso Dio (v. 15), nell’attesa che egli inviasse dal cielo l’altro suo pane, quello che comunica la vita che non perisce (Dt 8,2-3).
Seconda Lettura (Ef 4,17.20-24)
17 Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente.
20 Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, 21 se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22 per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici 23 e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24 e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.
La seconda parte della Lettera agli efesini è dedicata alle esortazioni morali. Nel brano di oggi l’autore invita a trarre le conseguenze pratiche dalla conversione al Signore.
Si rende conto che i cristiani sono sempre soggetti alla tentazione di reintrodurre, nella propria vita, la condotta e i ragionamenti pagani, definiti “privi di senso”, inseguimenti del nulla (v. 17).
Tratteggia poi un’immagine fosca del mondo pagano: “Accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile” (vv. 18-19). L’accentuazione dei tratti negativi è evidente; i solidi principi e i valori dell’etica stoica sono completamente ignorati. Il pastore d’anime appare qui preoccupato che il cristiano, divenuto “nuova creatura”, ricada nei vizi di prima, si abbandoni alla lussuria e si lasci guidare dall’avidità del denaro.
Dopo aver presentato i diversi aspetti negativi, tipici della vita pagana, l’autore sintetizza la morale di chi ha conosciuto Cristo con un’espressione tanto semplice, quanto efficace: “Voi non così!” (vv. 20-21). Poi continua ricorrendo a un’immagine: il discepolo si è spogliato dell’uomo vecchio e si è rivestito di un abito nuovo (vv. 22-24). Nel giorno del battesimo in lui è avvenuta una trasformazione radicale, ha gettato lontano, come si fa con un vestito logoro e immondo, le dissolutezze, le miserie morali, le passioni ingannatrici e, dall’acqua, è uscito un uomo nuovo, rivestito di Cristo (Gal 3,27).
Vangelo (Gv 6,24-35)
La scena conclusiva del vangelo della scorsa domenica segnava, secondo quelli che sono i criteri degli uomini, l’apice del successo di Gesù. Una folla immensa lo ha acclamato e, mossa da un incontenibile entusiasmo, ha cercato di prenderlo per farlo re. Quello che sembrava un trionfo era invece, per Gesù, il più deludente dei risultati, la prova che non era riuscito a far comprendere il segno. Il suo gesto era stato equivocato: aveva proposto la condivisione e avevano capito comoda moltiplicazione del cibo.
Per riflettere sul modo con cui introdurre la folla nella comprensione del segno del pane, Gesù si ritira sulla montagna (Gv 6,15), ma il giorno seguente tutti si mettono sulle sue tracce e, raggiuntolo a Cafarnao, gli chiedono: “Maestro, quando sei venuto qui?” (vv. 24-25).
Gesù non risponde alla domanda che gli è stata posta, ma a quella vera, quella che tutti gli vorrebbero rivolgere: “Ripeterai anche oggi il prodigio? Ci assicurerai per sempre il pane?” ed entra subito nel vivo del problema: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna” (vv. 26-27).
Si è reso conto che non lo cercano perché hanno fame della sua parola, perché vogliono approfondire il suo messaggio ed essere aiutati a comprendere il gesto che ha compiuto; sperano solo di continuare ad avere pane in abbondanza, gratuitamente, senza lavorare.
Nella prima parte del brano (vv. 24-27) Gesù comincia col dissipare la confusione che si è creata. Non è venuto per trasformare, con la bacchetta magica, le pietre in pane, ma per insegnare che l’amore e la condivisione producono pane, in abbondanza; poi accompagna i suoi ascoltatori dal primo gradino della fede, quello dell’ammirazione e della riconoscenza per il pane ricevuto, al secondo, più elevato, quello della comprensione del messaggio contenuto nel dono che ha fatto.
Nell’incomprensione della gente di Cafarnao, l’evangelista vuole che ogni cristiano scorga, come in filigrana, la propria incomprensione. Egli rivolge al discepolo l’invito a fare una verifica, a chiedersi per quale motivo cerca il Signore, ricorre a lui, prega, pratica una religione. Molti, come coloro che hanno assistito al fatto dei pani, dovrebbero ammettere di essere mossi dalla segreta speranza di ottenere da Gesù il cibo che perisce: grazie speciali, miracoli, salute, successo, benessere, protezione contro le sventure. Il proliferare, in certi settori ecclesiali, di pratiche affini alla magia per conseguire guarigioni e assicurarsi il favore del Signore, prova che l’equivoco sul pane che Gesù offre è sempre attuale. Anche la samaritana non aveva capito che il Maestro le donava un’acqua diversa da quella del pozzo.
Qual è allora il cibo “che dura per la vita eterna”?
Nel vangelo della scorsa domenica ci è forse sfuggito un particolare: all’inizio del racconto c’erano i pani e i pesci, poi questi ultimi, stranamente, erano stati dimenticati e l’attenzione si era concentrata tutta sul pane. Anche alla fine, dopo la raccolta dei dodici canestri di pani avanzati, ci saremmo aspettati un accenno ai pesci, invece nulla, non erano comparsi e non saranno più ricordati neppure nel lungo discorso di Gesù.
Il simbolismo dei cinque pani e dei due pesci risulta subito chiaro a chi conosce il linguaggio biblico e ricorda le parole di Mosè: “L’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) e l’invito rivolto agli inesperti dalla Sapienza di Dio: “Venite, mangiate il mio pane” (Pr 9,5); “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro denaro per ciò che non sazia?” (Is 55,1).
Eccolo il pane del Signore: la sua parola, il suo insegnamento; pane di vita sono i cinque libri del Pentateuco, la Toràh.
E i due pesci? Sono il companatico del pane: rappresentano le altre due serie di libri sacri di Israele, i Profeti e le altre Scritture, che servivano da complemento alla Toràh, aiutavano a comprenderla e ad assimilarla meglio.
Ora rimane solo il pane. Sulla barca – nota Marco – i discepoli “hanno con sé un pane solo” (Mc 8,14), Gesù, nella cui parola è presente tutto l’alimento che Dio ha dato al suo popolo. Chi ha lui non necessita di altro pane, non ha bisogno di altre rivelazioni.
È in questo simbolismo che Gesù vuole introdurre i suoi ascoltatori che invece si ostinano a pensare solo al cibo materiale.
Come ci si alimenta di questo pane? Che cosa dobbiamo fare? – chiedono a Gesù le folle di Cafarnao. La risposta viene data nella seconda parte del brano (vv. 28-33).
Non molte opere, ma una sola, credere in colui che il Padre ha mandato. Non è richiesto altro.
Nel vangelo di Giovanni non si trova mai la parola fede, tanto cara a Paolo, ricorre sempre il verbo credere che indica l’atto vitale di chi si fida, in modo incondizionato, della parola di Gesù, di chi accoglie il suo vangelo e lo assimila come avviene con il cibo. Il vangelo è stato scritto “perché crediate che Gesù è il messia, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31). Chi crede in questo modo ha la vita eterna (Gv 3,16; 6,40.47).
Non basta essere convinti che Gesù è esistito, che è stato un grande personaggio, che ha predicato l’amore e ha dettato norme di vita sagge. Di tutto questo sono convinti anche gli atei. Quando la sposa dichiara di credere nel proprio sposo, intende dire che si fida ciecamente di lui, che condivide le sue scelte, che è disposta a giocarsi la vita con lui, sicura che, con nessun altro, potrebbe essere felice.
Gesù chiede questa fiducia incondizionata. Ecco la ragione per cui i giudei, prima di concedergliela, esigono da lui una prova concreta, un grande miracolo (vv. 30-33). Non è sufficiente il fatto dei pani, perché Mosè ha fatto molto di più, non ha dato la manna solo per un pasto e solo per cinquemila uomini, ha sfamato un intero popolo, per quarant’anni.
Gesù precisa: non è stato Mosè a dare il pane del cielo, è stato il Padre mio, lo stesso che dona oggi al mondo non più la manna, cibo che alimenta una vita destinata a perire, ma il vero pane del cielo, quello che dà la vita all’umanità intera. La manna ammuffiva (Es 16,20) come vengono corrosi dalla ruggine o rubati dai ladri i tesori accumulati in questo mondo; il pane di Cristo non perisce, quando viene raccolto in canestri e conservato, viene ridistribuito, sempre integro e saporito, a chiunque abbia fame.
Che è questo pane del cielo? Perché Gesù non lo dà subito a tutti? Nell’ultima parte del brano (vv. 34-35) è data la risposta a queste domande.
“Dacci sempre di questo pane” – chiede la folla. Una frase simile è stata pronunciata anche dalla samaritana: “Dammi di quest’acqua” (Gv 4,15). La donna non capiva quale fosse l’acqua promessa da Gesù e continuava a pensare a quella del pozzo. Ora il popolo cade nello stesso equivoco, non riesce a staccare il proprio pensiero dal pane materiale.
Gesù chiarisce: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”.
La Bibbia impiega spesso le immagini della fame e della sete per indicare il bisogno di Dio. “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”, cantava il salmista (Sl 42,3) e Geremia confessava al Signore: “Quando trovai le tue parole, le divorai con avidità; la tua parola fu per me una gioia e una letizia per il mio cuore” (Ger 15,16).
L’uomo brama la vita e tutto ciò che la favorisce e alimenta. In questa ricerca del cibo, purtroppo, spesso si inganna, perché, insegnavano i saggi, “per chi ha fame, anche l’amaro è dolce” (Pr 27,7). L’unico pane che sazia il suo bisogno di felicità è la parola di Cristo. Il suo vangelo, e non la manna del deserto, è il pane disceso dal cielo. Perché possa comunicare la vita, non deve però rimanere un testo da leggere e da valutare in modo distaccato, come si fa con i detti dei sapienti del passato, ma essere assimilato, come il pane che diviene vita di chi lo mangia.
Queste affermazioni di Gesù non si riferiscono ancora all’eucaristia. Il pane è egli stesso in quanto parola di Dio.
AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News