Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 27 Giugno 2021

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Cos’hanno in comune le due figure femminili – una dodicenne in fin di vita e una donna afflitta da perdite di sangue – la cui vicenda si sovrappone in modo emblematico, rendendole protagoniste di questo vangelo? A entrambe è preclusa l’esperienza della fecondità; infatti la figlia di Giairo sta per morire appena dodicenne, l’età in cui generalmente avviene il menarca, mentre la donna è afflitta da dodici anni da emorragie, che le impediscono di vivere appieno la propria femminilità, che nella bibbia rappresenta la vita, la maternità.

L’emorroissa ci mostra una femminilità sanguinante. La perdita di sangue nell’intimo indica tutto ciò che è il mondo delle ferite interiori, invisibili, che ci si vergogna a mostrare, di cui non si può parlare, che la gente non può comprendere perché spesso ignora e rendono impossibile vivere un’esistenza piena, feconda in tutti gli ambiti: relazionali, affettivi, spirituali. Una donna come l’emorroissa non può essere né sposa né moglie né madre.

Non appena tocca Gesù «subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male» (Mc 5,29). Il male non coincide con l’emorragia bensì deriva da qualcosa che la precede: il flusso di sangue è il sintomo, il male è qualcos’altro. Spesso siamo portati a confondere i vizi, le storture, le povertà umane come il male da debellare, quando invece essi sono il sintomo di un male che li precede; e questo male è sempre una menzogna interiore accolta come verità. Sempre! Stanare il male significa estirpare la parola falsa che conduce a quell’atteggiamento dannoso: la parola falsa porta sempre alla rottura del rapporto con Dio perché insegna a dubitare di Lui. Guarita la parola di menzogna – e la parola di Dio, il Verbo di Dio, fa esattamente questo – guarito il male.

«Udito parlare di Gesù…» (Mc 5,27). La storia di guarigione comincia sempre dall’ascolto di una parola di verità. «La donna aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (Mc 5,26). È interessante come questa donna abbia sofferto ancora di più a causa delle cure errate, che rappresentano le false soluzioni con cui spesso cerchiamo di uscire da un male e invece peggiorano la situazione. Così è fotografata la vita di molti: la paura di non essere accettati – ad esempio – porta alla falsa soluzione di svendere se stessi, dire sempre di sì rendendosi zerbini e zimbelli nell’elemosinare un briciolo di considerazione, ignorando il fatto che per Dio siamo la cosa più importante di ciò che ha creato. In questo caso la parola falsa da stanare – il male reale – è che la vita è intesa come successo relazionale, quando invece ha senso se si impara ad amare. Che è l’esatto opposto. Entrando nell’amore sparisce la svendita di sé e comincia il dono autentico.

«Se toccherò anche solo le sue vesti sarò salvata». Si guarisce toccando Cristo, entrando in relazione con lui. Lo si tocca nei sacramenti, nelle opere cristiane, nella chiesa, che è il suo mantello, la sua propaggine.

Chi ha toccato Gesù ed è toccato da lui ne porta il suo profumo e la sua bellezza.

«Figlia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34). Da sconosciuta questa donna diventa figlia. Il termine del percorso di guarigione è la figliolanza, è ritrovare l’identità perduta nel male che è quella di essere figli di Dio, Padre potente che arriva dove non arriva la paternità impotente di Giairo, simbolo dell’impotenza di tutte le paternità mondane.

È questa la condizione che ci rende fecondi.

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli